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Reato continuato e mafia: la Cassazione chiarisce

Un soggetto, condannato più volte per associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.) in periodi diversi, ha chiesto il riconoscimento del reato continuato. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso su questo punto, chiarendo che una sentenza di primo grado interrompe la permanenza del reato, permettendo di unificare le pene per le condotte successive. Ha invece respinto la richiesta di continuazione tra il reato associativo e i reati fine, in assenza di prova di un unico disegno criminoso iniziale.

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Pubblicato il 14 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reato Continuato e Associazione Mafiosa: La Cassazione Fa Chiarezza

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45211/2024, torna su un tema di grande rilevanza nel diritto penale: l’applicazione del reato continuato alle condanne per associazione di tipo mafioso. Questa pronuncia offre chiarimenti cruciali su come e quando sia possibile unificare le pene per chi è stato condannato più volte per la sua partecipazione, in periodi diversi, alla stessa organizzazione criminale. La decisione distingue nettamente tra la continuazione interna al reato associativo e quella con i cosiddetti “reati fine”.

I Fatti del Caso

Il caso riguarda un individuo condannato con diverse sentenze irrevocabili per la sua partecipazione a un’associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) in distinti archi temporali. L’imputato aveva inoltre riportato condanne per altri gravi reati, tra cui omicidio e trasferimento fraudolento di valori. In fase esecutiva, la difesa aveva richiesto al giudice il riconoscimento del reato continuato tra tutte queste condanne, al fine di ottenere l’applicazione del più favorevole cumulo giuridico delle pene.

La Corte d’Assise d’Appello, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva respinto integralmente la richiesta. Contro questa decisione, l’interessato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando un’errata interpretazione della legge, in particolare riguardo alla possibilità di applicare la continuazione tra le diverse condanne per il reato associativo.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha analizzato i due motivi di ricorso separatamente, giungendo a una decisione “bifasica”: ha accolto il ricorso per quanto riguarda la continuazione tra le condanne per il reato di mafia, ma lo ha respinto per la parte relativa alla continuazione tra il reato associativo e gli altri delitti.

Il Reato Continuato e la Partecipazione Mafiosa: Un Principio Fondamentale

Sul primo punto, la Cassazione ha ritenuto fondate le censure della difesa. I giudici di legittimità hanno ribadito un principio ormai consolidato, anche a seguito di una pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 53/2018): la natura permanente del reato associativo non impedisce l’applicazione del reato continuato.

L’elemento chiave è l'”interruzione giudiziale”. Una sentenza di condanna, infatti, delimita un preciso periodo di partecipazione al sodalizio. Se la condotta criminale prosegue anche dopo tale data, essa costituisce un nuovo e autonomo reato. Questa “frattura” dell’unità della condotta permette di considerare i diversi segmenti temporali di partecipazione come reati distinti, che possono essere uniti dal vincolo della continuazione se sorretti da un medesimo disegno criminoso. La Corte di merito aveva errato nel considerare la permanenza del reato come un ostacolo insormontabile, ignorando questa consolidata giurisprudenza.

Reato Continuato tra Associazione e Reati Fine: La Necessità di un Unico Disegno Criminoso

Sul secondo punto, la Corte ha dato torto al ricorrente. La difesa sosteneva che i reati fine (come l’omicidio o il trasferimento fraudolento di beni) dovessero essere considerati in continuazione con il reato associativo, in quanto previsti dal “programma” generale dell’organizzazione mafiosa. La Cassazione ha respinto questa tesi, chiarendo una distinzione fondamentale: il programma generico dell’associazione non coincide con il “medesimo disegno criminoso” del singolo partecipe.

Perché si possa configurare il reato continuato, è necessario dimostrare che l’individuo, nel momento stesso in cui ha deciso di aderire all’associazione, si sia rappresentato e abbia voluto la commissione di quei specifici reati fine, almeno nelle loro linee essenziali. Non è sufficiente la mera consapevolezza che l’organizzazione commetta quel tipo di delitti. In assenza di questa prova, i reati fine mantengono la loro autonomia e non possono essere unificati sotto il vincolo della continuazione con il reato associativo.

Le Motivazioni della Corte

La Corte ha motivato la sua decisione richiamando la propria giurisprudenza e quella della Corte Costituzionale. Per quanto riguarda il reato di cui all’art. 416-bis c.p., ha spiegato che l’accertamento contenuto in una sentenza “frantuma” l’unità sostanziale della condotta permanente. Di conseguenza, la successiva prosecuzione della partecipazione all’associazione può dar luogo all’applicazione dell’istituto della continuazione in sede esecutiva. Il giudice dell’esecuzione ha il compito di valutare, sulla base degli atti, se sussistono le condizioni per tale riconoscimento.

Per quanto concerne invece il rapporto con i reati fine, la motivazione si è concentrata sulla rigorosa interpretazione del concetto di “medesimo disegno criminoso”. I giudici hanno sottolineato che sovrapporre il programma dell’associazione al disegno criminoso del singolo significherebbe snaturare l’istituto del reato continuato. È richiesta una deliberazione unitaria iniziale che abbracci la commissione dei singoli reati futuri, non una generica adesione a un sodalizio che ha tra i suoi scopi la commissione di delitti.

Le Conclusioni

In conclusione, la sentenza annulla l’ordinanza impugnata e rinvia il caso alla Corte d’Assise d’Appello per un nuovo esame, ma solo limitatamente al mancato riconoscimento della continuazione tra le diverse condanne per il reato associativo. Per il resto, il ricorso è stato rigettato. Questa decisione ha importanti implicazioni pratiche: conferma che chi continua a far parte di un’associazione mafiosa dopo una prima condanna può beneficiare di un trattamento sanzionatorio più mite tramite il reato continuato, ma allo stesso tempo pone paletti rigorosi alla possibilità di estendere tale beneficio ai reati specifici commessi nell’ambito dell’attività del sodalizio, per i quali è richiesta una prova più stringente di una programmazione criminosa unitaria e originaria.

È possibile applicare il reato continuato a più condanne per partecipazione alla stessa associazione mafiosa?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, una sentenza di condanna interrompe la permanenza del reato, “frantumando” l’unità della condotta. Pertanto, la successiva prosecuzione della partecipazione costituisce un reato autonomo che può essere legato ai precedenti dal vincolo della continuazione, se sussiste un medesimo disegno criminoso.

Cosa si intende per “interruzione giudiziale” della permanenza del reato?
Si intende l’effetto di un accertamento contenuto in una sentenza (ad esempio, quella di primo grado) che delimita temporalmente la condotta di partecipazione al sodalizio. Questo accertamento fissa un termine finale alla condotta giudicata, rendendo la sua eventuale prosecuzione una nuova e distinta violazione di legge.

Per riconoscere la continuazione tra il reato di associazione mafiosa e i “reati fine” è sufficiente che questi rientrino nel programma del clan?
No, non è sufficiente. La Corte ha chiarito che il programma generale dell’associazione non equivale al “medesimo disegno criminoso” richiesto per la continuazione. È necessario dimostrare che il singolo individuo, al momento dell’adesione, avesse già programmato di commettere specificamente quei reati fine, almeno nelle loro linee essenziali.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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