Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 7823 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 7823 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 09/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a MILANO il 29/09/1951
avverso l’ordinanza del 27/09/2024 del TRIBUNALE di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
lette, altresì, le conclusioni scritte presentate dall’avv. NOME COGNOME il quale, nell’interesse di NOME COGNOME ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza in data 25 luglio 2023, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva accolto l’istanza di riconoscimento della continuazione proposta nell’interesse di NOME COGNOME tra un delitto di bancarotta fraudolenta, commesso il 16 marzo 2017 (accertato con la sentenza n. 2784 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano in data 26 ottobre 2022, irrevocabile il 26 ottobre 2022, la quale già aveva riconosciuto detto vincolo con i reati di cui alle sentenze n. 1624 del 20 maggio 2014 e n. 10610 del 27 settembre 2018) e un delitto di bancarotta fraudolenta commesso il 26 settembre 2013 (accertato con la sentenza n. 3853 pronunciata dalla Corte di appello di Milano in data 17 maggio 2021, irrevocabile dal 13 luglio 2022).
1.1. Con sentenza in data n. 21148 in data 10 febbraio 2024, pronunciandosi sul reclamo del Pubblico ministero, la Prima Sezione penale della Corte di cassazione annullò la predetta ordinanza, rilevando che il Giudice dell’esecuzione non aveva congruamente motivato in ordine al fatto che la bancarotta commessa nel marzo 2017 era stata già riunita in continuazione con altri fatti di bancarotta (commessi uno nel 2010 e due nel 2011), sicché il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano non poteva scindere il reato continuato già riconosciuto; e che, in sede di cognizione, la sentenza in data 17 maggio 2021 della Corte di appello aveva già escluso la sussistenza del vincolo della continuazione tra uno dei fatti di bancarotta giudicati con la sentenza n. 10610 del 27 settembre 2018, concernente fatti commessi in epoca anteriore al 7 novembre 2011 e la bancarotta commessa il 18 maggio 2011.
1.2. Con ordinanza in data 27 settembre 2024 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, pronunciandosi in sede di rinvio, ha dichiarato inammissibile l’istanza proposta nell’interesse di COGNOME. Secondo il Collegio, infatti, con la sentenza in data 17 maggio 2021 la Corte di appello aveva escluso la sussistenza del vincolo della continuazione atteso che, se per un verso le violazioni erano omogenee, per altro verso i reati erano stati commessi in periodi distanti. Infatti, i fatti oggetto dalla sentenza del Tribunale di Milano erano stati commessi in epoca precedente al 7 novembre 2011, data della sentenza dichiarativa di fallimento; mentre i fatti oggetto della sentenza in data 17 maggio 2021 erano stati commessi il 18 maggio 2011, data in cui COGNOME aveva assunto la carica di liquidatore. Inoltre, i fatti erano stati commessi in concorso con soggetti diversi e in ambiti societari assolutamente differenti, sicché i reati dovevano ritenersi espressione di un’abitualità o addirittura di un costume di vita. Una volta escluso il medesimo disegno criminoso tra tali reati, esso non poteva essere
J/–
riconosciuto esistente tra alcuni dei reati già unificati dalla continuazione e quelli per cui essa era stata, appunto, esclusa.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso il predetto provvedimento per mezzo del difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME deducendo, con un unico motivo di impugnazione, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione della legge penale sostanziale e processuale ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed c), cod. proc. pen. In particolare, il ricorso evidenzia come il reato continuato, anche dopo la riforma del 1974, debba essere considerato, a certi fini, come reato unico e ad altri come plurimo, a secondo degli effetti più favorevoli che possano essere prodotti a beneficio del condannato. Pertanto, l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen. da parte del giudice dell’esecuzione potrebbe essere consentito quando produca effetti favorevoli per il condannato, finanche consentendo di superare il principio dell’intangibilità del giudicato ove la richiesta di riconoscimento del reato continuato si basi su elementi nuovi e diversi rispetto ad altra richiesta in precedenza rigettata, sicché la nuova istanza non potrebbe essere ritenuta come una mera riproposizione di una richiesta già respinta.
In data 9 dicembre 2024 è pervenuta in Cancelleria la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, con la quale è stato chiesto il rigetto del ricorso.
In data 27 dicembre 2024 sono pervenute via PEC delle note di udienza trasmesse dall’avv. NOME nell’interesse di NOME COGNOME con cui è stato ribadito il sopravvenire di elementi nuovi di cui il Giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto tenere conto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Va premesso che l’art. 671, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che «nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione». Dunque, in base a tale disposizione il potere del giudice dell’esecuzione in materia di continuazione è limitato dalla eventuale esclusione
della continuazione nella fase del giudizio di cognizione, la cui decisione, dunque, costituisce res giudicata sostanziale ed esercita la medesima efficacia preclusiva della condanna, operando l’accertamento negativo della continuazione in maniera assoluta e non potendo, dunque, essere superato dalla considerazione di nuovi elementi non valutati in precedenza, a differenza di quanto avviene nel caso di statuizioni del giudice dell’esecuzione in materia di continuazione (Sez. 1, n. 19358 del 05/10/2016, dep. 2017, Crescenza, Rv. 269841).
Sotto altro profilo, l’identità del disegno criminoso sussistente in relazione a una pluralità di reati, comporta che ciascuno di essi, partecipando di tale identità, sia avvinto da una relazione perfettamente simmetrica rispetto a tutti gli altri reati, sicché, proprio in virtù della identità della genesi programmatica che costituisce l’essenza della continuazione, se un reato è connesso per continuazione a un secondo, e questo, a sua volta, a un terzo, anche il primo e il terzo sono necessariamente uniti in continuazione, in quanto tutti e tre i reati costituiscono estrinsecazione del medesimo disegno criminoso. Da ciò deriva ulteriormente, in negativo, che se la continuazione non ricorre tra due o più reati, essa non è configurabile, necessariamente, tra i gruppi dei reati connessi per continuazione con quelli per i quali il vincolo è stato escluso. Pertanto, l’efficacia preclusiva del giudicato sulla esclusione della continuazione tra due reati, si espande a tutti i reati che si suppongano connessi ai primi due (così Sez. 1, n. 16235 del 30/03/2010, Di Firmo, in motivazione; negli stessi termini Sez. 1, n. 17881 del 14/02/2017, COGNOME, Rv. 271401 – 01; Sez. 1, n. 35460 del 11/05/2021, COGNOME, Rv. 282001 – 01).
Come puntualmente evidenziato dal provvedimento impugnato, il fatto di bancarotta commesso in data 26 settembre 2013, accertato con la sentenza della Corte di appello di Milano del 17 maggio 2021, è stato espressamente ritenuto non avvinto dal vincolo della continuazione con il fatto di bancarotta commesso nel 2010, accertato con la sentenza del 7 marzo 2013 (e già riunito in continuazione con i fatti di bancarotta del 2011 e del 2017), secondo quanto affermato in sede di cognizione dalla sentenza in data 17 maggio 2021 della Corte di appello di Milano.
Pertanto, come correttamente osservato dal Procuratore generale in sede di requisitoria scritta, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, quale giudice dell’esecuzione, non avrebbe potuto “scindere” un reato continuato già riconosciuto come tale, “ritagliarne” uno degli elementi costitutivi e riunire detto episodio ad un altro fatto di bancarotta in precedenza già escluso dal riconoscimento del medesimo disegno criminoso.
Quanto, poi, all’assunto difensivo secondo cui con l’incidente di esecuzione siano stati dedotti dei fatti nuovi, in disparte la già evidenziata irrilevanza della
allegazione di fatti nuovi quando la continuazione sia stata sia pure in parte esclusa in sede di cognizione, va comunque osservato che non può configurare un fatto nuovo il sopravvenire di una sentenza di condanna per fatti ulteriori a quelli già giudicati, che nella specie non appare in grado di mettere in crisi le argomentazioni contenute nella sentenza della Corte di appello, nella quale si erano evidenziati i concreti elementi di fatto in base ai quali è stato ritenuto che la ripetitività di condotte similari da parte di COGNOME fosse indicativa di un costume di vita e non già dell’esistenza di un disegno criminoso unitario.
Ne consegue che il motivo del ricorso appare manifestamente infondato.
Sulla base delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000,00 euro.
PER QUESTI MOTIVI
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in data 9 gennaio 2025