Reato Continuato: Quando il Ricorso in Cassazione è Inammissibile
L’istituto del reato continuato rappresenta un pilastro del nostro sistema sanzionatorio, consentendo di unificare diverse condotte criminose sotto un unico disegno e determinare una pena più favorevole per il condannato. Tuttavia, l’accesso a questo beneficio, specialmente in fase esecutiva, è subordinato a regole precise. Con la recente ordinanza n. 6667/2025, la Corte di Cassazione ribadisce l’importanza di presentare ricorsi specifici e ben argomentati, pena la declaratoria di inammissibilità. Vediamo nel dettaglio il caso e i principi affermati.
I fatti del caso
Un soggetto, già condannato con sentenze distinte per reati gravi quali associazione di tipo mafioso, estorsione e narcotraffico, si era rivolto alla Corte d’Appello, in funzione di giudice dell’esecuzione, per ottenere il riconoscimento del vincolo della continuazione tra le varie condanne. La Corte d’Appello accoglieva parzialmente la richiesta, unificando le pene per i reati più gravi ma escludendo dal medesimo vincolo un’ulteriore condanna per la violazione di cui all’art. 75 del d.lgs. 159/2011 (il cosiddetto Codice Antimafia). Inoltre, nel rideterminare la pena complessiva, la Corte aveva applicato un aumento per uno dei reati satellite.
Insoddisfatto, il condannato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando due aspetti:
1. Il mancato riconoscimento della continuazione anche per il reato previsto dal Codice Antimafia, sostenendo che fosse intrinsecamente legato al contesto mafioso degli altri delitti.
2. L’assenza di una motivazione adeguata riguardo all’entità dell’aumento di pena applicato per il reato satellite.
L’analisi del reato continuato da parte della Corte
La Corte di Cassazione ha esaminato entrambi i motivi di ricorso, ritenendoli entrambi infondati e, di conseguenza, dichiarando il ricorso inammissibile. Per i giudici di legittimità, le argomentazioni del ricorrente non erano idonee a scalfire la logicità e la coerenza della decisione impugnata, ma si limitavano a sollecitare una nuova valutazione dei fatti, preclusa in sede di Cassazione.
In particolare, la Corte ha sottolineato che il tentativo di ricollegare la violazione del Codice Antimafia agli altri reati sulla base della sua presunta ‘intraneità a contesti mafiosi’ era stato giudicato come una tesi ‘assertiva’ e generica. La Corte d’Appello aveva già motivato l’esclusione, evidenziando la natura ‘formale’ della violazione e l’assenza di un collegamento concreto con le altre condotte delittuose.
La motivazione sulla quantificazione della pena
Anche il secondo motivo, relativo alla presunta carenza di motivazione sull’aumento di pena, è stato respinto. La Cassazione ha osservato che il giudice dell’esecuzione aveva, di fatto, adempiuto al suo obbligo. Sebbene in modo sintetico, aveva giustificato la sua decisione (riducendo la pena da undici a tre anni) facendo esplicito riferimento alle ‘modalità della condotta’ e alla ‘personalità del reo’.
Questi criteri, previsti dagli articoli 132 e 133 del Codice Penale, sono i parametri attraverso cui il giudice esercita il suo potere discrezionale nella commisurazione della pena. Secondo la Suprema Corte, tale richiamo è sufficiente a rendere controllabile il percorso logico-giuridico seguito, soprattutto quando, come nel caso di specie, si traduce in una significativa riduzione della sanzione.
Le motivazioni
La decisione della Cassazione si fonda su un principio consolidato: il ricorso per Cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sul merito delle questioni. Le doglianze devono individuare specifiche fratture logiche o violazioni di legge nel provvedimento impugnato, non limitarsi a proporre una diversa interpretazione dei fatti.
Nel primo motivo, il ricorrente non ha dimostrato un errore giuridico nella valutazione della Corte d’Appello, ma ha solo contrapposto la propria tesi, che la Corte ha ritenuto non provata e generica. Per il secondo motivo, la Corte ha ribadito che l’obbligo di motivazione sull’aumento di pena per il reato continuato è assolto anche con un richiamo ai criteri generali di cui agli artt. 132 e 133 c.p., purché tale richiamo non sia meramente di stile ma trovi riscontro negli atti processuali e nella decisione concreta, come la sensibile riduzione della pena dimostrava.
Conclusioni
Questa ordinanza offre importanti spunti pratici. In primo luogo, chi intende chiedere il riconoscimento del reato continuato in sede esecutiva deve fornire elementi concreti e specifici che dimostrino l’esistenza di un medesimo disegno criminoso, non potendo basarsi su generiche appartenenze a determinati contesti. In secondo luogo, la contestazione della quantificazione della pena deve evidenziare un’illogicità manifesta o una totale assenza di motivazione, poiché il potere discrezionale del giudice, se esercitato nel perimetro dei criteri legali, è difficilmente censurabile in sede di legittimità. Il ricorso è stato quindi dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese e di un’ammenda.
Quando un ricorso in Cassazione sul reato continuato rischia di essere dichiarato inammissibile?
Un ricorso viene dichiarato inammissibile quando le motivazioni sono generiche, assertive o si limitano a sollecitare una nuova valutazione dei fatti già esaminati dal giudice dell’esecuzione, senza individuare specifiche violazioni di legge o vizi logici nel provvedimento impugnato.
È sufficiente per il giudice motivare l’aumento di pena per il reato continuato facendo riferimento a criteri generali come le ‘modalità della condotta’ e la ‘personalità del reo’?
Sì, secondo la Corte di Cassazione, il richiamo a tali criteri (previsti dagli artt. 132 e 133 c.p.) è sufficiente ad assolvere l’obbligo di motivazione, in quanto consente di controllare il percorso logico e giuridico seguito dal giudice nell’esercizio del suo potere discrezionale, specialmente se la decisione comporta una sensibile riduzione della pena.
Può essere riconosciuto il vincolo della continuazione tra reati gravi come l’associazione mafiosa e la violazione ‘formale’ di una misura di prevenzione?
Non automaticamente. La Corte d’Appello, con decisione confermata dalla Cassazione, ha ritenuto che una violazione di natura ‘formale’, come quella prevista dall’art. 75 d.lgs. 159/2011, possa essere esclusa dal vincolo della continuazione se non viene dimostrato un collegamento concreto e specifico con le altre condotte delittuose, al di là di un generico inserimento in un contesto mafioso.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 6667 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 6667 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 16/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a CASTIGLIONE DI SICILIA il 15/06/1970
avverso l’ordinanza del 11/09/2024 della CORTE APPELLO di MESSINA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
Visti gli atti e l’ordinanza impugnata;
letti i motivi del ricorso;
rilevato che:
con il provvedimento impugnato la Corte di appello di Messina ha riconosciuto parzialmente il vincolo della continuazione ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen. in relazione alle condanne riportate da NOME COGNOME con distinte sentenze delle quali la prima per i delitti di cui all’art. 416bis cod. pen., estorsione, narcotraffico e detenzione a fine di spaccio di sostanze stupefacenti e la seconda per estorsione;
con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta il mancato riconoscimento del medesimo vincolo per la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011;
con il secondo motivo viene criticata l’assenza di motivazione sull’aumento a titolo di continuazione quantificato per il reato di cui alla seconda sentenza;
ritenuto che:
entrambi i motivi tendono a sollecitare a questa Corte valutazioni in punto di fatto mediante la nuova disamina di questioni già valutate ed esaminate dal giudice dell’esecuzione;
in particolare, quanto al mancato riconoscimento della continuazione anche con il reato di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, la Corte di appello ha segnalato la natura «formale» della violazione e l’assenza di qualsiasi collegamento con le altre condotte delittuose;
a fronte di tale motivazione, la tesi del ricorrente che pretende di affermare la sussistenza del vincolo della continuazione in ragione della sua intraneità a contesti mafiosi è assertiva e inidonea ad individuare una qualsiasi frattura della ricostruzione complessivamente operata nell’ordinanza impugnata;
il secondo motivo tende ad individuare un difetto di motivazione in punto di quantificazione della pena per il reato satellite, laddove il giudice dell’esecuzione ha ridotto sensibilmente la pena fissata in sede di cognizione (da undici a tre anni) spiegando che ha tenuto conto delle «modalità della condotta» e della «personalità del reo»;
in tal modo ha, senz’altro, assolto all’obbligo di motivare l’aumento in ossequio al principio consolidato secondo cui «in tema di quantificazione della pena a seguito di applicazione della disciplina del reato continuato in sede esecutiva, il giudice – in quanto titolare di un potere discrezionale esercitabile secondo i parametri fissati dagli artt. 132 e 133 cod. pen. – è tenuto a motivare, non solo in ordine all’individuazione della pena-base, ma anche in ordine all’entità dei singoli aumenti per i reati-satellite ex art. 81, comma secondo, cod. pen., in modo da rendere possibile un controllo effettivo del percorso logico e giuridico seguito nella
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determinazione della pena, non essendo all’uopo sufficiente il semplice rispetto del limite legale del triplo della pena-base» (fra le molte e le più recenti, Sez. 1, n. 800 del 07/10/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280216; Sez. 1, n. 17209 del 25/05/2020, COGNOME, Rv. 279316; principi recepiti ora, da Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269).
considerato che, pertanto, deve essere dichiarata la inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 16/1/2025