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Reato associativo: la cassa comune non è essenziale

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un indagato contro un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per reati di spaccio e associazione a delinquere. La Corte ha stabilito che, ai fini della configurabilità del reato associativo, non è indispensabile provare l’esistenza di una ‘cassa comune’, essendo sufficiente un’organizzazione stabile, anche minima, finalizzata al traffico di stupefacenti. Viene inoltre ribadita la differenza tra i gravi indizi di colpevolezza, sufficienti per le misure cautelari, e le regole di valutazione della prova previste per il giudizio di merito.

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Pubblicato il 28 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reato Associativo e Spaccio: la Cassa Comune Non È Indispensabile

Con la sentenza n. 4226 del 2024, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sugli elementi costitutivi del reato associativo finalizzato al traffico di stupefacenti, offrendo importanti chiarimenti. La pronuncia stabilisce che, per dimostrare l’esistenza di un’associazione a delinquere, non è necessario provare l’esistenza di una ‘cassa comune’, essendo sufficiente un’organizzazione stabile e un interesse condiviso. Vediamo nel dettaglio la vicenda e i principi affermati dalla Corte.

I Fatti del Caso

La vicenda processuale ha origine da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari nei confronti di un soggetto, indagato per una serie di reati legati al traffico di sostanze stupefacenti e, in particolare, per aver partecipato a un’associazione a delinquere finalizzata a tale scopo (art. 74 D.P.R. 309/1990).

L’indagato, tramite i suoi difensori, proponeva istanza di riesame avverso tale provvedimento. Il Tribunale del Riesame, tuttavia, confermava la misura cautelare. Contro questa decisione, la difesa presentava ricorso per cassazione, lamentando diversi vizi, tra cui l’erronea applicazione della legge penale e la mancanza di motivazione.

I motivi del ricorso si concentravano principalmente sulla contestazione del reato associativo, sostenendo che il Tribunale del Riesame non avesse valutato autonomamente gli indizi e si fosse limitato a riprendere le argomentazioni del GIP. In particolare, la difesa evidenziava l’assenza di prova di elementi tipici dell’associazione, come la ripartizione dei ruoli e, soprattutto, l’esistenza di una ‘cassa comune’ per la gestione dei proventi illeciti.

L’Analisi della Cassazione sul Reato Associativo

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo i motivi manifestamente infondati. Il punto centrale della decisione riguarda la natura e gli elementi costitutivi del reato associativo ex art. 74 D.P.R. 309/1990.

La Corte ha ribadito un principio consolidato in giurisprudenza: l’elemento distintivo del reato associativo rispetto al semplice concorso di persone nel reato continuato non risiede in una struttura organizzativa complessa, ma nel carattere dell’accordo criminoso e nella permanenza del vincolo. È sufficiente l’esistenza di un’organizzazione, anche rudimentale, che consenta la realizzazione del programma criminale in modo stabile e duraturo.

Il Ruolo della Cassa Comune

La Cassazione ha specificato che l’eventuale assenza di una ‘cassa comune’ non impedisce la configurabilità del reato associativo. La gestione degli utili può essere non paritaria o non condivisa tra gli associati. Ciò che rileva è l’esistenza di un comune e durevole interesse a immettere la sostanza stupefacente sul mercato, nella consapevolezza di agire all’interno di una dimensione collettiva e di una pur minima organizzazione.

In altre parole, la cassa comune è solo una delle possibili manifestazioni dell’associazione, ma non ne costituisce un elemento essenziale. La sua presenza è un forte indizio, ma la sua assenza non è sufficiente a escludere il reato.

Le Motivazioni

La Corte ha rigettato il ricorso basandosi su una serie di argomentazioni giuridiche precise. Innanzitutto, ha chiarito che nel giudizio cautelare si applica il criterio della ‘gravità indiziaria’ (art. 273 c.p.p.), che è diverso e meno stringente rispetto alle regole di valutazione della prova previste per il processo di merito (art. 192 c.p.p.). Pertanto, le doglianze della difesa basate sull’applicazione di quest’ultima norma sono state ritenute errate in diritto.

In secondo luogo, la Corte ha considerato il motivo sulla mancanza di motivazione autonoma da parte del Tribunale del riesame come inammissibile, in quanto sollevato per la prima volta in sede di legittimità e comunque focalizzato su un aspetto non decisivo come la cassa comune. La Corte ha sottolineato che il ricorso si limitava a una riproposizione dei motivi di riesame, tentando una rilettura dei fatti non consentita nel giudizio di cassazione. Infine, è stato confermato che le risultanze delle intercettazioni costituiscono fonte di prova diretta e non necessitano di elementi di riscontro esterni per fondare un giudizio di gravità indiziaria in fase cautelare.

Le Conclusioni

La sentenza in esame offre tre importanti spunti di riflessione:
1. Distinzione tra Fasi Processuali: Viene ribadita la netta differenza tra la valutazione degli indizi in fase cautelare (gravità indiziaria) e la valutazione della prova in sede di giudizio (al di là di ogni ragionevole dubbio).
2. Elementi del Reato Associativo: Si conferma che per integrare l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti è sufficiente un’organizzazione minima e stabile, senza che sia necessaria la prova di elementi accessori come una ‘cassa comune’.
3. Limiti del Ricorso per Cassazione: Il ricorso per cassazione non può essere utilizzato per ottenere una nuova valutazione del merito delle prove, ma solo per denunciare vizi di legittimità, come la violazione di legge o la manifesta illogicità della motivazione.

È necessaria la prova di una ‘cassa comune’ per configurare un reato associativo finalizzato allo spaccio?
No, secondo la sentenza, l’esistenza di una cassa comune non è un elemento costitutivo indispensabile del reato associativo. È sufficiente che esista un comune e durevole interesse degli associati a immettere sostanze stupefacenti sul mercato, supportato da un’organizzazione pur minima e stabile.

Qual è lo standard di prova richiesto per applicare una misura cautelare come la custodia in carcere?
Per le misure cautelari è sufficiente la sussistenza di ‘gravi indizi di colpevolezza’ (art. 273 c.p.p.), ovvero elementi che rendano altamente probabile la responsabilità dell’indagato. Questo standard è meno rigoroso di quello richiesto per una condanna definitiva, che esige una prova ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ (art. 192 c.p.p.).

Le intercettazioni telefoniche da sole possono bastare per una misura cautelare?
Sì, la Corte ribadisce che gli elementi di prova raccolti tramite intercettazioni costituiscono fonte di prova diretta. In fase cautelare, non richiedono necessariamente elementi di riscontro esterni per fondare un giudizio di gravità indiziaria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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