Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 47677 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 47677 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Grosseto il 10.8.1953
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Firenze del 9.3.2023
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 9.3.2023, la Corte d’Appello di Firenze ha confermato la sentenza, emessa dal Tribunale di Grosseto in data 23.12.2020, di condanna di COGNOME alla pena di tre anni e sei mesi di reclusione e 95.000 euro di multa per i reati di cui ai capi 9), 10) e 11) dell’imputazione del proc. n. 1354/10 R.G.n.r. e per il reato di cui al capo 3) dell’imputazione del proc. n. 5188/12 R.G.n.r. .
1.2 La Corte territoriale premette che COGNOME, in primo grado, è stato ritenuto il fulcro della vicenda relativa all’ingresso di stranieri nel territorio italiano (capi 10 e 11), in quanto, avvalendosi della sua esperienza alla Confesercenti dove aveva lavorato per trent’ anni e con cui aveva mantenuto collegamenti anche dopo
la pensione, faceva da collante tra alcuni imprenditori e la forza lavoro straniera, carpendo la buona fede di alcuni dipendenti.
La sentenza di secondo grado dà atto che i motivi di appello di COGNOME sono due.
Con il primo motivo, è stata chiesta l’assoluzione per difetto di prova del fatto storico e, comunque, della sua riconducibilità all’imputato, lamentando che il Tribunale avesse travisato i fatti, sia con riferimento alla posizione della coimputata COGNOME considerata erroneamente come mera pedina di COGNOME, sia con riferimento alla possibilità per COGNOME stesso di operare negli uffici della Confesercenti perché ormai in pensione e privo di password. A questo proposito, l’impugnazione evidenziava che i testi avevano escluso la presenza di COGNOME in ufficio e che i contratti di lavoro erano verificati anche dall’Ispettorato del lavoro; aggiungeva che non erano emersi passaggi di denaro in favore di COGNOME, nè rapporti di conoscenza con gli altri coimputati. In punto di diritto, censurava che il reato per cui è intervenuta condanna richieda l’ingresso effettivo degli stranieri nel territorio dello stato, che nel caso di specie non era avvenuto. Con riferimento al reato di cui al capo 3), poi, rilevava che il Tribunale non avesse tenuto conto delle conclusioni del consulente tecnico dell’imputato, che aveva attribuito la riconducibilità delle firme a persona diversa.
Con il secondo motivo, è stata chiesta la riqualificazione del reato nella forma più lieve di cui al primo comma dell’art. 12 D.Lgs. n. 286 del 1998, evidenziando che le fattispecie previste dal comma 3 di tale disposizione di legge sono circostanze aggravanti e non fattispecie autonome di reato.
1.3 Ciò premesso, la Corte d’Appello di Firenze chiarisce subito che quello di cui all’art. 12, comma 1, D.Lgs. n. 286 del 1998 è un reato di pericolo e, come tale, si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato.
Con riferimento alla restante parte dell’appello, la sentenza di secondo grado richiama, sia pure sommariamente, il contenuto palese e perfettamente intellegibile delle numerose conversazioni trascritte, intercettate sia al telefono degli imputati, sia nell’autovettura di COGNOME. Afferma che è provato che l’imputato frequentasse abitualmente gli uffici della Confesercenti anche dopo il pensionamento (lo ha ammesso lui stesso in dichiarazioni spontanee e lo ha detto la direttrice, che peraltro nelle conversazioni intercettate ne chiedeva il motivo alla COGNOME) e che dalle conversazioni risultava che tale frequentazione fosse funzionale a gestire le pratiche di nulla osta all’ingresso, per il tramite della COGNOME, quest’ultima, secondo il tribunale, in buona fede (ma la Corte d’Appello precisa espressamente che, ove anche la donna fossa da considerarsi consapevole dell’illiceità, questo non cambierebbe il profilo di responsabilità di COGNOME). Aggiunge che le conversazioni cui partecipava l’imputato sono state riscontrate
con servizi di osservazione e pedinamento, i quali documentano l’incontro dell’imputato con i suoi precedenti interlocutori.
Quanto ai fatti di cui al capo 3), infine, la Corte d’Appello osserva che alcune firme inizialmente apposte sulla documentazione inerente la pratica di assunzione della badante della madre di COGNOME erano state opera di quest’ultimo, il quale ha però disconosciuto le firme apposte sulla documentazione successiva alla morte della madre, sicché anche sotto il profilo logico l’ipotesi accusatoria ha ricevuto conferma.
Avverso tale sentenza, il difensore dell’imputato ha proposto ricorso, articolandolo in due motivi.
2.1 Con il primo motivo, deduce mancanza o manifesta illogicità della motivazione ovvero, “in subordine”, violazione o erronea applicazione della legge penale.
Lamenta, innanzitutto, un travisamento delle prove dichiarative, ravvisando l’assoluta difformità tra il senso intrinseco delle dichiarazioni raccolte in dibattimento e il senso che gli è stato attribuito dai giudici di primo grado. Nonostante la denuncia di tale vizio, la Corte d’Appello ha attribuito credibilità ai testimoni del pubblico ministero, costituiti parti civili nel procedimento, e si è richiamata alla sentenza di primo grado senza spiegare i motivi che l’hanno condotta a confermare la condanna. In particolare, la sentenza di secondo grado richiama conversazioni telefoniche e ambientali senza indicarle in modo specifico e affermando che gli imputati non ne hanno disconosciuto la paternità, circostanza – quest’ultima – che invece non è esatta per COGNOME, il quale non ha mai riferito alcunché sulle conversazioni. Aggiunge che sono stati violati gli artt. 266, 267 e 268 cod. proc. pen., perché non è risultato alla difesa che sia stato redatto verbale delle operazioni compiute e che siano state rispettate le modalità autorizzative previste dalla legge.
La Corte d’Appello – continua il ricorso – ha trascurato la deposizione della testimone COGNOME che era favorevole all’imputato, e le dichiarazioni di alcuni testi, da cui emergerebbe che non stati riscontrati sui conti correnti di COGNOME operazioni sospette e che alcuni di loro non hanno visto l’imputato uscire dalla Confesercenti o non lo hanno conosciuto.
Si fa riferimento, in questo motivo di ricorso, anche ad una consulenza grafologica di parte, che ha attestato la riconducibilità a COGNOME della firma relativa al capo 3) dell’imputazione e che è stata invece sottovalutata rispetto alle prove dichiarative senza adeguata motivazione.
2.2 Con il secondo motivo, deduce violazione di legge, in quanto gli elementi costitutivi dell’art. 12 comma 3 D.Lvo 286/98 non sono rimasti integrati nella
vicenda di specie, perché è necessario l’ingresso illegale degli stranieri nel territorio italiano, che nel caso in questione non si è verificato.
Con requisitoria scritta del 14.9.2024, il Sostituto Procuratore generale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, perché non si confronta con il percorso argomentativo della sentenza e propone censure generiche, prive di efficacia disarticolante del ragionamento ricostruttivo.
In data 27.9.2024, il difensore della costituita parte civile RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro-tempore COGNOME ha fatto pervenire conclusioni scritte, con le quali ha chiesto che il ricorso fosse dichiarato inammissibile o comunque infondato e che l’imputato fosse condannato alla rifusione dei compensi professionali in favore delle parti civili per questo grado di giudizio, come da separata nota.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I due motivi di ricorso, che ricalcano pressoché alla lettera le doglianze già a suo tempo esposte con l’atto di appello, sono inammissibili.
Il primo motivo è generico e, comunque, prospetta censure non rilevabili in sede di legittimità.
1.1 In primo luogo, denuncia un travisamento delle prove dichiarative, senza indicare precisamente quali dichiarazioni sarebbero state travisate o quale concreta influenza abbia avuto il presunto travisamento sulla decisione e, conseguentemente, senza nemmeno indicare quali diversi parametri di valutazione maggiormente plausibili si sarebbero dovuti impiegare rispetto a quelli adottati dal giudice del merito.
La doglianza si risolve in una generica censura della omessa considerazione da parte della Corte d’Appello di alcune testimonianze, che, anche quando assume in qualche tratto connotazioni più precise (per esempio, quando lamenta che alcuni testi hanno negato di avere visto COGNOME uscire dalla sede della Confesercenti), riguarda aspetti già presi in considerazione dai giudici di secondo grado e disattesi con motivazione del tutto soddisfacente (richiamando semplicemente, ma efficacemente, le dichiarazioni contrarie di altri testi e le stesse dichiarazioni spontanee di ammissione rese dell’imputato).
Sicché si tratta per larga parte della pedissequa riproposizione di questioni già dichiarate infondate, che non è accompagnata da elementi ulteriori o diversi, suscettibili di inficiare la precedente decisione di secondo grado, e che non prende
in considerazione, per confutarle, le argomentazioni sulla base delle quali i motivi di appello non sono stati accolti.
Di conseguenza, non v’è spazio alcuno per prendere in considerazione il vizio denunciato di “travisamento della prova”, il quale vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione, nel ragionamento del giudice di merito, del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova (Sez. 5, n. 26455 del 9/6/2022, Rv. 283370 – 01).
1.2 In secondo luogo, il motivo di ricorso lamenta che la sentenza impugnata non abbia indicato in modo specifico le conversazioni intercettate da cui è stata tratta la prova dei reati contestati.
Anche con riguardo a questo aspetto, tuttavia, il ricorso omette di confrontarsi con il fatto che, nel caso di specie, si è di fronte ad una c.d. doppia conforme, giacché la sentenza della Corte d’Appello di Firenze, nella sua struttura argomentativa, si salda con la sentenza di primo grado che conferma, sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultinna, sia adottando gli stessi criteri utilizzat nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (cfr., in proposito, Sez. 2, n. 37295 del 12/6/2019, Rv. 277218 – 01).
Sotto questo profilo, la sentenza di secondo grado, nella parte in cui saggia la tenuta degli elementi probatori a carico di COGNOME quali emergenti dalla sentenza di primo grado, richiama anche “le numerose conversazioni telefoniche ed ambientali” e ne evidenzia “il contenuto … palese e perfettamente intellegibile”.
A tal proposito, la sentenza del Tribunale di Grosseto (pp. 22-23) aveva indicato, con riferimento a ciascun numero di RIT, i progressivi delle conversazioni di interesse e ne aveva esposto a grandi linee le risultanze che aveva considerato rilevanti rispetto alla prova delle condotte addebitate a COGNOME.
Nessun vizio di motivazione, di conseguenza, è ravvisabile con riferimento alle intercettazioni, laddove, come nel caso di specie, il contenuto delle conversazioni sia stato riportato, sia pure riassuntivamente, con riferimento ai singoli temi di prova e siano state specificate le ragioni per le quali tale contenuto, richiamato con il rimando ai progressivi, dimostra un certo fatto da provare.
Quanto, poi, al lamentato difetto della redazione del verbale delle operazioni di registrazione delle intercettazioni, si tratta di doglianza che, oltre a non risultare precedentemente proposta con i motivi d’appello, è in ogni caso solo apoditticamente affermata, senza che la parte abbia adempiuto all’onere di fornire gli elementi dai quali si possa desumere l’eccepita inutilizzabilità, a maggior ragione se si considera che nel ricorso, dopo aver richiamato la disciplina del codice
di rito applicabile, la motivazione a sostegno della censura in questione è rappresentata in questi lapidari e insufficienti termini testuali: “con riferimento al caso che ci occupa non è dato conoscere nulla di tutto questo”.
1.3 In terzo luogo, anche con riferimento alla doglianza relativa alla consulenza grafologica di parte il motivo di ricorso resta generico, perché si limita ad affermare che, secondo la consulente, “le firme sono autografe di COGNOME“.
Null’altro si aggiunge a sostegno del motivo, che in tal modo, però, si consegna ad una censura quantomeno di indeterminatezza, se non proprio di ambiguità, perché non si confronta con il dato secondo cui le sentenze di merito attestano effettivamente l’autenticità delle sottoscrizioni di COGNOME apposte sui documenti inizialmente presentati per la regolarizzazione della posizione del soggetto che avrebbe dovuto assumere le mansioni di badante della madre.
L’addebito concernente l’utilizzo di documenti recanti la falsa sottoscrizione di COGNOME riguarda, piuttosto, la sola fase della pratica successiva al decesso della madre, in relazione alla quale le sentenze di merito in via del tutto ragionevole fanno discendere l’affermazione di responsabilità dell’imputato, non solo dalla considerazione logicamente fondata del sopravvenuto disinteresse dell’apparente sottoscrittore alla prosecuzione di un iter amministrativo ormai divenuto inutile a distanza di diversi mesi dalla morte della donna, ma anche dalle stesse dichiarazioni di COGNOME che ha disconosciuto espressamente le firme relative alla fase finale della pratica per il rilascio del permesso di soggiorno.
A fronte di ciò, il motivo di ricorso rimane aspecifico, perché offre apoditticamente un’informazione che poi non sviluppa, nel senso che da sola non è significativa rispetto ad una vicenda che, dal punto di vista fattuale e cronologico, consta di due fasi.
Così congegnata, l’argomentazione può essere considerata una critica attinente ad uno solo dei passaggi della motivazione della sentenza impugnata e dunque, come tale, una critica incompleta.
In questa prospettiva, deve ricordarsi che il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per l’omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece, individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e indicare le ragioni per cui l’atto compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 3, n. 2039 del 2/2/2018, Rv. 274816 – 07).
1.4 Per quanto fin qui osservato, il primo motivo di ricorso deve essere ritenuto manifestamente infondato.
Per un verso, infatti, consiste nella mera riproduzione dei motivi d’appello, che però può essere presente nel ricorso per cassazione solo quando ciò serva a “documentare” il vizio dedotto con autonoma specifica ed esaustiva argomentazione, riferita indefettibilmente al provvedimento impugnato con il ricorso (Sez. 6, n. 8700 del 21/1/2013, n. 254584 – 01). Nel caso di specie, invece, il ricorso, in definitiva, non si confronta con la motivazione di secondo grado impugnata e si limita a reiterare censure già disattese.
Per altro verso, il motivo di ricorso in questione propone una critica frammentaria dei singoli punti della sentenza, laddove la pronuncia costituisce un tutto coerente ed organico, per cui, ai fini del controllo critico sulla sussistenza di una valida motivazione, ogni punto di essa va posto in relazione agli altri (Sez. 2, n. 38818 del 7/6/2019, Rv. 277091 – 01). Così facendo, sollecita la mera rilettura di alcuni degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, che è però preclusa al giudice di legittimità (v. Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, dep., 2021, Rv. 280601 – 01).
Quanto al secondo motivo, la violazione di legge dedotta è insussistente.
La Corte d’Appello di Firenze ha bene argomentato che quello di cui all’art. 12, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998 è un reato di pericolo e, come tale, si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l’ingresso illegale di stranieri nel territorio dello Stato, come inequivocabilmente risulta dal dato testuale della norma incriminatrice.
Si tratta, peraltro, di indirizzo più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di disciplina dell’immigrazione, la fattispecie criminosa disciplinata dall’art. 12, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 integra un reato di pericolo o “a consumazione anticipata”, che si perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a procurare l’ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in violazione della disciplina di settore, non richiedendo l’effettivo ingresso illegale dell’immigrato in detto territorio (Sez. 1, n. 45734 del 31/3/2017, Rv. 271127 – 01; Sez. U, n. 40982 del 21/6/2018, in motivazione).
Pertanto, il motivo – anche questo meramente reiterativo di una censura già dedotta in appello, senza che si confutino specificamente le argomentazioni in virtù delle quali non era stata accolta – è manifestamente infondato.
Anche il ricorso che deduca inosservanza od erronea applicazione di legge, infatti, è inammissibile ove sia connotato da evidenti errori di diritto nell’interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, come accade allorché si disconosca il senso assolutamente univoco di una determinata disposizione di
legge ovvero si riproponga una questione già costantemente decisa dalla Corte di cassazione in senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente, senza addurre motivi nuovi o diversi (Sez. 2, n. 17281 dell’8/1/2019, Rv. 276916 – 01).
Alla luce di quanto fin qui osservato, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento nonché della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso in punto di responsabilità, consegue la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalle parti civili, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che liquida in complessivi euro 4.700,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 4.10.2024