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Reato continuato: divieto di reformatio in peius

La Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso di reato continuato, rigettando la richiesta di riconoscimento del ‘bis in idem’ per due diversi reati associativi ma accogliendo il ricorso su un punto cruciale: il calcolo della pena. La Suprema Corte ha annullato l’ordinanza del giudice dell’esecuzione perché, nel rideterminare la sanzione complessiva, non aveva adeguatamente motivato il calcolo, rendendo impossibile verificare il rispetto del divieto di ‘reformatio in peius’, ossia il divieto di infliggere una pena più grave di quella originaria.

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Pubblicato il 21 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reato Continuato: La Cassazione e il Divieto di Pena Più Grave

L’istituto del reato continuato rappresenta uno strumento fondamentale nel diritto penale per garantire un trattamento sanzionatorio equo a chi commette più violazioni della legge in esecuzione di un unico disegno criminoso. Tuttavia, la sua applicazione in fase esecutiva presenta complessità che richiedono un’attenta valutazione da parte del giudice. Con la sentenza n. 36885 del 2024, la Corte di Cassazione è intervenuta per ribadire un principio cardine: il divieto di reformatio in peius, ovvero il divieto di peggiorare la pena finale rispetto a quella stabilita nei giudizi di cognizione.

I Fatti del Caso

La vicenda trae origine dal ricorso di un condannato che si era rivolto al Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Bari con due specifiche richieste. In primo luogo, chiedeva il riconoscimento del principio del bis in idem, sostenendo di essere stato condannato due volte per lo stesso reato di associazione per delinquere, una volta dal Tribunale di Milano e una dal Tribunale di Bari. In secondo luogo, domandava l’applicazione della disciplina del reato continuato per unificare le pene derivanti dalle sentenze di Milano e Bari con una terza condanna emessa dal Tribunale di Taranto.

Il Giudice dell’esecuzione aveva parzialmente accolto le istanze: rigettava la richiesta di bis in idem, ma riconosceva il vincolo della continuazione solo tra i reati giudicati a Milano e Bari, rideterminando la pena complessiva in sette anni e quattro mesi di reclusione e 4.900,00 euro di multa. Escludeva, invece, dalla continuazione i reati oggetto della sentenza di Taranto.

Contro questa decisione, la difesa ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, contestando sia il mancato riconoscimento del bis in idem sia la mancata estensione della continuazione alla sentenza di Taranto. Il motivo più rilevante, tuttavia, riguardava la violazione del divieto di reformatio in peius nel calcolo della nuova pena.

La Decisione della Corte di Cassazione sul reato continuato

La Suprema Corte ha esaminato attentamente tutti i motivi del ricorso, giungendo a conclusioni diverse per ciascuno.

I primi quattro motivi sono stati respinti. Riguardo al bis in idem, la Corte ha confermato la decisione del giudice di merito, sottolineando che i due reati associativi non erano identici, differendo per numero di associati, collocazione geografica, scopi illeciti e arco temporale. Analogamente, è stata ritenuta corretta l’esclusione della sentenza di Taranto dal reato continuato, poiché i reati di detenzione e porto d’armi erano stati considerati avulsi dal medesimo disegno criminoso che legava le altre condotte.

Il quinto motivo di ricorso, invece, è stato accolto. Questo motivo criticava la determinazione della pena effettuata dal giudice dell’esecuzione, sostenendo che fosse stata rideterminata in misura maggiore rispetto a quella risultante dalle sentenze originarie.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha fondato la sua decisione su un principio consolidato, sancito anche dalle Sezioni Unite: il giudice dell’esecuzione, quando applica la disciplina del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i cosiddetti reati-satellite in misura superiore a quelli già fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile. In altre parole, la nuova pena complessiva non può essere peggiore di quella che sarebbe risultata applicando le regole del cumulo materiale delle pene originarie.

Nel caso specifico, l’ordinanza impugnata era viziata da una carenza di motivazione. Il giudice dell’esecuzione non aveva indicato precisamente i singoli segmenti di pena determinati nei giudizi di cognizione, né aveva esplicitato il calcolo seguito per arrivare alla pena finale di sette anni e quattro mesi. Questa omissione rendeva impossibile per la Corte di Cassazione verificare se fosse stato rispettato il divieto di reformatio in peius. L’ordinanza, sotto questo profilo, risultava priva di adeguata motivazione e, pertanto, illegittima.

Le Conclusioni

In conclusione, la Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza impugnata limitatamente al punto concernente gli aumenti di pena per la continuazione. Ha disposto il rinvio al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, specificando che il nuovo giudizio dovrà essere tenuto da un magistrato diverso, per una nuova determinazione della pena che rispetti le norme di legge e, in particolare, il divieto di peggioramento della sanzione. La sentenza ribadisce l’importanza della trasparenza e del rigore motivazionale nelle decisioni del giudice dell’esecuzione, a garanzia dei diritti fondamentali del condannato.

Quando due reati di associazione per delinquere possono essere considerati lo stesso fatto ai fini del ‘bis in idem’?
Secondo la sentenza, non possono essere considerati lo stesso fatto se presentano diversità nel numero degli associati, nella collocazione geografica degli accadimenti, negli scopi illeciti perseguiti e negli archi temporali considerati.

Il giudice dell’esecuzione può aumentare la pena per i reati satellite quando applica il reato continuato?
No, il giudice dell’esecuzione non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna, in rispetto del divieto di ‘reformatio in peius’.

Cosa accade se l’ordinanza del giudice dell’esecuzione non motiva adeguatamente il calcolo della pena nel reato continuato?
Se l’ordinanza non indica precisamente i segmenti di pena e il calcolo effettuato, risulta priva di adeguata motivazione. Di conseguenza, deve essere annullata sul punto specifico, con rinvio a un nuovo giudice per una corretta rideterminazione e motivazione della pena.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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