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Reato associativo: quando lo spaccio è prova del clan

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 35053 del 2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un soggetto in custodia cautelare per reato associativo di stampo mafioso e traffico di stupefacenti. La Corte ha ribadito che la reiterata commissione di delitti, come lo spaccio, può costituire grave indizio di partecipazione all’associazione, specialmente se le condotte rivelano un ruolo specifico e funzionale all’interno del gruppo criminale. Il ricorso è stato respinto perché ritenuto generico e volto a un riesame dei fatti, non consentito in sede di legittimità.

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Pubblicato il 18 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reato Associativo: la Cassazione chiarisce quando lo spaccio prova l’appartenenza al clan

La partecipazione a un reato associativo, specialmente di stampo mafioso, è una delle accuse più gravi nel nostro ordinamento. Ma quali elementi sono sufficienti per dimostrarla in fase cautelare? La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 35053 del 2024, offre chiarimenti cruciali, stabilendo che anche la reiterata attività di spaccio, se inserita in un contesto organizzato, può costituire un grave indizio di colpevolezza. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I fatti alla base della vicenda

Il caso riguarda un soggetto destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per la sua presunta partecipazione a un’associazione di tipo mafioso e a un sodalizio finalizzato al traffico di stupefacenti. Secondo l’accusa, l’organizzazione criminale esercitava il proprio controllo su un territorio specifico avvalendosi della forza di intimidazione, manifestata attraverso estorsioni, pestaggi e attentati. Il clan traeva profitto non solo dalla gestione del traffico di droga, ma anche dall’asservimento degli organi amministrativi locali, influenzando le elezioni per ottenere favori.

L’indagato, in questo contesto, avrebbe avuto un ruolo attivo nel sodalizio dedito allo spaccio, controllando una piazza di spaccio di cocaina e collaborando strettamente con un altro membro di spicco del clan. Le prove a suo carico si fondavano principalmente su intercettazioni telefoniche e ambientali.

L’ordinanza del Tribunale del Riesame e il ricorso in Cassazione

Il Tribunale del Riesame aveva confermato la misura cautelare, ritenendo sussistenti i gravi indizi di colpevolezza. Tra gli episodi valorizzati vi era anche l’affidamento all’indagato dell’incarico di incendiare l’autovettura di un membro di una famiglia rivale, un atto interpretato come un segnale di affermazione del predominio del clan.

La difesa ha proposto ricorso per cassazione, basandosi su due motivi principali:
1. Insufficienza degli indizi: Si sosteneva che la semplice commissione di più reati di spaccio non fosse sufficiente a dimostrare l’esistenza di un vincolo associativo stabile (affectio societatis).
2. Mancanza di motivazione sulle esigenze cautelari: Si contestava la scelta della custodia in carcere come unica misura idonea, ritenendola sproporzionata data la presunta marginalità del ruolo dell’indagato.

Le motivazioni sulla prova del reato associativo

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo un tentativo di ottenere una nuova valutazione dei fatti, non consentita in sede di legittimità. I giudici hanno sottolineato che un ricorso è ammissibile solo se denuncia violazioni di legge o una manifesta illogicità della motivazione, non se propone una diversa ricostruzione dei fatti.

Nel merito, la Corte ha ribadito un principio consolidato: la commissione reiterata di reati-fine (in questo caso, lo spaccio) in concorso con altri membri può integrare l’esistenza di gravi e precisi indizi di partecipazione al reato associativo. Tali condotte, per le loro connotazioni, possono evidenziare un ruolo specifico della persona, funzionale alle dinamiche operative e alla crescita criminale dell’organizzazione. L’imputato non si limitava a spacciare, ma rendeva conto della sua attività, riceveva direttive dal capo del clan, gestiva una porzione del mercato e veniva informato sulle dinamiche interne, come nel caso di un pestaggio punitivo.

Le motivazioni sulle esigenze cautelari

Anche il secondo motivo di ricorso è stato respinto. La Corte ha ricordato che per i delitti di associazione mafiosa opera la presunzione legale (art. 275, comma 3, c.p.p.) secondo cui la custodia in carcere è l’unica misura adeguata a soddisfare le esigenze cautelari. Tale presunzione può essere vinta solo dimostrando elementi concreti che ne escludano la necessità, prova che nel caso di specie non è stata fornita. Il Tribunale del riesame aveva correttamente valorizzato elementi come i rapporti stretti con i vertici del sodalizio e la gravità dell’episodio incendiario per confermare la pericolosità sociale dell’indagato e l’adeguatezza della massima misura cautelare.

Conclusioni

La sentenza in esame consolida l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la prova della partecipazione a un reato associativo può essere desunta anche da condotte che, apparentemente isolate, se lette nel contesto complessivo, rivelano l’inserimento stabile e consapevole di un soggetto in una struttura criminale organizzata. La decisione sottolinea inoltre la rigidità della presunzione di adeguatezza della custodia in carcere per i reati di mafia, ponendo a carico della difesa l’onere di fornire elementi specifici e concreti per superarla. Infine, la Corte ribadisce i limiti del giudizio di cassazione, che non può trasformarsi in un terzo grado di merito, ma deve limitarsi a un controllo sulla corretta applicazione della legge e sulla logicità della motivazione.

La commissione di più reati di spaccio di droga è sufficiente per provare la partecipazione a un reato associativo?
Sì, secondo la Corte, la commissione ripetuta di reati che rappresentano lo scopo dell’associazione (come lo spaccio) può costituire un grave indizio di partecipazione al reato associativo, a meno che non si fornisca la prova contraria dell’assenza di un vincolo stabile con gli altri membri. Le condotte devono evidenziare un ruolo specifico e funzionale all’interno dell’organizzazione.

Perché il ricorso dell’imputato è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché le censure proposte erano aspecifiche e miravano a una nuova valutazione dei fatti e delle prove, un’attività non consentita nel giudizio di legittimità davanti alla Corte di Cassazione. L’imputato non ha contestato adeguatamente il percorso logico-giuridico della decisione impugnata, ma si è limitato a proporre una diversa lettura degli elementi.

Per i reati di mafia, è sempre necessaria la custodia in carcere come misura cautelare?
La legge (art. 275, comma 3, c.p.p.) stabilisce una presunzione secondo cui, per i delitti di associazione mafiosa, la custodia in carcere è l’unica misura adeguata. Questa presunzione può essere superata solo fornendo elementi specifici che dimostrino l’assenza di esigenze cautelari, cosa che nel caso di specie il ricorrente non è riuscito a fare.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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