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Reato di diffamazione: quando basta una sola persona

Un individuo è stato condannato per aver fatto commenti offensivi su un’altra persona in un supermercato. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, chiarendo che il reato di diffamazione si configura anche se le frasi lesive sono comunicate a una sola persona, a condizione che ciò avvenga con modalità tali da garantirne la diffusione a terzi. In questo caso, l’imputato aveva parlato con una donna con l’intento che questa riferisse le offese alla nipote, integrando così il requisito della comunicazione a più persone.

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Pubblicato il 25 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reato di diffamazione: basta una sola persona se il messaggio è destinato a diffondersi

Il reato di diffamazione, disciplinato dall’articolo 595 del codice penale, richiede la comunicazione con più persone. Ma cosa succede se le frasi offensive vengono pronunciate davanti a un solo individuo? Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 22555/2024) chiarisce che il reato sussiste ugualmente se la comunicazione è fatta con modalità tali da garantirne, o almeno renderne altamente probabile, la diffusione a terzi. Analizziamo questo importante principio.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine da un episodio avvenuto in un supermercato. Un uomo veniva accusato di aver pronunciato frasi offensive e lesive della reputazione di un’altra persona, rivolgendosi a una cliente. In primo grado, il Giudice di Pace lo dichiarava colpevole del reato di diffamazione. La sentenza veniva parzialmente riformata in appello, con la concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, ma confermando la responsabilità penale.

L’imputato decideva quindi di ricorrere in Cassazione, sostenendo che mancasse un elemento essenziale del reato: la comunicazione con più persone. Secondo la sua difesa, solo una testimone aveva effettivamente udito le frasi, mentre il marito di lei ne era venuto a conoscenza solo in un secondo momento, tramite il racconto della moglie. Si trattava, a suo dire, di una semplice confidenza, non penalmente rilevante.

I Motivi del Ricorso e il Reato di Diffamazione

L’imputato ha basato il suo ricorso su tre motivi principali:

1. Errata applicazione dell’art. 595 c.p.: La difesa sosteneva la mancanza dell’elemento costitutivo della comunicazione a più persone, ritenendo inattendibili i testimoni e qualificando l’episodio come un pettegolezzo privo di rilevanza penale.
2. Violazione delle norme processuali: Si lamentava una discordanza tra il capo d’imputazione originario, che indicava la comunicazione a due specifici testimoni, e la motivazione della sentenza, che fondava la condanna sulla base della percezione delle frasi da parte di una testimone e di un’altra donna non identificata, ledendo così il diritto di difesa.
3. Sospensione dell’esecutorietà della condanna civile: Si chiedeva di sospendere il pagamento del risarcimento del danno, ma la Corte ha rilevato che tale sospensione era già stata concessa in precedenza.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, fornendo chiarimenti fondamentali sulla configurabilità del reato di diffamazione. Gli Ermellini hanno stabilito che, ai fini del reato, non è indispensabile che l’autore della frase lesiva comunichi direttamente e simultaneamente con più persone.

Il requisito della pluralità di destinatari è soddisfatto anche quando la comunicazione avviene con una sola persona, ma con modalità tali che la notizia venga sicuramente a conoscenza di altri. Nel caso di specie, l’imputato aveva proferito le frasi offensive alla testimone affinché questa, agendo come una sorta di nuncius (messaggero), le riportasse alla propria nipote, all’epoca compagna della persona offesa. L’intento dell’imputato era proprio quello di far circolare le affermazioni denigratorie.

La Corte ha specificato che, quando un’espressione è per sua natura destinata a essere visionata o riferita a più persone, il requisito della comunicazione si presume. L’aver usato un intermediario per far giungere il messaggio offensivo a un destinatario finale (la nipote) integra pienamente la fattispecie criminosa, poiché si innesca un processo di diffusione che va oltre il dialogo a due.

Inoltre, la Corte ha rigettato il secondo motivo di ricorso, affermando che non vi è stata alcuna violazione del diritto di difesa. L’essenza dell’imputazione, ovvero la comunicazione a più persone, è rimasta invariata durante tutto il processo, e l’imputato era a conoscenza fin dall’inizio della presenza di un’altra donna (presumibilmente la moglie) al momento dei fatti.

Le Conclusioni

Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ribadisce un principio consolidato ma di grande importanza pratica: il reato di diffamazione non si misura solo sul numero di ascoltatori presenti, ma sull’intento e sull’idoneità della comunicazione a raggiungere un pubblico più ampio. Parlare male di qualcuno a una persona, con la precisa intenzione che questa lo riferisca ad altri, è una condotta penalmente rilevante. Questa decisione serve da monito: anche una confidenza fatta alla persona sbagliata, se concepita per ledere la reputazione altrui e diffondersi, può integrare una piena responsabilità penale per diffamazione.

Quando si configura il reato di diffamazione?
Il reato di diffamazione si configura quando una persona, comunicando con più persone, offende la reputazione di un altro individuo. La comunicazione non deve essere necessariamente diretta o simultanea a tutti i destinatari.

È necessario parlare con più persone contemporaneamente per commettere diffamazione?
No. Secondo la sentenza, è sufficiente comunicare con una sola persona, ma con modalità tali che la notizia offensiva sia destinata a raggiungere altri. Ad esempio, se si chiede esplicitamente a qualcuno di riferire le frasi a terzi, il reato è integrato.

Cosa succede se un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile per colpa del ricorrente?
Quando un ricorso è dichiarato inammissibile per profili di colpa emergenti dall’atto di impugnazione stesso (ad esempio, perché manifestamente infondato o reiterativo), il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende, come sanzione per aver inutilmente impegnato il sistema giudiziario.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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