Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 22653 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 22653 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 05/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME NOME nato il 16/10/1970 a CASTELFORTE avverso la sentenza in data 19/09/2024 della CORTE DI APPELLO DI ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; letta la nota dell’Avvocato NOME COGNOME che ha replicato alla requisitoria del pubblico ministero e ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME per il tramite del proprio procuratore speciale, impugna la sentenza in data 19/09/2024 della Corte di appello di Roma, che ha confermato la sentenza in data 27/11/2023 del Tribunale di Cassino, che lo aveva condannato per il reato di cui agli artt. 633 e 639bis cod. pen. e aveva dichiarato non doversi procedere per il reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, estinto per prescrizione.
Deduce:
Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 604 e 521 cod. proc. pen.
Il ricorrente osserva che dall ‘istruttoria dibattimentale (testimonianze di COGNOME e COGNOME) e già dal capo d’imputazione emerge che l’autore del reato è il coniuge convivente dell’assegnataria dell’immobile; precisa che l’assegnataria dell’immobile è la propria madre e che il suo coniuge convivente è il padre dell’odierno ricorrente, così che l’affermazione della responsabilità si basa su di un travisamento della prova.
Denuncia la nullità della sentenza impugnata perché i giudici, una volta rilevata la diversità del fatto, avrebbero dovuto restituire gli atti al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 521 cod. proc. pen. , visto che i manufatti erano stati realizzati dal padre dell’imputato, così da consentire a NOME COGNOME di difendersi dalla diversa accusa di avere ristrutturato (e non realizzato e occupato) i due manufatti.
Aggiunge che l’accertamento della diversità del fatto avrebbe dovuto condurre all’assoluzione dell’imputato.
3. Vizio di motivazione.
Il ricorrente osserva che «la sentenza di appello reitera il travisamento dei fatti, delle prove e dello stesso capo d’imputazione laddove a pag. 2 rileva che dall’istruttoria sarebbe emersa l’occupazione del bene da parte dell’imputato, assegnatario d ell’abitazione», così indicandolo quale autore dell’originaria occupazione e illegittimo possessore, mentre l’istruttoria ha chiarito che l’occupazione era stata realizzata dal padre dell’odierno ricorrente, con la conseguenza che non può ritenersi sussistente il dolo richiesto per il reato in esame.
Si denuncia anche il vizio di omessa motivazione in relazione alla sussistenza del dolo.
Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. e 633 cod. pen.
Con l’ultimo motivo d’impugnazione, il ricorrente osserva che all’epoca del fatto la pena edittale era fino a due anni di reclusione o, in alternativa, la multa da 103,00 a 1032,00 euro.
Da ciò discende che la condanna inflitta, pari a mesi otto di reclusione non è pari al minimo, per come erroneamente ritenuto dalla Corte di appello.
Denuncia, altresì, la violazione dell’art. 2 cod. pen., in quanto viene applicata la pena prevista al momento della pronuncia della sentenza e non quella vigente all’epoca del fatto, così punendo anche le condotte protrattasi dopo la novella introdotta dal l’art. 30 Legge n. 132 del 2018.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso é fondato in relazione al trattamento sanzionatorio, infondato nel resto.
1.1. I primi due motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, rivolgendosi entrambi alla riconducibilità al ricorrente della condotta contestata.
I giudici del merito hanno accertato che l’originaria condotta di occupazione era stata realizzata dal padre del ricorrente.
In tal senso nella sentenza di appello i giudici osservano che l’imputato aveva «ereditato una situazione di fatto che era stata originata da suo padre . Tanto si è appreso dai testi COGNOME e COGNOME le cui dichiarazioni sono state riportate nella motivazione della sentenza impugnata , che hanno riferito che una sorta di originaria baracca collocata dal padre dell’imputato, costituita da lamiere, era stata acconcia ta, stabilizzata e rifinita dall’imputato, che la uti lizzava anche come ricovero di animali (cani, polli e quant’altro».
La sentenza di primo grado, poi, così riporta le dichiarazioni dei testi COGNOME e COGNOME: «Il COGNOME, precisando di conoscere da lunga data l’intero nucleo famigliare dell’imputato, in quanto dimorante in quel luogo, ha riferito che in qualche occasione il COGNOME lo aveva condotto in quel terreno, ricordando che ‘il padre aveva messo già qualche lamiera che c’avevano qualche gallina’ e che in seguito il figlio ‘l’ha sistemata…, l’ha rifatta… più decente’, sebbene lo stesso non era mai entrato al suo interno. Anche COGNOME ha sostanzialmente confermato la circostanza, assumendo che il padre dell’imputato, aveva, in quel luogo, ‘una stalla… una baracca’ e che costui, in seguito, l’aveva sostanzialmente rifinita».
1.2. In coerenza con le dichiarazioni rese dai testimoni, la Corte di appello, in uno con il giudice di primo grado, ha osservato che COGNOME «pur ‘ereditando’ una situazione di fatto che era stata originata da suo padre, non solo ha continuato a possedere illegittimamente l’area, ma ha contribuito in maniera f attiva a stabilizzarne gli effetti, rafforzando, ampliando e rifinendo le strutture precarie (baracca) che il padre aveva ivi collocato», nel senso che «una sorta di originaria baracca collocata dal padre dell’imputato, costituita da lamiere, era stata acconciata, stabilizzata e rifinita dall’imputato che la utilizzava anche come ricovero di animali».
I giudici hanno altresì appurato che l’imputato aveva apposto una recinzione, così escludendo gli altri condomini dal godimento di un terreno di pertinenza del complesso di abitazioni ATER.
1.2.1. Così ricostruito il fatto, la Corte di appello ha correttamente escluso che nel caso in esame vi fosse una continuazione nel possesso di alcuni manufatti costituenti la concretizzazione di un’occupazione iniziata da altri .
Quindi, i giudici hanno coerentemente escluso che nel caso in esame trovasse applicazione il principio di diritto a mente del quale «non integra il delitto di invasione di terreni o di edifici la condotta di chi continui a possedere un bene altrui (nella specie demaniale) per essere subentrato nel possesso di esso a un ascendente. (Fattispecie in tema di sequestro preventivo di immobili e di area ricadente nell’alveo di un fiume, pervenuti ai ricorrenti in qualità di eredi)» (Sez. 2, n. 10254 del 26/02/2019, NOME, Rv. 275768 -01; nello stesso sostanziale senso, Sez. 2, n. 36733 del 23/09/2010, COGNOME, Rv. 248293 -01; Sez. 2, n. 23756 del 04/06/2009, COGNOME, Rv. 244667 -01).
1.2.2. Non può, invero, configurarsi la continuazione nel possesso abusivo iniziato da altri, quando la condotta del successore non si limiti a ricevere passivamente il bene nello stato di fatto lasciato dal dante causa, ma si attivi mediante la realizzazione di opere che producono un ulteriore rafforzamento, consolidamento e ampliamento della situazione di fatto, così da distinguersi come una condotta configurante il delitto di cui all’art. 633 cod. pen. – autonoma e ulteriore rispetto a quella realizzata dall’originario possessore.
Tanto è accaduto nel caso in esame, dove COGNOME non si è limitato a ricevere la baracca e a possederla, ma ha realizzato vere e proprie opere edilizie che hanno stabilizzato l’opera precaria realizzata dal padre, ampliando anche i termini dell’occupazione , con la realizzazione di un recinto delimitante uno spazio comune.
Da ciò discende, al contempo, che il reato gli è stato correttamente contestato e che non vi è stata alcuna lesione del diritto di difesa, posto che l’imputato ha avuto pienamente modo di argomentare sul fatto contestato ed accertato, dal quale emerge la responsabilità per l’occupazione abusiva contestata, anche sotto il profilo dell’elemento psicologico, attesa la volontarietà delle opere realizzate .
Da qui il rigetto dei primi due motivi d’impugnazione, perché infondati .
2. Il terzo motivo d’impugnazione è fondato .
Va premesso che la Corte di appello ha richiamato un principio consolidato che, però, non trova applicazione nel caso in esame, per quello che si dirà.
La corte di appello ha rilevato che il reato di occupazione è un reato permanente e ha osservato che la permanenza è cessata alla data della sentenza di primo grado (pronunciata il 27/11/2023), quando era già entrata in vigore la novella normativa che ha aggravato il trattamento sanzionatorio previsto per il reato di cui all’art. 633 cod. pen., sostituendo alla pena detentiva alternativa alla pena pecuniaria (in vigore fino al 03/12/2018), la pena detentiva congiunta alla pena pecuniaria (vigente dal 04/12/2018).
La Corte di appello ha, quindi, ritenuto di applicare il principio secondo il quale, in presenza di un reato permanente, in caso di successione di leggi, deve applicarsi il trattamento sanzionatorio previsto al momento della cessazione della
permanenza (cfr., tra molte, Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020, Buono, Rv. 279476 -01).
Tale principio, però, trova applicazione nelle ipotesi in cui la contestazione della permanenza sia c.d. ‘aperta’, ossia senza specificazione del termine finale della condotta, ma non anche quando -come nel caso in esame- sia lo stesso capo d’imputazione a delimitare temporalmente la durata della condotta.
In tale ipotesi, invero, il regime sanzionatorio applicabile al reato permanente deve determinarsi con riferimento alla data di cessazione della permanenza così come contestata (cfr. Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020, cit.).
Nel caso in esame, ci si trova in presenza di una contestazione, c.d. ‘chiusa’, visto che l’occupazione viene temporalmente delimitata «dal 19/04/2016 al 18/06/2016)».
Da ciò discende la fondatezza del motivo d’impugnazione, con il quale il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per avere determinato la pena in applicazione di una disciplina più sfavorevole, che non era vigente all’epoca di cessazione della permanenza, così come indicata nel capo d’imputazione.
La sentenza va, dunque, annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che avrà il compito di rideterminare la pena considerando la pena pecuniaria in alternativa alla pena detentiva e non congiuntamente a essa.
3. Va rilevato, infine, che il reato non è attualmente prescritto.
Avendo riguardo alla cessazione della permanenza, così come indicata nel capo d’imputazione (18/06/2016), tenuto conto del massimo edittale e in applicazione degli artt. 157 e 161, cod. pen., essendo presenti atti interruttivi, il termine di prescrizione maturerebbe il 18/12/2023. Vanno, tuttavia, aggiunti i periodi di sospensione indicati sia dal tribunale, sia dalla Corte di appello, pari complessivamente a un anno, cinque mesi e ventuno giorni, senza che siano state opposte censure sul punto.
Applicando tale -pacifico- periodo di sospensione, il termine di prescrizione si sposta al giorno 08/06/2025, in data successiva alla pronuncia della presente sentenza.
Il reato non si è, dunque, prescritto e con l’odierna decisione l’affermazione di responsabilità diviene irrevocabile.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Roma. Rigetta nel resto il ricorso e dichiara irrevocabile l’affermazione di responsabilità.
Così deciso il 05/06/2025