Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 25907 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 25907 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 27/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME nato a Gemona del Friuli il 10/08/1954
avverso la sentenza del 16/09/2024 del Tribunale di Udine lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procu generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità de
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Presidente NOME COGNOME; ricorso;
lette le conclusioni della parte civile, avv. NOME COGNOME per la Regione Auto Friuli – Venezia Giulia;
lette le conclusioni presentate per .1 ricorrente dall’avv. memoria prese dall’avv. NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
NOME ricorre per la cassazione della sentenza emessa in data 16 settembre 2024 dal tribunale di Udine con la quale è stato dichiarato colpevole dei reati a lui ascritti ai capi 25) e 27) di rubrica, riqualificato quello di cui al capo ai sensi dell’art. 30 lett. b) legge 11 febbraio 1992 n. 157, e, unificati i fatti nel vincolo della continuazione, è stato condannato alla penna di mille euro di ammenda.
In relazione ai fatti per i quali ha riportato condanna, al ricorrente era stat contestato (capo 25 della rubrica) di aver, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, illecitamente detenuto esemplari di fauna particolarmente protetta ricompresi nell’allegato secondo della Convenzione di Berna e segnatamente n. 1 migliorino di palude, n. 1 zigolo muciatto, n. 3 verdone, n. 4 lucherino, n. 1 cardellino, n. 4 frosone, n. 4 pettirosso, n. 7 prospolone, n. 1 zigolo nero, n. 1 zigolo giallo, n. 2 passera scopaiola, n. 1 codirosso comune. Tale fatto risultava accertato in Udine 29 novembre 2019.
Era stato inoltre contestato (capo 27) di aver esercitato l’uccellaggione, tanto che venne trovato in possesso di: n. 1 rete da uccellagione; n. 2 gabbie trappola. Anche tale fatto risultava accertato in Udine il 29 novembre 2019.
Dal testo della sentenza impugnata risulta che la presente vicenda processuale trae origine da una segnalazione pervenuta al Nucleo Operativo per l’attività di Vigilanza Ambientale circa movimenti sospetti nella zona montana del Comune di Faedis, segnatamente nella vallata denominata Farcadizze, in località Canebola. Gli accertamenti confermarono che una vettura targata Udine, intestata a tale NOME COGNOME era solita raggiungere nelle prime ore del mattino un fabbricato rurale di proprietà di NOME RAGIONE_SOCIALE, appunto sito in località COGNOME. Attorno alle ore 4 del 6 settembre 2019, il COGNOME fu visto scendere dall’automobile, entrare nel fabbricato e poi allontanarsi. A distanza d’alcune ore, attorno alle 7.20, sul posto arrivò il fuoristrada di NOME COGNOME, seguito dalla Fiat Punto di lacob COGNOME. Dall’automobile furono visti scendere il COGNOME e un’altra persona mai identificata, i quali consegnarono a NOME COGNOME un trasportino per uccelli e delle reti da uccellagione.
Analoghi movimenti furono riscontrati in occasione di successivi appostamenti che alimentarono perciò il sospetto che in loco si praticasse l’uccellagione.
Sull’automobile del COGNOME, in data 10 settembre 2019, fu dunque installato un sistema di rilevamento GPS, e i dati confermarono che la vettura, nel periodo sino al 18 novembre 2019, aveva sostato nei pressi di una quarantina di siti nei quali gli operanti avevano poi riscontrato segni di un’avvenuta pratica di uccellag ione.
Nel corso di detti appostamenti, .a mattina dei 26 ottobre 2019, NOME COGNOME fu visto dagli operanti installare nel giardino della propria casa alcune reti per la cattura dei volatili e servirsi di richiami vivi per attirare la fauna migratoria di passaggio.
Secondo la deposizione dei verbalizzanti, il ricorrente si era appostato al primo piano della propria abitazione e, avendo abbassato la persiana del pertugio, era imèegnato nell’attività di cattura dei volatili di passaggio, essendo l’impianto attivo con richiami.
Le abitazioni degli imputati furono successivamente perquisite la mattina del 29 novembre 2019.
NOME COGNOME titolare di licenza di caccia, fu trovato in possesso di 70 uccelli vivi privi di anelli e documenti attestanti la legittima provenienza, oltre che di esemplari di specie protette o particolarmente protette, di una rete da uccellagione e di due trappole.
Sulla base di tali risultanze, il Tribunale ha ritenuto il ricorrente responsabile del reato di uccellaggione di cui al capo 27) di rubrica, stimando la fattispecie comprovata dai servizi d’osservazione svolti dai forestali.
Il giudice di merito ha poi esaminato la tesi dell’imputato il quale aveva dichiarato che la rete da uccellaggione, rinvenuta non “armata” nel corso della perquisizione del 29 novembre 2019, era in condizioni disastrose e, dunque, inidonea all’esercizio di quell’attività.
Secondo il logico ed adeguato convincimento espresso dal giudice di merito, la tesi è tuttavia stata smentita non solo da quanto accertato dai forestali, i quali avevano parlato del sequestro di una rete fruibile, essendo sufficiente tenderla, non bucata, non marcia, ma anche, e soprattutto dalle risultanze dell’attività di osservazione svolta in data 26 ottobre 2019, quando l’imputato fu visto tendere una rete a chiari fini di cattura, tanto da predisporre i richiami vivi e controllare da una finestra, l’intera attività.
Quanto poi alla detenzione di esemplari di fauna particolarmente protetta, il Tribunale ha accertato che la maggior parte dei volatiti detenuti fossero ricompresi nell’allegato II della Convenzione di Berna (così ad esempio il codirosso comune -phoenicurus phoenicurus), cosicché, riqualificata la fattispecie ai sensi dell’art. 30 lettera b) della legge n. 157 del 1992, ha ritenuto integrato il reato, respingendo la tesi del ricorrente secondo la quale i volatili in questione erano nati in cattività da altri esemplari che il ricorrente aveva dichiarato di aver continuato a far riprodurre nel corso degli anni, tanto sul riiievo che non era risultato che egli fosse titolare di alcuna autorizzazione all’allevamento di fauna selvatica a scopo alimentare, di ripopolamento, ornamentale o amatoriale.
Avverso la predetta sentenza, il ricorrente articola quattro motivi di gravame di seguito enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
4.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia l’inosservanza o l’erronea interpretazione della legge penale in relazione all’art. 522 cod. proc. pen. e lamenta la violazione del diritto di difesa (art. 606, comma 1, lettera b), cod. proc. pen.).
Premette di essere stato tratto a giudizio per il reato di uccellagione come “accertato in data 29 novembre 2019”.
Tuttavia, il Giudice di prime cure avrebbe, diversamente dal capo d’imputazione, stabilito la sua responsabilità per un episodio accaduto un mese prima di detto accertamento, avendo fondato l’esistenza dell’addebito sul fatto storico accaduto la mattina del 26 ottobre 2019, quando l’imputato fu visto installare nel giardino della propria casa alcune reti per la cattura dei volatili.
Il ricorrente osserva essere evidente che la condanna sia intervenuta per un accadimento naturalistico completamente diverso da quello indicato nel capo di imputazione: diverso sarebbe il fatto-concreto; diversi sarebbero i riferimenti spazio-temporali, con la conseguenza che ciò avrebbe determinato una grave e irreparabile violazione del diritto di difesa.
Assume che soltanto nel corso dell’istruttoria dibattimentale egli è venuto a conoscenza del fatto che durante le attività di indagine, nella giornata del 26 ottobre 2019, era stato eseguito un appostamento presso la di lui residenza con la constatazione dell’esistenza di un impianto di cattura predisposto mediante reti ed esposizione di richiami vivi.
Sottolinea come la modifica della fattispecie concreta, nel caso in esame, abbia investito il nucleo sostanziale dell’addebito: non solo vi è stata una radicale modificazione del thema probandum perché una cosa è difendersi in relazione alla detenzione di strumenti atti all’aucupio pronto all’uso, altro è difendersi in relazione alla pratica in concreto dell’uccellagione in una determinata occasione – ma anche il tempus commissi delicti è sostanzialmente diverso.
Dopo aver richiamato la giurisprudenza nazionale e convenzionale sul principio di correlazione tra accusa e sentenza nonché sul diritto di difesa, il ricorrente precisa che egli, all’origine del processo, si è potuto confrontare unicamente con la condotta contestata nel decreto di citazione a giudizio impostando la lista testimoniale e gli obiettivi istruttori per dimostrare le ragion per cui era stato trovato in possesso di strumenti ipoteticamente utilizzabili per l’aucupio.
Tali difese, anche istruttorie, sarebbero state del tutto diverse e più incisive rispetto all’esercizio del diritto di difesa ove il fatto naturalistico contestato fo stato quello relativo all’attività di osservazione del 26 ottobre 2019.
Rileva che, al fine di garantire il principio del contraddittorio e per la tute dell’effettività del diritto di difesa, si sarebbe dovuta disporre la modifi dell’imputazione ex art. 516 cod. proc. pen. ma nel caso di specie ciò non è accaduto.
4.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione nonché travisamento delle prove in punto dì sussistenza del reato di uccellagione (art. 606, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.).
Premette che, qualora la decisione del Tribunale si intenda assunta rispetto al fatto storico effettivamente contestato – ovvero quello accaduto il 29 novembre 2019 – la pronuncia sarebbe comunque viziata per difetto di motivazione, illogicità e travisamento delle prove in aperta contraddizione con una pluralità di elementi istruttori non esaminati dal Giudicante seppur decisivi.
In particolare, deduce che:
la rete trovata nell’abitazione dell’imputato in data 29 novembre 2019 non era armata ed era impacchettata, non essendoci perciò certezza sulla presenza dei legami che ne potessero consentire la tensione sui pali di sostegno e quindi sull’idoneità anche in astratto all’utilizzo;
le “gabbie” non erano state rinvenute vicino alla rete, bensì nel garage e, quindi, non si trattava di gabbie-trappola;
l’imputato era in possesso della rete da uccellagione in quanto tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, periodo nel quale era consentito uccellare con apposita licenza su appostamento fisso, svolgeva regolarmente tale attività;
nel corso dell’esame dibattimentale, ha affermato di essere stato uccellatore autorizzato con apposita licenza, che la rete rinvenuta fosse “un residuo” e che le gabbie sequestrate fossero rispettivamente l’una di libero commercio per la cattura delle gazze e i’altra realizzata a mano e di antica finitura;
i vicini non avevano mai visto reti tese nel giardino dell’imputato.
Tutti questi elementi conducono, ad avviso del ricorrente, alla univoca conclusione della illogicità e insostenibilità della motivazione riferita al reato uccellagione, contestato all’imputato, trattandosi di elementi dai quali invece emerge incontrovertibilmente l’insussistenza di qualsivoglia condotta colpevole.
Tuttavia, il Tribunale si sarebbe confrontato solo parzialmente con gli elementi emersi in sede istruttoria e, inoltre, ha fondato il proprio convincimento su elementi – segnatamente l’attività di osservazione del 26 ottobre 2019 – che configurano in astratto un autonomo fatto di reato, rispetto al quale, come
anticipato con il primo motivo di ricorso, l’imputato non si è potuto difendere, incorrendo la sentenza, anche per tale via, nel vizio di motivazione denunciato.
La motivazione della pronuncia impugnata sarebbe poi contraddittoria e manifestamente illogica perché non avrebbe chiarito per quale fatto-reato il ricorrente sia stato condannato: l’esercizio dell’uccellagione nella giornata del 26 ottobre 2019 o nella giornata del 29 novembre 2019? 0 entrambi? Né quale sia stata la condotta ritenuta penalmente rilevante: il concreto esercizio di attività di aucupio o la mera detenzione di mezzi idonei alio svolgimento di tale attività? O entrambe le condotte?
Sul punto la sentenza sarebbe oscura e contraddittoria, per nulla intelleggibile, e ciò ne determina, secondo il ricorrente, la nullità.
4.3. Con il terzo motivo il ricorrente si duole della contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione nonché travisamento delle prove in punto di sussistenza del reato di detenzione di animali di fauna selvatica particolarmente protetta (art. 606, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.).
Sostiene che la colpevolezza per la illecita detenzione di esemplari di fauna particolarmente protetta è stata desunta unicamente dal fatto che egli non fosse titolare di alcuna autorizzazione che iegittimasse l’allevamento della fauna selvatica rinvenuta.
Nel prevenire a tale conclusione il giudicante avrebbe confezionato una motivazione del tutto carente ed illogica per le seguenti ragioni:
il Tribunale non si sarebbe confrontato con elementi istruttori decisivi emersi nel corso dell’istruzione dibattimentale e richiamati nel motivo di ricorso (= a) l’imputato svolgeva l’attività di giudice nelle fiere canore; era solito f riprodurre gli uccelli da lui detenuti nelle voliere; provvedeva alla liberazione di quelli che non gli interessavano a livello di canto; b) l’imputato, fin quando l’aucupio era attività lecita, era in possesso della relativa licenza).
Tali acquisizioni, quindi, avevano sostanzialmente confermato che il ricorrente deteneva legittimamente in passato Fauna selvatica e che aveva continuato nel corso degli anni a far riprodurre tali uccelli a fini di interesse canoro.
Inoltre, tutti questi elementi, ad avviso del ricorrente, confermavano la nascita in cattività degli uccelli detenuti, che pertanto non potevano ritenersi come appartenenti a fauna selvatica di illecita detenzione, come affermato anche dalla giurisprudenza;
2) il Giudice di prime cure, nonostante avesse dato atto che gli uccelli detenuti dall’imputato erano nati in cattività, io avrebbe erroneamente condannato per l’ipotesi contravvenzionale di illecita detenzione in assenza di una specifica licenza all’allevamento, senza tenere conto che la normativa regionale commina una mera sanzione amministrativa per tale mancanza.
4.4. Con il quarto motivo (rubricato come il precedente con il n. 3) il ricorrente prospetta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 62-bis e 133 cod. pen. (art. 606, comma 1, lettere b) e c), cod. proc. pen.).
Osserva che il Tribunale di Udine ha determinato la pena negando la concessione delle circostanze attenuanti generiche “trattandosi di fatti non episodici ma commessi nel contesto di una più ampia attività di cattura e detenzione di specie non consentite”.
Obietta il ricorrente che si tratta di un’affermazione dì puro stile, peraltr riferita indistintamente a tutti i coimputati e, dunque, generica, sicché non si può ritenere congruamente motivata la scelta sfavorevole adottata nei confronti del ricorrente.
Ricorda che il legislatore, nell’introdurre la disciplina relativa alla concessione delle attenuanti generiche, ne ha sostanzialmente riconosciuto la funzione di adeguare la pena al caso concreto, permettendo la valorizzazione di connotati oggettivi o soggettivi non tipizzati ma che appaiono in grado di diminuire la meritevolezza e/o il bisogno di pena.
Il Tribunale, inoltre, avrebbe omesso, nel determinare la pena, di prendere in considerazione gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen., incorrendo pertanto nei vizi di violazione di legge e di motivazione denunciati.
4.5. In replica alla requisitoria del procuratore Generale, il difensore dell’imputato ha presentato una memora conclusionale datata 12 maggio 2025 con la quale ha ribadito le censure sollevate nei confronti dell’impugnata sentenza contrastando le deduzioni del P.G.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Partendo dall’esame del primo motivo, di carattere pregiudiziale per le censure di carattere processuale che il ricorrente solleva, osserva la Corte come occorra, anche ai fini della verifica circa il rispetto del principio di correlazione tra accusa e sentenza, tenere conto, quanto all’indicazione nell’imputazione della data del commesso reato, della distinzione che intercorre tra la data di accertamento e la data di consumazione del reato.
Si tratta di segmenti temporali che, specialmente nei reati di durata, possono non coincidere cosicché, anche ai fini dell’applicazione di istituti di carattere sostanziale e/o processuale, spetta al giudice, tenuto conto della descrizione del fatto contenuto nell’imputazione, stabilire ia data dei commesso reato e le conseguenze sostanziali e processuali che ne derivano.
2.1. Nell’ipotesi in cui, come nel caso in esame, non sia indicata la data di consumazione del reato (che, nei reati permanenti, coincide con la cessazione della permanenza), bensì la data del suo accertamento, qualsiasi indagine volta a stabilire la data di consumazione non contrasta con l’esigenza di rispettare il principio di correlazione tra accusa e sentenza allorquando il fatto sia descritto in modo chiaro e preciso nell’imputazione, non potendosi escludere, per le ragioni in precedenza esposte, che la data di accertamento del reato non coincida con la data della consumazione.
Ne consegue che, nei reati di durata, quando il capo di imputazione indichi esclusivamente la data di accertamento, il giudice del dibattimento deve appurare, attraverso l’interpretazione di detto capo, considerato nel suo complesso, e attraverso gli atti del processo legittimamente acquisiti nel contraddittorio se l’addebito riguardi una condotta precedentemente integrata, proseguita ma esaurita alla data dell’accertamento oppure una condotta ancora in atto.
La questione assume rilevanza soprattutto nei reati di durata perché in tal caso la contestazione, per l’intrinseca natura del fatto che enuncia, contiene, mediante il riferimento alla data dell’accertamento, già l’elemento del perdurare o della reiterazione della condotta antigiuridica, con òa conseguenza che – qualora il pubblico ministero si sia limitato ad indicare esclusivamente la data dell’accertamento e non quella finale dell’esaurimento della condotta – la perdurante consumazione del reato deve ritenersi compresa nell’imputazione, sicché l’interessato è chiamato a difendersi nel processo in relazione ad un fatto la cui essenziale connotazione è data dalla sua persistenza nel tempo, senza alcuna necessità che il protrarsi della condotta criminosa formi oggetto di contestazioni suppletive da parte del titolare dell’azione penale (v. Sez. U, n. 11021 del 13/07/1998, COGNOME, Rv. 211385 – 01).
Qualora invece nel capo di imputazione, concernente un reato di durata, si contesti la cessazione della permanenza mediante l’indicazione di una data precisamente individuata nel tempo, quanto meno nel suo momento terminale, il giudice può tener conto del successkro protrarsi della consumazione soltanto qualora esso sia stato oggetto di un’ulteriore contestazione ad opera del pubblico ministero ex art. 516 cod. proc. pen. (v. Sez. U, n. 11930 del 11/11/1994, P.m. in proc. Polizzi, Rv. 199171 – 01).
2.2. Orbene, in tema di disciplina della caccia, il reato di uccellagione, contestato al ricorrente, è integrato (esercizio di uccellagione) da qualsiasi atto diretto alla cattura di uccelli con mezzi diversi dalle armi da sparo, quali reti ed altro, atteso che il legislatore punisce con tale disposizione ogni sistema di cattura avente una potenzialità offensiva indeterminata o comportante una maggiore sofferenza per gli animali.
Siccome la cattura degli animali può essere eseguita anche senza ricorrere all’esercizio dell’uccellagione (punita ex art. 30, lett. e, L. 11 febbraio 1992, n. 157), la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la legge 11 febbraio 1992, n. 157 distingue tra uccellagione e generica cattura di uccelli, nei cui confronti la caccia non sia consentita, all’art. 30 lett. e) ed h) ed ha chiarito che i due menzionati termini non trovano, però, una definizione precisa, occorrendo, a tal fine, fare riferimento alle direttive comunitarie e alle convenzioni internazionali, cosicché la distinzione tra uccellagione e generica cattura di uccelli non risiede nell’uccisione dei volatili, ma nell’impiego di qualsiasi impianto, mezzo e metodo di cattura o di soppressione, in massa o non selettiva o che possa portare localmente all’estinzione di una specie (Sez. 3, n. 2423 del 20/02/1997, COGNOME, Rv. 207635 – 01).
Va poi precisato che l’uccellagione (come la cattura) può essere rivolta al mantenimento dell’animale catturato oltre che al suo abbattimento (Sez. 3, n. 6966 del 17/04/2000, COGNOME, Rv. 217677 – 01; Sez. 3, n. 8698 del 21/06/1996, COGNOME, Rv. 206686 – 01).
Su questa scia, la giurisprudenza di legittimità ha anche chiarito che, in materia di divieto di uccellagione, la predisposizione delle reti costituisce violazione consumata del divieto posto dall’art. 30, 1° comma, lett. e, L. n. 157 del 1992 poiché la norma incriminatrice non richiede l’abbattimento o la cattura di animali ma è sufficiente l’esercizio effettivo della tecnica speciale di cattura dei volati vietata dalla legge (Sez. 3, n. 3090 del 12/01/1996, Marconi, Rv. 205043 – 01).
E’ stato pertanto affermato che il reato di uccellagione previsto dall’art. 30, comma primo, lett. e), della legge 11 febbraio 1992 n. 157, è configurato come fattispecie di pericolo a consumazione anticipata, per la cui integrazione è sufficiente qualsiasi atto diretto alla cattura di uccelli con mezzi diversi dalle arm da sparo e con potenzialità offensiva indeterminata, non essendo invece richiesta l’effettiva apprensione dei volatili (Sez. 3, n. 7861 del 12/01/2016, COGNOME, Rv. 266278 – 01).
2.3. Tirando ora le fila del ragionamento, tenuto in debito conto il motivo di ricorso che è stato sollevato, è possibile affermare che il reato di uccellagione è un reato a consumazione anticipata eventualmente permanente, essendo possibile che lo stato antigiuridico non si arresti nel momento preciso in cui coincidono fattispecie astratta e fattispecie concreta, ma perduri nel tempo e tale aspetto non è essenziale per la perfezione del reato, che può assumere anche la fisionomia del reato istantaneo allorquando la situazione dannosa o pericolosa non si protragga nel tempo a causa del perdurare della condotta dei soggetto agente.
Costituisce principio ampiamente condiviso in dottrina, e con il quale la Corte concorda, quello per il quale la caratteristica dei reati eventualmente permanenti
consiste nel fatto che il perdurare dello stato antigiuridico non dà luogo ad un concorso di reati ma ad un reato unico.
Nel caso in esame, il reato di uccellagione commesso dall’imputato ha assunto le caratteristiche del reato di durata, avendo gli operanti, che in tal senso hanno deposto in dibattimento, visto l’imputato dispiegare le reti ed esercitare l’uccellagione in data 26 ottobre 2019 e avendo constatato che lo stesso era ancora in possesso degli attrezzi per continuare a praticarla alla data dell’accertamento del reato (il 29 novembre 2019) ossia quando è stata fatta cessare la permanenza con il sequestro degli attrezzi.
Pertanto, la contestazione del pubblico ministero è stata corretta e non può essere predicata, in presenza di un reato unico, la scissione dei due momenti temporali ossia quello in cui l’imputato è stato visto utilizzare gli attrezzi con potenzialità offensiva indeterminata per l’apprensione degli uccelli e quello in cui detti attrezzi sono stati sequestrati e la cui detenzione integrava (non un altro reato ma) il pericolo che la norma incriminatrice mira a contenere con il ricorso alla leva penale, essendo in atto, con la detenzione degli attrezzi utilizzati appena un mese prima, l’esposizione a pericolo del bene giuridico protetto, che non è il singolo animale o gli animali catturati, ma la fauna, pericolo quindi che, nel caso dell’uccellagione, si realizza tramite la predisposizione dei mezzi idonei al perseguimento di tale illecita finalità e non con l’effettivo danno arrecato alla fauna alla quale la norma penale intende assicurare protezione.
Il motivo di ricorso è dunque infondato perché, sulla base delle precedenti considerazioni, che attengono alla interpretazione della fattispecie incriminatrice, non è stata operata, contrariamente all’assunto del ricorrente, alcuna immutazione dell’accusa e del fatto contestato da parte della sentenza impugnata.
In buona sostanza, la condotta antigiuridica è iniziata il 26 ottobre 2019 ed è perdurata sino alla data dell’accertamento, ossia sino al 29 novembre 2019, integrando un unico reato.
Pertanto, alcun rilievo può essere attribuito alla circostanza che il fatto del 26 ottobre 2019 non sia stato indicato nei capo di imputazione.
2.4. Peraltro, pur volendo seguire la prospettazione dei ricorrente, la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza deve essere esclusa anche per le stesse ragioni che, in parte, il Tribunale ha enunciato a pag. 21 e a pag. 22 della motivazione censurata.
La giurisprudenza di legittimità ha affermato che, per valutare se sia stato violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, il fatto deve considerarsi “diverso” quando presenta connotati materiali difformi da quelli descritti nell’atto imputativo, precisando, inoltre, come la relativa nozione debba interpretarsi in senso materiale e naturalistico, indipendentemente dall’inquadramento sotto una
determinata fattispecie normativa (Sez. 3, n. 4723 del 14/03/1994, COGNOME, Rv. 198731 – 01).
E’ stato anche precisato che, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, deve intendersi per immutazione del fatto solo quella che modifica la struttura della contestazione, in quanto sostituisce radicalmente il fatto tipico, il nesso di causalità e l’elemento psicologico, e, per conseguenza di esso, l’azione risulti tanto diversa da quella contestata da essere incompatibile con le difese apprestate dall’imputato per discolparsene; quando, per contro, il fatto tipico rimane identico a quello contestato e se ne modificano solo, nei dettagli, le modalità di realizzazione, non vi è immutazione e deve, di conseguenza, escludersi l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 521, comma secondo, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 11265 del 13/10/1995, COGNOME, Rv. 202850 – 01).
Questa impostazione è stata condivisa dalle Sezioni unite le quali, mettendo in evidenza anche gli aspetti funzionali della disciplina delle contestazioni, hanno affermato che vi è mutamento del fatto solo quando vi sia una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta che realizza l’ipotesi astratta prevista dalla legge, si da pervenire ad una incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205619 – 01).
Da questa linea la giurisprudenza di legittimità non si è mai discostata e anzi le Sezioni unite hanno pedissequamente ribadito, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, l’identico principio di diritto declinato dalle Sezioni unite COGNOME (cfr. Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010; COGNOME, Rv. 248051 – 01).
Riguardo poi all’inesatta collocazione temporale di un fatto di reato, che costituisce il tema accennato dal motivo di ricorso, gli autorevoli arresti, in precedenza citati, ammonendo che Vindagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza, depongono nettamente nel senso che l’eventuale inesattezza contenuta nell’imputazione, quanto alla data del commesso reato, non comporta necessariamente un’alterazione che incide sull’identità sostanziale e sulla identificazione dell’addebito, atteso che, a seconda dei casi, il dato cronologico può assumere o meno rilevanza decisiva, condizionando o meno le possibilità di difesa dell’imputato.
Nel caso in esame, è di tutta evidenza come Visnputato, attraverso l'”iter” del processo e la “discovery” degli atti processuali, si sia trovato nella condizione concreta di potersi difendere in ordine all’oggetto dell’imputazione, la quale non ha subito alcuna radicale trasformazione e, inoltre, l’accertamento del novembre 2019 costituiva il progressivo e naturale sviluppo delle indagini compiute nell’ottobre precedente e note all’imputato dagli atti del processo o comunque dalle prove assunte in dibattimento, come egli stesso, su quest’ultimo punto, ha confermato (v. memoria conclusionale).
La stessa linea difensiva, sviluppata nei ricorso con il richiamo ai testi a discarico, evidenzia, nonostante la generica doglianza di non aver potuto articolare diversamente la lista testi, come il ricorrente si sia difeso dal reato di uccellagione per il quale è stato condannato.
Il secondo motivo di ricorso è nammissibile perché non consentito e manifestamente infondato.
3.1. Non è esatta innanzitutto l’affermazione del ricorrente secondo la quale il giudice di merito non avrebbe tenuto conto e valutato gli elementi che la difesa aveva introdotto nel processo.
Sul punto, il Tribunale ha richiamato la deposizione teste COGNOME (pag. 27), in linea con quella degli altri forestali, e in forza della quale l’imputato era stato visto nell’ottobre 2019, predisporre l’impianto di cattura sito nel giardino interno della sua proprietà mediante preparazione della rete e l’esposizione di richiami vivi per attirare la fauna migratoria di passaggio. Ha poi tenuto conto delle dichiarazioni di dibattimentali dell’imputato (pag. 28), secondo le quali l’attrezzatura posseduta era in disuso, ed ha, in definitiva, disatteso tale tesi perché risultata smentita non solo da quanto dichiarato dai forestali, che avevano invece attestato la piena efficienza dell’attrezzatura, e in particolare dal teste COGNOME (era “una rete fruibile, bastava solamente tenderla, non era bucata, non era marcia”) ma proprio in virtù dell’attività di osservazione svolta in data 26 ottobre 2019 (pag. 29).
Perciò, in presenza di una motivazione priva di vizi di manifesta illogicità e niente affatto contraddittoria, in quanto dei tutto coerente con le acquisizioni processuali desunte dal testo della sentenza impugnata e non in contrasto con altri atti del processo, la censura del ricorrente mira a sovrapporre alla logica ricostruzione del giudice di merito una sua personale ricostruzione del fatto che, seppure fosse in astratto altrettanto logica, non è deducibile come vizio della motivazione della sentenza in sede ci giudizio di legittimità, perché, in tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, tranne i casi di motivazione manifestamente ossia ictu °cui/ illogica. Parimenti, sul rilievo che il vizio di motivazione è deducibile
solo quando esso risulti dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati nei motivo di ricorso, è precluso alla Corte di cassazione di confrontare la tenuta logica della sentenza impugnata paragonando l’apparato argomentativo che la sorregge con eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno ed esulanti dalle componenti strutturali del vizio denunciato (Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, COGNOME, Rv. 216260 – 01).
3.2. Tra le dette componenti si deve sempre annoverare la decisività della censura, il che comporta l’onere da parte del ricorrente (a) di indicare l’atto da cui risulta il vizio denunciato, (b) di individuare l’elemento di fatto o il dato di prov che dall’atto emerge e che è incompatibile con la ricostruzione operata dal provvedimento impugnato, (c) di dimostrare la corrispondenza al vero di tale elemento o dato, (d) di indicare le ragioni per le quali tale dato, se ignorato dal giudice, sia decisivo per la tenuta logica della motivazione, essendo capace di mettere in crisi, disarticolandolo, l’intero impianto argomentativo della sentenza (Sez. 6, n. 23781 del 24/05/2006, COGNOME, Rv. 234152 – 01).
Il ricorrente, oltre a sottrarsi pienamente a tale onere, ha articolato tutte censure di merito (la rete era inidonea all’utilizzo; le “gabbie” non erano vicino alla rete; l’imputato era in possesso della rete perché, in passato e nei limiti in cui era consentito, aveva esercitato l’uccellagione possedendo apposita licenza; la rete rinvenuta era “un residuo” e le gabbie sequestrate di libero commercio o antiche; i vicini non avevano mai visto reti tese nel giardino dell’imputato) che, assertive e tutt’altro che decisive singolarmente e nel loro complesso, esulano dall’orizzonte cognitivo che la legge processuale assegna al giudice di legittimità in tema di controllo sulla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali.
Anche il terzo motivo di ricorso è infondato e, in parte, anche inammissibile perché, sotto il primo profilo di censura, !a doglianza non è consentita ed è manifestamente infondata.
La censura attacca la motivazione della sentenza impugnata sotto due profili.
4.1. In primo luogo, anche con tale doglianza, il ricorrente sostiene che il Tribunale non si sarebbe confrontato con elementi istruttori decisivi emersi nel corso dell’istruzione dibattimentale e richiamati nel motivo di ricorso (= a) l’imputato svolgeva l’attività di giudice nelle fiere canore; era solito far riprodurr gli uccelli da lui detenuti nelle voliere; provvedeva alla liberazione di quelli che non gli interessavano a livello di canto; b) l’imputato, fin quando l’aucupio era attività lecita, era in possesso della relativa licenza).
Il giudice di merito ha valutato la tesi difensiva affermando che l’imputato aveva dichiarato, nel contraddittorio dibattimentale, che i volatili erano nati in cattività da altri esemplari e che egli aveva continuato a farli riprodurre nel corso degli anni ma l’ha disattesa sui rilievo che i’imputato non aveva dimostrato di
essere titolare di alcuna autorizzazione per l’allevamento di fauna selvatica a scopo alimentare, di ripopolamento, ornamentale o amatoriale.
In effetti, come segnalato anche dal motivo di ricorso, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che è possibile, per il detentore di un esemplare di fauna selvatica, dimostrarne la provenienza non illegittima, con conseguente esclusione di sua responsabilità penale; I onus probandi” incombe, però, su di lui e non sull’accusa, posto che la regola generale stabilita dall’art.21, comma 1 lett. e) Legge 11 febbraio 1992, n.157 è queiia del divieto di detenzione di esemplari di fauna selvatica (Sez. 3 , n. 8863 del 23/01/2025, COGNOME, Rv. 287681 – 01; Sez. 7, n. 6557 del 04/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269036 – 01; Sez. 3, n. 8877 del 08/05/1997, Muz, Rv. 209368 – 01).
Quindi, l’esenzione di responsabilità può essere rivendicata nel solo caso in cui la condotta abbia avuto ad oggetto un esemplare di fauna selvatica di provenienza legittima e l’imputato abbia dato prova di ciò anche attraverso allegazioni specifiche ossia introducendo nel processo fatti verificabili e riscontrabili in relazione all’oggetto della prova contraria.
Il ricorrente però non ha fornito alcuna prova del suo assunto, avendo allegato fatti all’evidenza generici e, in massirna parte, non verificabili, laddove invece l’accusa ha provato il fatto costitutivo (detenzione di fauna selvatica) della fattispecie incriminatrice contestata, con la conseguenza che il motivo di ricorso, oltre a scontare i limiti di quello precedente nella misura in cui devolve alla Corte doglianze che esulano dal perimetro assegnato al sindacato di legittimità, non risulta allineato rispetto alla ripartizione degli oneri probatori sia pur limitatamente all’allegazione di elementi specifici diretti a consentire al pubblico ministero, prima, e al giudice, poi, di verificare la legittimità della detenzione dei volatili.
Né il riferimento, nel motivo di ricorso, alle testimonianze COGNOME e COGNOME può essere ritenuto indicativo dell’osservanza dell’onere probatorio incombente sull’imputato, non essendo, da un lato, rispettato il principio di autosufficienza del ricorso e soprattutto apparendo, dall’altro, decentrate, per quanto dal contenuto del motivo ricorso si evince, rispetto ai tema di prova.
4.2. In secondo luogo, il ricorrente sostiene che i! Giudice di prime cure, nonostante avesse dato atto che gli uccelli detenuti dall’imputato erano nati in cattività, lo avrebbe erroneamente condannato per l’ipotesi contravvenzionale di illecita detenzione in assenza di una specifica licenza all’allevamento, senza tenere conto che la normativa regionale (ai sensi art. 9 della L.R. 56/1986 e dell’art. 3, j-ter, della L.R.06/2008) commina una mera sanzione amministrativa per tale mancanza.
L’art. 9 della legge regionale (Friuli – Venezia Giulia) 19 dicembre 1986 n. 56 disciplina il regime del rilascio delle autorizzazioni relative agli allevamenti di cui
alla legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) e punisce, al comma 3, con la sanzione pecuniaria amministrativa da 50 euro a 200 euro colui che effettua allevamento di selvaggina senza essere in possesso della prescritta autorizzazione.
L’art. 3 della legge regionale (Friuli – Venezia Giulia) 6 marzo 2008 n. 6 reca disposizioni per la programmazione faunistica e per l’esercizio dell’attività venatoria e stabilisce che la Regione esercita, anche mediante una organizzazione articolata sul territorio, le funzioni elencate dalla norma tra cui (alla lettera j-ter) quelle in materia di allevamento, vendita, detenzione di fauna a scopo di richiamo, ripopolamento, alimentare, ornamentale e amatoriale.
Sul punto, è sufficiente richiamare il principio di diritto che, in fattispecie analoga, è stato espresso dalla giurisprudenza di legittimità, dal quale non v’è motivo per discostarsi, ossia che, in materia di caccia, qualora la legge regionale (nella specie, art. 9, comma 3, della legge regionale (Friuli Venezia Giulia) 19 dicembre 1986 n. 5) preveda una sanzione amministrativa per la condotta di detenzione non autorizzata (nei caso in esame) di allevamento di selvaggina, è applicabile, nel concorso tra sanzione penale (art. 30, comma primo, lettera b) legge 11 febbraio 1992, n. 157, in relazione all’art. 2, comma 1, lettera c) della stessa legge) e amministrativa, soltanto quella penale, come stabilito dall’art. 9, comma secondo, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Sez. 3, n. 6584 del 23/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269155 – 01). Vc
In quest’ultima pronuncia è stato, tra l’altro, osservato come la giurisprudenza della Corte costituzionale (ex multis, Corte cost., sent. n. 309 del 1990) sia ferma nel ritenere che la fonte del potere punitivo risiede solo nella legislazione statale e le Regioni, anche nelle materie di loro competenza non hanno la possibilità di comminare, rimuovere o variare con proprie leggi le pene previste nelle medesime materie dalla legislazione nazionale; non possono cioè interferire negativamente con il sistema penale statale considerando pienamente lecita un’attività che, invece, è penalmente sanzionata nell’ordinamento dello Stato e neppure possono sostituire, in ordine ad un medesimo fatto, la sanzione penale, prevista dalla legge dello Stato e quindi valida ed efficace in tutto il territorio nazionale, con una sanzione amministrativa, valida ed efficace esclusivamente all’interno del territorio regionale.
Perciò l’articolo 9, comma 2, della legge n. 689 del 1981 si pone in parziale deroga al principio contenuto nel comma 1 che, nel disciplinare le ipotesi di concorso apparente di norme penali e norme sanzionatorie amministrative (statali), ricorre al criterio infrasistematico della “specialità”, stabilito dall’articolo 15 del codice penale.
A tale proposito, è solo il caso di sottolineare come, nel caso in esame, tra le norme in concorso quella penale, regolante la stessa materia, è anche speciale
rispetto alla disposizione regionale avuto riguardo all’oggetto della tutela riguardante le specie protette della fauna selvatica e non la selvaggina in genere.
La doglianza, pertanto, non è fondata in parte qua.
Il quarto motivo è, nel complesso, infondato.
5.1. Quanto al diniego delle attenuanti generiche, con logica e adeguata motivazione, come tale, insuscettibile di essere sindacata in sede di giudizio di legittimità, il Tribunale ha negato la concessione delle attenuanti generiche sul rilievo che i fatti non sono stati episodici e sono stati commessi nel contesto di una più ampia attività di cattura e detenzione di specie animali non consentite.
A questo proposito, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli facci riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (ex multis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899 – 01).
5.2. Quanto poi alla commisurazione della pena, il giudice di merito ha escluso il ricorso alla pena detentiva e, di conseguenza, ha determinato la sanzione per il reato più grave nella pena pecuniaria, fissandola (euro 800,00) in misura prossima al minimo edittale (euro 774,00) , operando poi un aumento (euro 200) contenuto per il reato satellite.
In tema di determinazione della pena, qualora per il reato ritenuto in sentenza sia prevista l’applicazione di una pena alternativa, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice nel caso in cui, nell’esercizio del potere di scelta, egli ritenga di irrogare la pena pecuniaria in misura prossima al minimo edittale, essendo, in tali casi, implicito che il giudice abbia tenuto conto sia degli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. e sia del principio rieducativo della pena ex art. 27 Cost.
Viceversa, e sempre nel caso di reati puniti con pena alternativa, il giudice, qualora nell’esercizio del potere di scelta, ritenga di applicare la pena detentiva, ha l’obbligo di indicare le ragioni che io hanno indotto ad operare tale scelta (Sez. 6, n. 10772 del 20/02/2018, F., Rv. 272762 – 01).
Nel caso invece di applicazione della sanzione pecuniaria determinata in misura superiore alla media edittale o in misura prossima al massimo edittale, il giudice è tenuto ad indicare i motivi di tale scelta, pur non essendo tenuto ad esporre diffusamente le ragioni, perché, avendo l’imputato beneficiato di un trattamento obiettivamente più favorevole rispetto all’altra più rigorosa indicazione della norma, è sufficiente che dalla motivazione sul punto risulti la considerazione conclusiva e determinante in base a cui è stata adottata la
decisione, ben potendo esaurirsi tale motivazione nell’accenno alla equità quale criterio di sintesi adeguato e sufficiente (Sez. 3, n. 37867 del 18/06/2015, Di, Rv.
264726 – 01).
Ne consegue che, anche sotto tale aspetto, il motivo di ricorso non è fondato.
6. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso sia infondato, con conseguente onere per la ricorrente, ai sensi
dell’articolo 616 del codice di procedura penale, di sostenere le spese del procedimento.
7. La parte civile ha presentato conclusioni e nota spese.
Tuttavia, le conclusioni non hanno fornito alcun utile contributo alla decisione, in quanto la parte civile si è limitata, puramente e semplicemente, a redigere il
petitum chiedendo il rigetto del ricorso, la conferma della sentenza e la
liquidazione delle spese del grado.
Ne consegue che la parte civile ha certamente resistito per contrastare l’avversa pretesa ma nessuna argomentazione ha svolto per sostenere le proprie
ragioni.
In questi casi, la giurisprudenza di legittimità, che il Collegio condivide, ha affermato che, nel giudizio di legittimità celebrato nelle forme del rito camerale non partecipato di cui all’art. 611, comma 1, cod. proc. pen., la parte civile, pur in difetto di richiesta di trattazione orale, ha diritto di ottenere la liquidazione delle spese processuali, nel caso in cui abbia esplicato, attraverso memorie scritte, un’attività diretta a contrastare l’avversa pretesa a tutela dei propri interessi di natura risarcitoria, fornendo un utile contributo alla decisione (ex multis, Sez. 4, n. 10022 del 06/02/2025, Altese, Rv. 287766 – 01).
Non compete perciò alla parte civile il rimborso delle spese del grado.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Nulla spese in favore della parte civile.
Così deciso il 27/05/2025