Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 26844 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 26844 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 16/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI BARI nel procedimento a carico di:
COGNOME NOME NOME a FOGGIA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 05/10/2023 della CORTE APPELLO di BARI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto procuratore generale NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo l’annullamento del provvedimento impugNOME, con rinvio per nuovo giudizio.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza emessa in data 05 ottobre 2023 la Corte di appello di Bari, quale giudice dell’esecuzione, accogliendo l’istanza presentata da NOME COGNOME, ha ritenuto uniti per continuazione i reati giudicati con quattro diverse sentenze, calcolando la pena complessiva in 22 anni di reclusione.
La Corte di appello ha ritenuto uniti in continuazione due reati associativi, essendo stato l’istante condanNOME per la violazione dell’art. 416-bis cod.pen., quale capo della medesima associazione, con la prima sentenza fino al 21/05/1998, con la seconda dall’ottobre 2015 in poi, motivando la decisione sulla base della ininterrotta continuità della natura mafiosa di tale associazione, la cRAGIONE_SOCIALE. RAGIONE_SOCIALE, e in particolare della sua articolazione interna denominata RAGIONE_SOCIALE COGNOMERAGIONE_SOCIALEFrancavilla, e dell’assenza di elementi da cui dedurre un recesso dell’istante dall’associazione stessa. Ha poi ritenuto uniti al secondo delitto associativo i reati contro il patrimonio commessi nel 2015, giudicati con una terza sentenza, in quanto finalizzati ad agevolare la predetta RAGIONE_SOCIALE, essendo la sentenza anche confermativa dell’appartenenza del COGNOME all’associazione, e i delitti di detenzione e porto di armi commessi nel 2016, giudicati con la quarta sentenza, in quanto aventi la medesima finalità.
Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il procuratore generale presso la Corte di appello di Bari, articolando due motivi.
2.1. Con il primo motivo deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod.proc.pen., per la erronea applicazione delle norme sulla continuazione.
La Corte di appello ha riunito i reati associativi, nonostante la notevole distanza temporale tra loro, senza argomentare in ordine alla prova che le due violazioni fossero state deliberate e volute, almeno nelle linee generali, sin dall’inizio. In questo caso la distanza temporale costituisce un elemento di rilevanza fondamentale. Inoltre rilevano, in senso contrario al riconoscimento della sussistenza di un unico disegno criminoso, le condanne intervenute in tale intervallo temporale: il COGNOME è stato condanNOME, nel 2011, per il delitto di cui all’art. 416 cod.pen. commesso dal 01/02/2006 al 31/03/2007, avendo i giudici riqualificato il fatto, contestato come violazione dell’art. 416-bis cod.pen., ed affermato che due clan contrapposti, uno dei quali era quello di appartenenza del COGNOME, si erano accordati per formae un unico cartello abbandonando i pregressi metodi mafiosi, così accogliendo quella che, all’epoca, era stata la tesi difensiva del COGNOME. Inoltre le sentenze che hanno accertato l’ininterrotta continuità della natura mafiosa della c.d. RAGIONE_SOCIALE non hanno riguardato il COGNOME, che
non è stato mai condanNOME in tali procedimenti; tali sentenze, anzi, hanno affermato la sua dissociazione, sostenendo che egli sarebbe uscito dal carcere proprio per voltare pagina rispetto ai metodi mafiosi usati in precedenza. Anche nella sentenza emessa in data 16 gennaio 2020 e relativa all’operazione “Saturno”, i cui reati sono stati ritenuti uniti in continuazione con gli altri, richiamata la pronuncia emessa a carico del coimputato, nella quale la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso è stata esclusa affermando che “la comprovata fuoriuscita del COGNOME dal circuito mafioso … esclude una manifestazione di tipo mafioso della relativa condotta”. La Corte di appello, in definitiva, ha travisato il concetto di identità di disegno criminoso, confondendolo con la generica deliberazione criminosa, indice di una concezione di vita ispirata all’illecito.
2.2. Con il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod.proc.pen., per la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in merito alla valutazione del c.d. tempo silente.
La motivazione è illogica e contraria ai principi normativi e giurisprudenziali laddove la Corte di appello ha rilevato, come elemento significativo, l’assenza di elementi che dimostrino lo scioglimento della RAGIONE_SOCIALE o il recesso del COGNOME, mentre la giurisprudenza afferma che la continuazione tra condanne per delitti associativi intervallati da una notevole distanza temporale non può basarsi su una presunzione di stabile inserimento, dovendo essere individuato un contributo giuridicamente rilevante dato dal soggetto all’associazione. Il principio su cui si è basato il giudice dell’esecuzione, di irrilevanza del tempo silente, è stato dettato in tema di esigenze cautelari, affermando non sufficiente la distanza temporale dal fatto per ritenere cessate le esigenze cautelari, mentre il giudice lo ha applicato in termini opposti, esonerando cioè l’istante dal dover fornire elementi che dimostrino il permanere del vincolo associativo nonostante la forte distanza temporale tra i due reati, e di fatto svalutando come irrilevante tale arco temporale.
Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto l’annullamento del provvedimento impugNOME, con rinvio per un nuovo giudizio.
Il ricorrente ha depositato una memoria, redatta dall’AVV_NOTAIO, con la quale chiede dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, e due memorie di replica alla requisitoria del Procuratore generale, redatte dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso del procuratore generale presso la Corte di appello di Bari è fondato, e deve essere accolto.
Costituisce un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità, quello secondo cui «Il riconoscimento della continuazione necessita, anche in sede di esecuzione, non diversamente che nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea» (Sez. U, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074). Deve, pertanto, essere positivamente accertata la sussistenza di indici da cui dedurre che sin dalla commissione del primo reato il condanNOME ha programmato la commissione degli ulteriori reati, per i quali chiede l’applicazione dell’istitut della continuazione, dovendo essere provata una unicità di disegno criminoso presente sin dalla fase iniziale delle varie violazioni.
Tale accertamento deve essere particolarmente accurato quando, come nel presente caso, tra i reati per i quali è chiesta l’applicazione della continuazione vi sia una notevole distanza temporale, dal momento che «In caso di reati commessi a distanza temporale l’uno dell’altro, si deve presumere, salvo prova contraria, che la commissione di ulteriori fatti, anche analoghi per modalità e “nomen juris”, non poteva essere progettata specificamente al momento di commissione del fatto originario, e deve quindi negarsi la sussistenza della continuazione» (Sez. 1, n. 3747 del 16/01/2009, Rv. 242537).
Anche nel caso della commissione di due reati di partecipazione alla medesima associazione criminosa, tra cui sussista un significativo intervallo temporale, occorre verificare se l’adesione all’associazione non sia, in realtà, mai venuta meno, essendo stato commesso un unico reato permanente giudicato per separati segmenti temporali, ovvero se la successiva, nuova adesione all’associazione, dopo una fase interruttiva della partecipazione ad essa, sia stata almeno nelle sue linee generali programmata sin dall’inizio della prima, originaria adesione, perché se la decisione del condanNOME di partecipare di nuovo ad essa,
dopo essersene allontaNOME, è frutto di una deliberazione sopravvenuta, non può riconoscersi l’unicità del disegno criminoso tra le due condotte di reato.
Questa Corte, in particolare, ha stabilito che «Ai fini della configurabilità del vincolo della continuazione tra reati di associazione per delinquere di stampo mafioso, non è sufficiente il riferimento alla tipologia del reato ed all’omogeneità delle condotte, ma occorre una specifica indagine sulla natura dei vari sodalizi, sulla loro concreta operatività e sulla loro continuità nel tempo, al fine di accertare l’unicità del momento deliberativo e la sua successiva attuazione attraverso la progressiva appartenenza del soggetto ad una pluralità di organizzazioni ovvero ad una medesima organizzazione (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto corretta l’esclusione del vincolo della continuazione tra il reato associativo accertato con la sentenza impugnata ed altro analogo reato, relativo alla medesimo clan camorristico, accertato con sentenza di condanna emessa vent’anni prima, in quanto dalla sentenza impugnata emergeva che il gruppo criminale, sebbene operanté nel medesimo ambito territoriale, era profondamente mutato nel tempo, quanto alla compagine sociale ed al programma delinquenziale, per effetto di circostanze contingenti ed occasionali inimmaginabili al momento dell’iniziale affiliazione del ricorrente)» (Sez. 6, n. 51906 del 15/09/2017, Rv. 271569; vedi anche Sez. 5, n. 20900 del 26/04/2021, Rv. 281375)x
La sentenza impugnata non si è conformata a questi principi, in quanto ha ritenuto sussistente la continuazione tra i due reati associativi per i quali il Sines è stato condanNOME solo sulla base della «ininterrotta continuità della natura mafiosa della c.d. RAGIONE_SOCIALE e, al suo interno, della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE». Il giudice dell’esecuzione, pertanto, ha verificato solo la continuità nel tempo dell’associazione, e della sottostruttura in cui il condanNOME ha ricoperto un ruolo di vertice nei due periodi temporali addebitatigli, ma non ha effettuato alcuna valutazione circa la concreta identità del gruppo criminale e del suo programma, e circa l’elemento volitivo, cioè la presenza di una effettiva volontà del condanNOME di commettere i due reati associativi, rimasta presente sin dall’inizio dell’adesione all’associazione e per il lungo intervallo temporale tra le due partecipazioni ad essa.
Occorre ricordare che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto, con riferimento al reato associativo, che la condotta criminosa, anche se contestata in tempi diversi, cessa solo con lo scioglimento del sodalizio criminale o per effetto di condotte che denotino l’avvenuto recesso volontario. Il reato associativo, infatti, ha ontologicamente la struttura di reato permanente, ma può
accadere che venga giudicato, in sede cognitiva, per singoli segmenti temporali: la Corte costituzionale, con la sentenza n. 53 del 08 marzo 2018, ha ritenuto legittimo quello che ha chiamato «l’istituto dell’interruzione giudiziale della permanenza», e apprezzabile che, nel caso del verificarsi di emissione di più sentenze definitive con riferimento ad un unico reato permanente, suddiviso in distinti segmenti temporali, si intervenga a ripristinare l’unicità della pena che sarebbe stata irrogata in sede di cognizione applicando, anche in sede esecutiva, la disciplina del reato continuato (si veda Sez. 1, n. 15133 del 03/03/2009, Rv. 243789: «La sentenza di condanna per un reato associativo interrompe giuridicamente la protrazione del delitto di partecipazione a quella stessa associazione criminosa, sicché il successivo tratto di condotta partecipativa è autonomamente apprezzabile e può essere valutato in continuazione con quella oggetto della sentenza di condanna già intervenuta»).
L’applicazione dell’istituto della continuazione richiede, però, la verifica della sussistenza dell’unicità del disegno criminoso, deducibile attraverso gli indici sopra richiamati. Essa non può essere presunta solo sulla base della persistente attività della medesima associazione criminosa, dovendo valutarsi, come detto, anche la presenza nel condanNOME, sin dall’iniziale partecipazione, di un’unica volontà di aderire a detta associazione, indipendentemente dal sopravvenire di possibili, momentanee vicende interruttive del rapporto, così che si possa ritenere che la consumazione del reato permanente non è mai cessata.
4. L’unicità del disegno criminoso, come detto, non può essere presunta, ma deve essere accertata positivamente, come presente sin dalla consumazione del primo reato e quindi, nel caso dei delitti associativi, sin dalla iniziale adesione all’associazione. Questa Corte ha sempre affermato, infatti, che «l’unicità del disegno criminoso presuppone l’anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già presenti nella mente del reo nella loro specificità, e la prova di tale congiunta previsione deve essere ricavata, di regola, anche in caso di riconoscimento in sede esecutiva, da indici esteriori che siano significativi, alla luce dell’esperienza, del dato progettuale sottostante alle condotte poste in essere. Tali indici hanno un carattere sintomatico e non direttamente dimostrativo, per cui l’accertamento, che in tale fase è officioso e non comporta oneri probatori, deve assumere il carattere di effettiva dimostrazione logica, non potendo essere affidato a semplici congetture o presunzioni» (Sez. 1, n. 35797 del 12/05/2006, Rv. 234980).
L’ordinanza impugnata, pertanto, è errata laddove ha fatto applicazione del concetto del c.d. “tempo silente” per affermare che, mancando la prova del
recesso del condanNOME dall’associazione di appartenenza, si deve presumere che la sua partecipazione ad essa non sia mai cessata. Il concetto in questione è stato elaborato per una finalità del tutto diversa, quale l’applicazione di una misura cautelare, e soprattutto in presenza di una norma quale l’art. 275, comma 3, cod.proc.pen., che introduce una presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari. E’ in relazione a tale presunzione che la giurisprudenza ha affermato che il mero decorso del tempo senza una prova del permanere del vincolo associativo nòn è sufficiente per ritenere dimostrato l’allontanamento dell’indagato dall’associazione, e per superare, quindi, la presunzione circa la sussistenza delle predette esigenze cautelari. In relazione all’istituto della continuazione, al contrario, non vige alcuna presunzione, e l’unicità del disegno criminoso non può essere presunta ma deve essere accertata positivamente, e addirittura il decorso del tempo tra due reati, senza la prova di una continuità della condotta criminosa, può essere ritenuto ostativo al riconoscimento dell’unicità del disegno criminoso.
Nel presente caso, inoltre, il procuratore ricorrente ha evidenziato la sussistenza di elementi a suo parere dimostrativi della interruzione del rapporto associativo, costituiti da condanne intervenute medio tempore che hanno accertato la partecipazione del COGNOME, nei molti anni per i quali egli non è stato mai ritenuto partecipe del clan originario, ad associazioni diverse, formate da altri sodali e, soprattutto, non applicative di metodi mafiosi.
La censura dell’ordinanza impugnata per non avere tenuto conto di tali pronunce dei giudici della cognizione è fondata, trattandosi di elementi che illuminano la condotta tenuta dal COGNOME nel tempo trascorso tra i due reati associativi per i quali è stata riconosciuta la continuazione, e possono fornire elementi idonei per valutare la permanenza della sua volontà di partecipare alla prima, medesima associazione, ovvero il venir meno di tale volontà se, come sottolineato nel ricorso, nella sentenza relativa all’operazione “Corona” (e similmente in quella relativa all’operazione “Saturno”) si è affermato che non vi era continuità tra la precedente associazione e quella costituita ex novo dal COGNOME, ed egli si era allontaNOME dai metodi mafiosi usati dalla prima, recidendo, quindi, il legame con essa.
L’ordinanza impugnata, pertanto, deve essere annullata nella parte in cui ha applicato la continuazione tra i reati associativi contestati nelle due sentenze elencate sub a) e d), essendo la motivazione carente nonché fondata su principi erroneamente applicati.
L’ordinanza deve essere annullata anche nella parte in cui ha ritenuto uniti in continuazione con i reati associativi i reati-fine giudicati con le sentenze elencate sub b) e c).
La motivazione è carente ed errata, perché manca del tutto la valutazione della unicità di disegno criminoso tra tali reati e ciascuno dei reati associativi, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui non è sufficiente, per riconoscere tale unicità, che tali reati siano astrattamente compresi nell’oggetto dell’associazione o siano stati commessi per agevolare la stessa. Questa Corte ha infatti costantemente affermato che «È ipotizzabile la continuazione tra il reato di partecipazione ad associazione mafiosa e i reati fine, a condizione che il giudice verifichi puntualmente che questi ultimi siano stati programmati al momento in cui il partecipe si è determiNOME a fare ingresso nel sodalizio» (Sez. 1, n. 23818 del 22/06/2020; Sez. 1, n. 39858 del 28/04/2023, Rv. 285369; Sez. 5, n. 54509 del 08/10/2018, Rv. 275334).
In questo caso, l’avvenuto riconoscimento della continuazione con il reato associativo commesso sino al 1998, così ritenendo, di fatto, sussistente un unico reato permanente giudicato per singoli segmenti temporali, imponeva di verificare se la commissione di quei reati-fine fosse stata programmata, nelle sue linee generali, sin dalla prima adesione del condanNOME all’associazione stessa, o se la loro ideazione fosse sopravvenuta nel corso degli anni, magari a fronte di nuove emergenze o di nuove decisioni operative, circostanza che imporrebbe di escludere l’applicazione dell’istituto della continuazione.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, accolto, e l’ordinanza impugnata deve essere annullata, con rinvio alla Corte di appello di Bari per un nuovo giudizio, da svolgersi con piena libertà valutativa, ma nel rispetto dei principi sopra puntualizzati.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad alla Corte di appello di Bari.
Così deciso il 16 maggio 2024
Il Consigliere estensore
Il President