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Reato continuato: quando l’istanza è inammissibile

Un soggetto, condannato per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti con due sentenze distinte, ha richiesto l’applicazione della disciplina del reato continuato. La Corte d’Appello ha dichiarato la richiesta inammissibile perché era una semplice riproposizione di un’istanza precedente già respinta. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione, specificando che il principio del ‘ne bis in idem’ opera anche in fase esecutiva. Una nuova istanza è ammissibile solo se basata su elementi fattuali nuovi e non su una diversa o più approfondita argomentazione dei medesimi fatti già esaminati.

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Pubblicato il 17 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reato Continuato: La Cassazione chiarisce i limiti per una nuova istanza

Il concetto di reato continuato, previsto dall’articolo 81 del codice penale, è uno strumento fondamentale nel diritto penale che consente di unificare, sotto il vincolo di un medesimo disegno criminoso, più reati commessi da una persona. Questo comporta un trattamento sanzionatorio più favorevole. Tuttavia, cosa succede se una richiesta per il suo riconoscimento viene respinta? È possibile riproporla? Con la sentenza n. 378/2024, la Corte di Cassazione ribadisce i rigidi paletti imposti dal principio del ne bis in idem, anche nella fase di esecuzione della pena.

I Fatti alla Base della Decisione

Il caso esaminato riguarda un condannato che stava scontando pene derivanti da due distinte sentenze definitive. La prima per reati legati alla produzione e al traffico di sostanze stupefacenti, anche con carattere associativo. La seconda per il grave reato di associazione di tipo mafioso. L’interessato ha presentato un’istanza al giudice dell’esecuzione chiedendo di applicare la disciplina del reato continuato, sostenendo che tutti i reati fossero riconducibili a un unico progetto criminale.

La Corte d’Appello, in qualità di giudice dell’esecuzione, ha dichiarato l’istanza inammissibile. Il motivo? Non era la prima volta che veniva presentata. Una richiesta analoga era già stata rigettata in precedenza con un provvedimento divenuto definitivo. La nuova istanza, secondo la Corte, era una mera riproposizione della precedente, basata sui medesimi elementi.

Il Principio del “Ne Bis in Idem” nella Fase Esecutiva

Il cuore della questione giuridica risiede nell’applicazione del principio del ne bis in idem (non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto) nel procedimento di esecuzione. La Corte di Cassazione chiarisce che questo principio non vale solo per il processo di cognizione, ma si estende anche alla fase successiva alla condanna definitiva.

L’articolo 666, comma 2, del codice di procedura penale, stabilisce che il giudice dell’esecuzione deve dichiarare inammissibile la richiesta che sia una mera riproposizione di un’altra già rigettata. Questo crea una “preclusione processuale”. In altre parole, una volta che il giudice si è espresso su una determinata questione, non è possibile sollecitarlo nuovamente sugli stessi presupposti. Tale limite serve a garantire l’economia processuale e a evitare richieste puramente dilatorie, stabilizzando le decisioni prese in fase esecutiva.

La Decisione della Corte di Cassazione: le motivazioni

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione della Corte d’Appello. Le motivazioni sono chiare e si basano su due punti principali.

In primo luogo, la Cassazione ha sottolineato che per superare la preclusione derivante da una precedente decisione di rigetto, non è sufficiente presentare un’istanza più articolata o argomentata. È indispensabile che la nuova richiesta si fondi su elementi nuovi. Per “nuovi elementi” si intendono circostanze fattuali che non erano state considerate, neppure implicitamente, dal giudice precedente. Una diversa valutazione o una più approfondita esposizione degli stessi fatti già noti non costituisce un “nuovo elemento”.

In secondo luogo, il ricorrente non si è confrontato adeguatamente con la motivazione del provvedimento impugnato. Si è limitato a sostenere genericamente che la nuova istanza fosse più dettagliata, senza però indicare quali fossero, concretamente, gli aspetti di novità rispetto a quanto già esaminato e respinto. Questa genericità ha reso il ricorso inammissibile, in quanto non ha permesso alla Corte di Cassazione di valutare se la preclusione fosse stata o meno superata.

Conclusioni: le implicazioni pratiche della sentenza

La sentenza in esame offre un’importante lezione pratica. Chi intende chiedere il riconoscimento del reato continuato in sede esecutiva deve presentare, fin da subito, un’istanza completa, dettagliata e supportata da tutti gli elementi utili a dimostrare l’esistenza del medesimo disegno criminoso.

Una volta che l’istanza viene rigettata e la decisione diventa definitiva, la possibilità di riproporla è estremamente limitata. Sarà necessario dimostrare l’esistenza di fatti o prove realmente nuove, non semplicemente tentare di convincere il giudice con una migliore argomentazione. In assenza di tali novità, non solo la richiesta sarà dichiarata inammissibile, ma il ricorrente rischierà anche una condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria, come avvenuto nel caso di specie.

È possibile presentare una nuova istanza per il riconoscimento del reato continuato dopo che una precedente è stata rigettata?
Sì, ma solo a condizione che la nuova istanza si fondi su elementi nuovi, ovvero fatti o circostanze non precedentemente valutati dal giudice. Non è sufficiente riproporre gli stessi argomenti in modo più approfondito o articolato.

Cosa intende la legge per “mera riproposizione” di un’istanza in fase esecutiva?
Secondo la sentenza, si intende una richiesta basata sui medesimi elementi di una precedente istanza già decisa e rigettata, senza introdurre alcun nuovo elemento di valutazione per il giudice. Anche una diversa o più approfondita valutazione degli stessi elementi già considerati rientra in questa categoria.

Qual è la conseguenza se un ricorso in Cassazione viene giudicato inammissibile perché ripropone una questione già decisa?
In base all’art. 616 del codice di procedura penale, quando un ricorso è inammissibile, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese del procedimento e al versamento di una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende. Nel caso di specie, la somma è stata fissata in 3.000,00 euro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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