Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 38153 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 38153 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 01/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME NOME il DATA_NASCITA
NOME COGNOME NOME il DATA_NASCITA
COGNOME NOME NOME NOME DATA_NASCITA
NOME COGNOME NOME il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 20/03/2023 della CORTE APPELLO di BARI
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che si riporta alla memoria scritta, conclude per l’inammissibilita’ dei ricorsi per COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME NOME e per il rigetto del ricorso per COGNOME.
udito l’AVV_NOTAIO del foro di TRENTO in difesa di NOME COGNOME il quale si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.
udito l’AVV_NOTAIO COGNOME AVV_NOTAIO del foro di COSENZA in difesa di COGNOME che si riporta integralmente ai motivi di ricorso presentati e ne chiede l’accoglimento.
udito l’AVV_NOTAIO del foro di NAPOLI in difesa di COGNOME NOME il
quale si riporta integralmente ai motivi di ricorso principale, ai motivi pr dall’AVV_NOTAIO COGNOME NOME del foro di BARI, ai nuovi motivi di ricorso presentati, chiedendone l’accoglimento; chiede inoltre, citando la sentenza della Corte di Cassazione n. 13343/24, l’estensione dei motivi di ricorso presentati nell’interesse di COGNOME (motivo n. 1 da pag. 1 a pag. 6 e motivo n.8 da pag. 8 a pag. 10), nonché quelli presentati nell’interesse di COGNOME (motivi nn. 5 e 6 da pag. 27 a pag. 32).
l’AVV_NOTAIO COGNOME NOME del foro di BARI in difesa di NOME che si riporta ai motivi di ricorso e a quanto chiesto dall’AVV_NOTAIO COGNOME NOME.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Bari, con la pronuncia indicata in epigrafe, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede del 28 gennaio 2021, riconosciute le circostanze attenuanti generiche ed il vincolo di continuazione con altro reato oggetto di sentenze di condanna passate in giudicato quanto ai primi due, ha ridetermiNOME la pena inflitta a COGNOME NOME, COGNOME NOME, NOME NOME e COGNOME NOME, revocando la misura di sicurezza della libertà vigilata applicata dal primo giudice e rigettando nel resto gli appelli proposti.
Il Tribunale di Bari aveva ritenuto, per quanto qui rileva: COGNOME NOME responsabile per il reato di cui al capo 1) dell’imputazione, quale partecipe, condannandolo alla pena di anni dieci di reclusione; COGNOME NOME responsabile per il reato di cui al capo 1, quale partecipe, e per il reato di cui al capo 9), ritenuta continuazione tra i due reati, condannandolo alla pena di anni undici di reclusione; COGNOME NOME responsabile per il reato di cui al capo 1, quale partecipe, nonché per i reati di cui ai capi 5),6) e 7) in continuazione tra loro e lo aveva condanNOME alla pena di anni sedici di reclusione; NOME, responsabile per il reato di cui al capo 1) della imputazione, quale partecipe, e per il reato di cui al capo 9), in continuazione tra loro, e lo aveva condanNOME alla pena di anni tredici di reclusione.
Il capo 1) dell’imputazione, comune agli odierni imputati, si riferiva al delitto di cui all’ art. 74 d.P.R. n. 309/1990, per essersi fra loro (e con altre persone non identificate o non raggiunte da sufficienti indizi di colpevolezza) associati e costituito un sodalizio a struttura piramidale, con un vertice unificato ed autonome strutture operative, allo scopo di commettere una indefinita serie di delitti in materia di stupefacenti, rivestendo nel sodalizio (stabilmente operante tra Italia, NOMEia, Turchia, Olanda, Austria, Germania e Grecia), i seguenti ruoli : NOME, uno dei capi supremi del sodalizio, al disopra delle relative articolazioni strutturali e con facoltà di intervenire anche disgiuntamente in modo vincolante in ogni questione della vita associativa; NOME COGNOME, affiliato appartenente all’articolazione “A” dell’associazione, con ruolo operativo interscambiabile relativo alla detenzione, al trasporto, alla cessione degli stupefacenti, alla ricezione delle contropartite economiche; COGNOME NOME e COGNOME NOME, affiliati appartenenti all’articolazione “B” dell’associazione, con ruoli operativi interscambiabili relativ alla detenzione, al trasporto, alla cessione degli stupefacenti, alla ricezione delle contropartite economiche, nella provincia di Bari, Roma, Frosinone, Milano, Pescara, Bolzano, Firenze (nonché in vari paesi esteri), dal settembre 2001 e fino al maggio 2002;
Relativamente al solo NOME, i capi 5), 6) e 7) si riferivano ad episodi relativi a delitto di cui art. 73 d.P.R. n. 309/1990, perché, in concorso con altri d
cui all’articolazione del sodalizio denominata “A”, già sottoposto ad altro procedimento, l’imputato acquistava e contribuiva all’acquisto, detene direttamente o per interposta persona, a fine di spaccio o comunque di illec commercio Kg. 4,307 di sostanza stupefacente di tipo eroina, in Signa, il 15 ottobre 2001; Kg. 2,100 di sostanza stupefacente di tipo eroina, iIn Firenze il 25 ottobre 2001; perché in concorso con altri coimputati, all’interno del sodalizio di cui sopra, acquistava e contribuiva all’acquisto, deteneva direttamente o per interposta persona, a fine di spaccio o comunque di illecito commercio Kg. 1,040 di sostanza stupefacente di tipo eroina. In Firenze il 2 novembre 2001;
Il capo 9), era riferiti a COGNOME NOME e COGNOME, perché, in concorso con altri di cui all’articolazione del sodalizio denominata “B” e con COGNOME NOME, già sottoposto ad altro procedimento, acquistavano e contribuivano all’acquisto, detenevano direttamente o per interposta persona, a fine di spaccio o comunque di illecito commercio Kg. 1,012 di sostanza stupefacente di tipo eroina. In Roma, il 7 dicembre 2001;
Avverso la sentenza della Corte di appello sono stati proposti i seguenti ricorsi.
Ricorso proposto da NOME, a mezzo del proprio difensore, per i seguenti motivi, riassunti nei termini che seguono:
con il primo motivo, si deduce difetto o contraddittorietà della motivazione in relazione agli artt. 546, 530 cod.proc.pen.; la motivazione sarebbe assolutamente illogica nella parte in cui ritiene provata la partecipazione dell’imputato all’associazione dell’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 esclusivamente sulla base del suo concorso con COGNOME NOME e COGNOME NOME ad un solo reato fine, giudicato con separato giudizio dal Tribunale di Trani e motivando con affermazioni apodittiche, relative al rapporto con il destinatario in Italia della sostanza stupefacente, l’COGNOME, ed i rilievi delle forze dell’ordine a seguito di attività di appostamento e di intercettazione presso il casello autostradale di Andria-Barletta, che avevano proceduto all’arresto di COGNOME NOME, COGNOME e COGNOME NOME per concorso nella detenzione ai fini di spaccio di kg. 9,353 di eroina trasportata a bordo dell’autovettura Fiat Tipo condotta da COGNOME, con i fratelli COGNOME, a bordo di una Rover, con ruolo di staffetta (pagg. 108 e 109 sentenza). Il ruolo di staffetta, tuttavia non potrebbe ritenersi ruolo di “controllo” dell’operazione, ma un ruolo di concorso nel reato di detenzione di stupefacente al fine di tutelarne il trasporto, avvisando il corriere di eventuali rischi di controllo da parte delle TARGA_VEICOLO.
Le frequentazioni con i connazionali, gravitanti in ambienti criminali dediti al traffico di stupefacenti, a Roma, non avrebbero potuto essere considerate come conferme dello stabile inserimento di NOME nell’associazione contestata. Allo stesso modo, non si sarebbe dovuto valorizzare il contenuto delle intercettazioni
telefoniche captate nei confronti di NOME (alias NOME COGNOME), intraneo all’organizzazione, che il giorno dopo il loro arresto aveva parlato “dei suoi ragazzi, quelli che parlano sempre con me”;
con il secondo motivo, si deduce la violazione dell’art. 81 cod.pen., in ragione del fatto che, con sentenza n. 55 del 2004, il Gup del Tribunale di Trani aveva condanNOME il ricorrente per il reato di cui all’art. 73, 80 comma 2, d.P.R. n. 309/1990, considerata la continuazione tra il reato di cui all’art. 73- 80 comma 2, d.P.R. n. 309/1990, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, alla pena finale di anni sei di reclusione ed euro 30.000 di multa. Il reato di cui all’art. 73, 80 d.P.R. n. 309/990 era il reato più grave rispetto al reato di partecipazione all’associazione, per cui il riconoscimento del vincolo della continuazione avrebbe imposto la considerazione del reato punito con la pena più grave in quello oggetto della condanna con sentenza n. 55 del 2004; ciò premesso, il ricorrente ha chiesto annullarsi la sentenza impugnata.
NOME, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, così sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. at cod. p roc. pen. :
mancanza e manifestamente illogicità della motivazione, sia nella individuazione degli elementi costitutivi astratti che degli elementi concreti della fattispecie di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/1990, nel cui ambito era stata ritenuta la partecipazione dello stesso ricorrente, con riguardo ai criteri dettati dall’art. 192, nei commi 1 e 2, cod.proc.pen. In particolare, l’Imputato aveva contestato la sussistenza fattuale e giuridica del fatto contestato, ma la Corte territoriale aveva disatteso la doglianza, ribadendo gli errori ricostruttivi e di giudizio posti in esser dal primo giudice;
motivazione manifestamente illogica e mancante in ordine alla individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 74 d.P.R. 309/1990. In particolare, il Tribunale alle pagine 231-233 della sentenza, aveva motivato in modo inadeguato sulla posizione di COGNOME NOME e COGNOME NOME e tale motivazione sarebbe inidonea a sostenere il ruolo dell’intraneità dell’odierno ricorrente nell’associazione contestata, in quanto riferita alla valorizzazione pressoché esclusiva degli elementi di prova raccolti . in occasione dell’arresto di questi imputati il 10 febbraio 2002 al casello autostradale di Barletta.; tale impianto logico, tuttavia, era incriNOME dalla considerazione che COGNOME NOME era stato giudicato separatamente per lo stesso fatto. L’avvenuta assunzione della conversazione intercettata tra Cernna NOME e tale COGNOME il 2 febbraio 2002 alle ore 10,30, progn 160 in RIT 96/02, riferita al capo 11 era di per sé espressiva della correità nel reato di cessione ivi contestato, ma non del reato associativo.
Il vizio di motivazione sarebbe evidente alla pagina 108 della sentenza impugnata, laddove, condividendo la decisione del Tribunale, si era ritenuto che ai due imputati non si sarebbe potuto attribuire il ruolo di meri corrieri, in quanto avevano intrattenuto rapporti telefonici diretti con il destinatario in Italia dell sostanza stupefacente e cioè l’COGNOME. Alla pagina 109 della sentenza, inoltre, ai COGNOME era stato riconosciuto il ruolo di controllo sull’operazione solo in quanto avevano viaggiato su autovettura diversa da quella condotta dal corriere, cui infatti non era stato contestato il reato associativo e ciò era stato avvalorato dalla intercettazione telefonica, nella quale COGNOME, intraneo all’associazione, li definisce come “ragazzi suoi”. Ciò non spiegherebbe però il percorso logico motivazionale che consenta di sostenere la prova della sussistenza del reato associativo, anche perché riferito solo al reato contestato sub 11) del capo di imputazione. Dunque, la Corte d’appello non aveva colmato il vuoto motivazionale della sentenza di primo grado;
– con il terzo motivo, si denuncia la violazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, con riferimento alla contestazione di cui al capo 9), anche in questo caso perché difetterebbe la motivazione e la stessa sarebbe manifestamente illogica, sia nella ritenuta correità di tale imputato, che in ordine ai criteri fattuali e giurid per potersi affermare la responsabilità dello stesso. Nell’atto di appello, si era dedotta l’erronea identificazione di COGNOME NOME come concorrente nel reato, difettando persino un riconoscimento fotografico e l’accostamento dell’utenza intercettata alla sua persona era avvenuto senza la precisa individuazione di concreti elementi fattuali. La Corte territoriale aveva fatto riferimento, alle pagine 82 ed 83 della sentenza, al riconoscimento effettuato dai militari operanti, che conoscevano la voce e le fattezze di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME e che erano stati tratti in arresto nella flagranza della detenzione di kg. 9,35 di eroina il 1 febbraio 2002 e che per tale fatto NOME NOME era stato giudicato separatamente. Tale motivazione costituirebbe mero sofisma, trattandosi di argomento inidoneo a supportare il riconoscimento dell’imputato riferito ad una condotta antecedente a tale data e precisamente al 7 dicembre 2001. Senza considerare che nulla si era specificato sulle persone dei militari che avevano effettuato l’arresto e su quelle che avevano svolto le indagini in ordine al reato di cui al capo 9). Anche l’argomento dei contenuti di una intercettazione, che la sentenza di primo grado aveva trattato alla pagina 140 ed alla pag. 135, sarebbe da considerare impreciso ed insufficiente, posto che dell’utenza captata non si era neanche specificato il numero telefonico e che non era stata superata la contraddizione tra il ruolo che NOME avrebbe assunto quale soggetto che avrebbe consegNOME il quantitativo di stupefacente e la circostanza che a fare tale consegna avrebbe dovuto pensarci COGNOME NOME;
con il quarto motivo, si deduce la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 546, comma 3, cod.proc.pen., in relazione al rinvio contenuto nell’art. cod.proc.pen. per incompletezza del dispositivo, nonché nullità della sentenza per assoluta mancanza di motivazione e per contrasto della stessa con il dispositivo per effetto delle norme di cui all’art. 125 cod.proc.pen. e 111, comma 6, della Costituzione. Difetto di motivazione in ordine agli aumenti di pena per i reati satellite. Si lamenta che la sentenza impugnata abbia statuito erroneamente sul trattamento sanzioNOMErio, in quanto, nel dispositivo, dopo la rideterminazione della pena per effetto del riconoscimento delle attenuanti generiche, concesse per la prima volta dal giudice di appello, si menziona l’aumento di pena in conseguenza del riconoscimento della continuazione con il solo reato oggetto di giudicato con la sentenza del Tribunale di Trani sopra citata, obliterando la pronuncia sull’ulteriore reato di cui al capo 9). In motivazione, la sentenza aveva disposto che la pena doveva essere rideterminata in quella di anni dieci di reclusione, così calcolata: pena base, per il più grave reato di cui all’art. 74 d.p.r. n. 309/1990, anni dieci d reclusione, ridotta ad anni sette di reclusione per la concessione delle attenuanti generiche ed aumentata di anni due per la continuazione (anni uno per il reato di cui al capo 9 ed anni uno per il reato giudicato con la sentenza emessa dal Tribunale di Trani del 28 ottobre 2005, irrevocabile il 12 giugno 2013. Il dispositivo, invece, statuisce “quanto a NOME NOME, riconosciute le attenuanti generiche e riconosciuto il vincolo della continuazione con il fatto di reato giudicato con la sentenza emessa dal Tribunale di Trani in data 28 ottobre 2005, irrevocabile in data 12 giugno 2013, ridetermina la pena complessivamente inflitta al predetto imputato in anni dieci di reclusione”. Dunque, l’incompletezza del dispositivo determinerebbe l’inapplicabilità dell’integrazione del dispositivo con la motivazione. Inoltre, si lamenta che la riduzione di pena per le attenuanti generiche sia stata considerata solo per il reato base e non per quelli in concorso. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Con ricorso proposto mediante il proprio difensore, impugna la sentenza della Corte di appello anche NOME, sulla base di tre motivi, così sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp.att. cod.proc.pen.:
violazione dell’art. 110 cod.pen. e 74 d.P.R. n. 309/1990 e omessa motivazione su specifica devoluzione e mancanza grafica di motivazione. La sentenza avrebbe omesso di affrontare il tema, oggetto di specifico motivo, relativo alla identificazione dell’imputato quale effettivo interlocutore dell conversazioni intercettate, unico materiale probatorio utilizzato ai fini della condanna. Ci si era basati esclusivamente sull’utilizzo del nomignolo COGNOME, molto diffuso in NOMEia, o sul fatto che in alcune conversazioni sarebbe stato fatto il nome intero NOMENOME in assenza di altri riscontri, come servizi di ocp o attività d riconoscimento del timbro vocale. Sarebbe dunque insufficiente il richiamo fatto
dalla sentenza alla conversazione intercorsa tra COGNOME e tale “nipote”, non meglio identificato, ovvero il richiamo alla dichiarazione testimoniale dell’appartenente ai RAGIONE_SOCIALE in ordine alla identificazione dello COGNOME nell’imputato, che non avrebbero idoneamente contrastato il motivo di appello.
Inoltre, la Corte territoriale, affrontando solo a pagina 99, il tema della sussistenza dell’associazione e della partecipazione dell’imputato, non aveva curato di esaminare la singola posizione pur a fronte dei relativi appelli e delle questioni ivi poste in ordine alla esclusiva biunivocità delle telefonate intercettate tra il ricorrente e COGNOME, circostanza stridente con la sussistenza di un pactunn sceleris per il compimento dì una serie indeterminata di delitti. In definitiva la sentenza impugnata, non conformandosi ai principi espressi da S.U. n. 36958 del 2021, non aveva individuato l’apporto del ricorrente, concreto e riconoscibile, alla vita dell’associazione, tale da far ritenere avvenuto il dato dell’inserimento attivo, con carattere di stabilità e consapevolezza oggettiva.
Con il secondo motivo, si denuncia la non corretta applicazione della legge più favorevole all’imputato, ovvero la legge ante Cirielli dal momento che il capo 9) era stato commesso il 7 dicembre 2001. Con la conseguenza che, applicate le attenuanti generiche, si doveva giungere alla applicazione della disciplina della prescrizione prevista per i reati puniti in quindici anni.
Con il terzo motivo, si denuncia la violazione degli artt. 81, 132 e 133 cod,pen., oltre che vizi della motivazione, considerata contraddittoria, inesistente e manifestamente illogica in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche nella loro massima espressione, senza spiegarne la ragione.
AVV_NOTAIO, per il medesimo imputato ha presentato memoria contenente motivi aggiunti con i quali evidenzia ulteriormente le criticità già formulate. Deduce, ai sensi dell’art. 606 lett. b) cod.proc.pen.: erronea applicazione degli art. 110 c.p. e 74 dpr 309/90 -mancata applicazione degli artt. 81 c.p. e 73 dpr 309/90; ai sensi dell’art. 606 lett. e) cod.proc.pen.: contraddittorietà interna – omessa motivazione rispetto al devoluto – manifesta illogicità della motivazione – violazione degli artt. 192 e 533 cod.proc.pen. mancata applicazione dell’art. 530, comma 2, cod.proc.pen.
relativamente al capo 9, art. 606 lett. c) cod.proc.pen.: violazione dell’art. 125 cod.proc.pen.; art. 606 lett. b) cod.proc.pen. in relazione all’art. 132 cod.pen.
Con ricorso, proposto a mezzo del proprio difensore, NOME COGNOME impugna la sentenza della Corte di appello di Bari, oltre ai seguenti atti:
decreto di latitanza del GIP di Bari del 14 marzo 2008, depositato il 15 marzo 2008; ordinanza del Tribunale di Bari resa all’udienza del 6 maggio 2010, con la quale era stata dichiarata formalmente la contumacia dell’imputato; c) ordinanza resa dal Tribunale di Bari all’udienza del 24 ottobre 2013, nella parte in
cui conferma i contenuti della precedente in ordine alla regolarità e validità delle notifiche effettuate all’imputato nelle forme dell’art. 165 cod.proc.pen. e che il processo poteva proseguire in contumacia/latitanza, nonostante l’emersione processuale (verbali del dibattimento del 17 ottobre 2013 e del 24 ottobre 2013, relativi all’accertamento della circostanza che la persona ristretta presso il carcere di Brescia, non fosse il ricorrente, ma suo omonimo) di fatti precedenti all’instaurazione del presente procedimento ed all’adozione dell’ordinanza cautelare alla quale l’imputato si sarebbe sottratto;
b) ordinanza resa dalla Corte di appello di Bari all’udienza del 21 novembre 2011, ove non era stata rilevata la nullità della notifica dell’estratto contumaciale della sentenza di primo grado, eseguita ex art. 161, comma 4, cod.proc.pen. ed è stato disposto il rinvio dell’udienza e la rinnovazione della notifica della citazione e del verbale all’imputato, senza disporre nuove ricerche dell’imputato che risultava “senza fissa dimora”;
c) ordinanza resa dalla Corte di appello di Bari all’udienza del 2 febbraio 2023, ove era stata ritenuta la regolarità della notifica della rinnovazione della notifica all’imputato, di fatto irreperibile, del decreto di citazione e del verbale dell’udienza del 21 novembre 2022, ai sensi dell’art. 161, comma 4, cod.proc.pen.
Ciò premesso, il ricorrente ha esposto di essere stato arrestato in flagranza in data 8 novembre 2001 e di essere stato condanNOME, scontando la pena in carcere sino al 13 ottobre 2003, data in cui veniva eseguito il provvedimento di espulsione dal territorio nazionale, ai sensi dell’art. 16, comma 5, d.lgs. n. 286/1998. Portato in NOMEia, il ricorrente era venuto a conoscenza del procedimento penale a proprio carico, iniziato nel 2006, solo il 29 giugno 2023, quando faceva rientro in Italia attraverso l’aeroporto Villafranca di Verona e veniva eseguita nei suoi confronti l’ordinanza di custodia cautelare in carcere del 16 ottobre 2007. Ciò premesso, ha chiesto annullarsi la sentenza impugnata per inosservanza degli artt. 604, comma 4, cod.proc.pen., 295, 296, 161,165, 178-19, comma 1, 185,187, comma 2, 420 ter -420 quater cod.proc.pen., 24 e 11 Cost., 11, comma 1, Cost., 6 CEDU, con riferimento alla dichiarazione di latitanza dell’imputato, con conseguente nullità di tutte le notifiche e di tutti gli atti successivi conseguenti e, in ogni ca per mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione, quanto alla ritenuta validità delle notifiche eseguite ai sensi dell’art. 165 e 161, comma 4, cod.proc.pen.;
nonché, per violazione dell’art. 74 d.P.R. n. 309/1990, per aver ritenuto la responsabilità dell’imputato fino al maggio 2002, nonostante l’arresto in flagranza avvenuto l’8 novembre 2001; alla luce delle risultanze emerse alle udienze del 17 e del 24 ottobre 2013, avrebbe dovuto revocare l’ordinanza del 6 giugno 2010 e
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rinviare anche d’ufficio l’udienza ai sensi dell’allora vigente art. 420 quater, comma 5, cod.proc.pen.;
per violazione dell’art. 62 bis, 81, comma 2, 132, 133 cod.pen., 2 e 111 Cost., per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, con riferimento al capo relativo al trattamento sanzioNOMErio, in punto di determinazione dell’aumento per la continuazione di cui all’art. 81 cpv.
Il ricorrente, con successiva memoria, ha comunicato, unitamente a motivi aggiunti, che, apprese informazioni sui due gradi di merito celebrati in contumacia, per il tramite delle ricerche riassunte a pagg.7-8 del ricorso proposto, ha presentato, contestualmente al ricòrso per cassazione, alla Corte d’Appello di Bari istanza di restituzione nel termine per impugnare la sentenza di condanna di prime cure, anche per accedere ad un rito speciale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 175, comma 2, cod.proc.pen., come novellato dalla Legge n. 60/2005 (all.to 27).
L’istanza di COGNOME a cui era allegato anche il ricorso per Cassazione per cui si procede, è stata accolta dalla Corte territoriale, con facoltà di accesso a riti alternativi (all.to 28). Nei termini di legge, l’imputato aveva, dunque, proposto appello avverso la condanna di prime cure e richiesto l’ammissione a giudizio abbreviato (all.to 29).
Il RG. ha depositato requisitoria scritta chiedendo il rigetto di tutti i ricorsi. Il processo è stato fissato in pubblica udienza e le parti presenti hanno discusso come da verbale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Per quanto attiene alla posizione procedimentale di NOME, è fondata la censura inerente alle irritualità incorse nel giudizio di I grado. Risulta, infatt dall’esame degli atti-la cui consultazione è consentita al Giudice di legittimità stante la natura processuale del vizio dedotto (Sez. U. N. 42792 del 31.10.2001, Policastro RV. 220092-01), che affettivamente, come dedotto dal difensore, NOME venne attinto da ordine di espulsione dal territorio nazionale, emesso in data 8.10.2003 dal Magistrato di Sorveglianza di Firenze, e pertanto, scarcerato in data 13.10.2003, dalla RAGIONE_SOCIALE, ed accompagNOME coattivamente alla frontiera aerea di Bologna, per il rimpatrio nel proprio Paese, come da comunicazione dell’Ufficio stranieri, in data 20.10.2003. D’altronde, dagli accertamenti esperiti nel dibattimento di I grado, con escussione di un funzionario di polizia scientifica all’uopo incaricato, è emerso che il soggetto denomiNOME COGNOME – che all’epoca del predetto dibattimento era detenuto in un carcere italianoil quale rinunciò a comparire all’udienza, e il soggetto denomiNOME NOME COGNOME, fotosegnalato nel 2001 e scarcerato il 13.10.2003, reale imputato in questo
processo, sono “due persone differenti dattiloscopicamente”. L’eccezione di nulli sollevata dal difensore del ricorrente, è pertanto fondata, in quanto il dibattimento si è svolto sulla base di una rinuncia a presenziare all’udienza proveniente da un soggetto diverso dal reale imputato, come peraltro riconosciuto dallo stesso P.M. e dallo stesso Presidente, all’udienza del 24.01.2013 ( P.M. : “… è comunque un soggetto esistente, diverso da quello che oggi è qui presente in aula”; Presidente” … la notifica di tutti gli atti è andata a NOME… COGNOME NOME reale no conosce questo processo, ritengo”.
Il ricorrere di tale nullità determinerebbe la necessità di disporre la regressione del procedimento ex art.185 co. 3 cod.proc.pen., allo stato e al grado in cui è stato compiuto l’atto nullo, e quindi nel caso di specie alla fase del dibattimento di I grado. Tuttavia, poiché risulta dagli atti che pende di fronte alla Corte d’appello un altro procedimento penale afferente alla medesima regiudicanda, e nei confronti dello stesso imputato, la regressione del procedimento al dibattimento di I grado determinerebbe il persistere della duplicazione dei procedimenti, con conseguente litispendenza, contrariamente ad esigenze di funzionalità ed economia processuale, nonché di tutela delle garanzie dell’imputato, anche in considerazione dell’eventualità di contrasto di giudicati. Si ritiene, pertanto rispondente al soddisfacimento delle predette esigenze la trasmissione degli atti alla Corte d’appello, funzionalmente ad una riunione dei due procedimenti e dunque ad una trattazione unitaria della regiudicanda.
La censura in esame riveste carattere assorbente, onde l’accoglimento della stessa, con il conseguente epilogo decisorio, determina l’ultroneità della disamina degli ulteriori motivi di ricorso.
I motivi dei ricorsi degli altri ricorrenti, che si riferiscono all’affermazione responsabilità per il reato associativo, oggetto della contestazione sub 1) del capo di imputazione, sono infondati e per molti aspetti inammissibili.
È opportuno procedere a talune precisazioni comuni a tutti i motivi relativi a vizi di motivazione in ordine alla responsabilità per il reato di associazione ex art. 74 d.P.R. n. 309/1990, proposti da COGNOME Emir, COGNOME NOME e lasini NOME.
Le difese di ciascun ricorrente hanno opposto vizio di violazione della legge penale e processuale penale proprio con riferimento allo scrutinio della piattaforma probatoria operato in maniera conforme dai giudici del doppio grado di merito.
Le censure devono dunque essere scrutinate nei limiti ammessi in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 606 lett. e), cod. proc. pen., tenuto conto del conformità delle valutazioni del Tribunale e della Corte territoriale e della natura del materiale probatorio, in massima parte costituito dall’esito di intercettazioni.
3.Deve richiamarsi il principio, secondo il quale, in caso di doppia sentenza conforme (sui connotati della quale non residuano dubbi, stante l’esito delle due decisioni, riformata la prima solo marginalmente e in punto pena), la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3 n. 44418 del 16/7/2013, COGNOME, Rv, 257595; Sez. 1 n. 1309 del 22/11/1993, 1994, Rv. 197250), a maggior ragione allorché i motivi di gravame non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata (sez. 3 n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, NOME, Rv. 252615).
Ne consegue l’estraneità, al vaglio di legittimità, degli aspetti del giudizio che si sostanzino nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi probatori che attengono interamente al merito e non possono essere apprezzati dalla Corte di cassazione se non nei limiti in cui risulti viziato il percorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa, con la conseguente inammissibilità di censure che siano sostanzialmente intese a sollecitare una rivalutazione del risultato probatorio. Inoltre, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura deg elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (sez. 6 n. 47204 del 7/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; n. 5465 del 4/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601), non potendo questo giudice sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (sez. 6 n. 25255 del 14/2/2012, COGNOME, Rv. 253099).
A seguito della modifica apportata all’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., dall’art. 8, comma primo, della Legge n. 46 del 2006 -il legislatore ha esteso l’ambito della deducibilità di tale vizio anche ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame, così introducendo il travisamento della prova quale ulteriore criterio di valutazione della contraddittorietà estrinseca della motivazione il cui esame nel giudizio di legittimità deve riguardare uno o più specifici atti del giudizio, non il fatto nella sua interezza (Sez. 3, n. 38341 del 31/01/2018, Ndoja, Rv. 273911); ma è altrettanto pacifico che, anche a seguito di tale modifica, resta pur sempre non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante quanto già sopra ribadito a proposito della
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preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 3 18521 del 11/1/2018, COGNOME, RV. 273217; Sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, COGNOME, cit.).
6. In ogni caso, un ricorso per cassazione con il quale si deduca il travisamento (e non soltanto l’erronea interpretazione) di prova decisiva, o l’omessa valutazione di circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati, impone di verificare l’eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto, ovvero di verificare l’esistenza della decisiva difformità, fermo restando il divieto di operare una diversa ricostruzione del fatto, quando si tratti di elementi privi di significato indiscutibilmente univoco (Sez. 4 n. 14732 dell’01/03/2011, Molinario, Rv. 250133), essendo parimenti indispensabile che l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell’elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del devolutum in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 5, n. 48050 del 2/7/2019, Rv. 277758).
7.Deve, poi, sottolinearsi come gran parte delle doglianze difensive ineriscano alla lettura del compendio probatorio esamiNOME dai giudici del merito, prevalentemente rappresentato da intercettazioni e, rispetto ad esse, va ribadito che l’interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche ove criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (cfr. Sez. U, n. 22471 del 26/2/2015, Sebbar, Rv. 263715).
8. Tali interpretazione e valutazione costituiscono per l’appunto questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità, se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 2, n. 50701 del 4/10/2016, COGNOME, Rv. 268389). Infine, poiché il tenore di alcuni motivi sembra evocare un “silenzio” motivazionale in ordine a specifiche osservazioni difensive, va precisato che – in sede di legittimità – non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (sez. 1 n. 27825 del 22/5/2013, COGNOME, Rv. 256340; sez. 5 n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Curro, Rv. 275500).
Trattasi di principi sui quali è da ultimo ritorNOME il Supremo Collegio questa Corte, ritenendo non revocabile in dubbio la legittimità del ricorso alla motivazione implicita che non costituisce l’opposto di quella esplicita, bensì “una particolare tecnica espositiva, caratterizzata dal proporre un’argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità logica e giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda”. Cosicché, deve concludersi che, nella motivazione implicita, manca il testo grafico ma non il discorso argomentativo (in motivazione, Sez. U, n.20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino (in cui si è, altresì, precisato che il ricorso alla motivazione implicita, oltre a trovare riscontro nella disciplina processuale, là dove essa impone che la sentenza contenga “una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto” su cui è fondata (art. 544, primo comma e 546, primo comma, lett. e, cod. proc .pen.), è compatibile con il diritto a un processo equo ai sensi dell’art. 6, C.E.D.U., come interpretato dalla Corte di Strasburgo (richiamando in motivazione la sentenza della Quarta Sezione del 24.07.2015, nella causa COGNOME ed altri c. Italia).
Orbene, le difese, senza impegnarsi neanche in una ricostruzione alternativa degli episodi recepiti nelle singole imputazioni, si sono limitate a negare la natura dei rapporti tra i sodali, senza allegare fatti idonei a disarticolare l ricostruzione operata dai giudici del doppio grado (in maniera – si ribadisce conforme), alla luce degli elementi probatori utilizzabili.
Con riferimento, poi, al discrimine tra il reato associativo di cui all’art. 74 d.P.R. 309/90 e il concorso in attività continuata, rilevante ai sensi dell’art. 73 stesso d.P.R., va ribadito l’orientamento che ravvisa l’elemento differenziale principalmente nell’organizzazione, in quanto la condotta punibile a titolo di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti non può ridursi a un semplice accordo delle volontà, ma deve consistere in un quid pluris, che si sostanzia nella predisposizione di una struttura organizzata stabile che consenta la realizzazione concreta del programma criminoso (Sez. 6 n. 27433 del 10/01/2017, Avellino, Rv. 270396, in cui si è precisato che la costituzione dell’associazione non coincide con l’accordo dei compartecipi, ma con la nascita di un’organizzazione permanente, frutto del concerto di intenti e di azione tra gli associati). Deve, tuttavia, precisars che – a tal fine – non è richiesta la presenza di una complessa e articolata organizzazione dotata di notevoli disponibilità economiche, essendo sufficiente l’esistenza di strutture, sia pure rudimentali, deducibili dalla predisposizione di mezzi, per il perseguimento del fine comune, create in modo da concretare un supporto stabile e duraturo alle singole deliberazioni criminose, con il contributo
dei singoli associati (Sez. 6 n. 46301 del 30/10/2013, P.G., Corso, Rv. 258165; sez. 2 n..19146 del 20/2/2019, Ciccìari, Rv. 275583).
13. Peraltro, il patto associativo non deve necessariamente consistere in un preventivo accordo formale, potendo anche essere non espresso e costituirsi di fatto fra soggetti consapevoli che le attività proprie e altrui ricevono vicendevole ausilio e tutte insieme contribuiscono all’attuazione dello scopo comune (sez. 3, n. 32485 del 24/5/2022, COGNOME, Rv. 283691-02; n. 47291 del 11/6/2021, COGNOME, Rv. 282610-01, in cui si è precisato che la prova del vincolo permanente, nascente dall’accordo associativo, può essere data anche mediante l’accertamento di fatti concludenti, quali i contatti continui tra gli spacciatori, i frequenti viag per i rifornimenti della droga, le basi logistiche, i beni necessari per le operazioni delittuose, le forme organizzative utilizzate, sia di tipo gerarchico che mediante divisione dei compiti tra gli associati, la commissione di reati rientranti nel programma criminoso e le loro specifiche modalità esecutive), neppure rilevando, al fine di valutare l’affectio di ciascun aderente, la durata del periodo di osservazione delle condotte criminose, che può essere anche breve, purché dagli elementi acquisiti possa inferirsi l’esistenza di un sistema collaudato al quale gli agenti abbiano fatto riferimento anche implicito, benché per un periodo di tempo limitato (sez. 6, n. 42937 del 23/9/2021, COGNOME, Rv. 282122-01; sez. 4, n. 50570 del 16/12/2019, COGNOME, Rv. 278440-02).
14. In questo quadro interpretativo va collocata la motivazione qui censurata. Secondo la ricostruzione della sentenza impugnata, a conferma degli accertamenti del giudice di primo grado, l’attività di indagine svolta dalla Guardia di finanza era scaturita dall’arresto del cittadino albanese NOME COGNOME in data 4 agosto 2001, in quanto era stata ritrovata a bordo dell’autovettura dallo stesso condotta, mentre stava sbarcando dall’NOMEia, una quantità di sostanza stupefacente del tipo eroina di peso complessivo di chilogrammi 6,985.
A seguito dell’arresto del COGNOME, le attività di indagine furono focalizzate sulle utenze contattate dal telefono nella disponibilità dello stesso. Le captazioni effettuate svelarono l’esistenza di una fitta trama di rapporti fra persone per lo più di nazionalità albanese, le quali avevano organizzato con notevole sistematicità un numero significativo di importazioni di sostanza stupefacente di tipo eroina, la quale era poi immessa nel territorio dello Stato italiano per essere ceduta.
Il compendio probatorio si caratterizzava per plurimi sequestri operati dalla Guardia di finanza a seguito di operazioni di pedinamento, osservazione e controllo le quali erano state rese possibili dalla intuizione del significato sempre criptico o allusivo delle numerose conversazioni captate; l’ attribuzione delle parole a ciascuno dei conversanti aveva avuto luogo tenendo conto della persona che gli
inquirenti indicavano come il chiamante e del contenuto dei singoli passaggi secondo la informativa.
Quanto alle imputazioni relative ai reati contestati ai sensi dell’articolo 73 d.P.R. n. 309 del 1990, i giudici hanno esamiNOME le singole posizioni degli imputati.
Quanto alla posizione di NOME, unitamente ad altri soggetti di nazionalità albanese che erano stati identificati, erano stati sottoposti al vaglio critico molteplici elementi, a partire dal sequestro dello stupefacente operato in data 4 marzo 2002. In tale occasione, nell’ambito di una collaborazione fra gli organi di polizia albanese e quelli italiani, era stata fermata la motonave Delon salpata da Durazzo e diretta in Italia. A bordo del natante erano stati trovati 10 clandestini e 10 kg di eroina pura; l’attività, sollecitata dai militari della Guardia d finanza, determinava l’arresto di NOME, che, dall’esame dei documenti allegati agli atti del processo, risultava essere armatore e figlio di NOME, colui il quale aveva concorso con NOME NOME, nonché COGNOME NOME, NOME, NOME e COGNOME NOME nella operazione di consegna di 9,353 kg di eroina sequestrata dalla Guardia di finanza il 1° Febbraio 2002. Anche in questo caso, le conversazioni captate dopo il primo sequestro fra la sorella di NOME e la moglie di costui avevano scolpito la responsabilità degli imputati, rivelando che la droga era gestita da loro.
La sentenza impugnata, come quella di primo grado, riporta integralmente i testi delle conversazioni richiamate all’interno della motivazione in ordine a tali circostanze. Quanto al delitto associativo di cui all’art. 74 d.P:R. n. 309/1990, la sentenza impugnata ha rilevato che le acquisizioni processuali avevano provato l’esistenza di una organizzata associazione per delinquere, dedita al traffico di sostanza stupefacente, della quale risultavano organici gli imputati COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, NOME, NOME COGNOME, COGNOME NOME (detto NOME) nonché NOME COGNOME, e la persona indicata dagli inquirenti con il nome di COGNOME, che però non risultava pienamente provato trattarsi di NOME.
La Corte territoriale, ricordato il testo dell’art. 74 d.P.R. n. 309/1990 e sottolineato che la lettera della legge fa coincidere la sussistenza del delitto nel semplice associarsi di tre o più persone, accomunate dall’intento di perpetrare una pluralità di delitti fra quelli indicati nell’articolo 73 d.P.R. n. 309 del 1990, indicato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ravvisa l’elemento essenziale dei reati associativi nell’accordo associativo, inteso quale incontro delle volontà che crea un vincolo permanente, in ragione della consapevolezza di ciascuno di far parte di un complesso organizzato, per cui conferisce contributo causale per la realizzazione di un duraturo programma criminale, considerando quindi aspetto secondario il profilo squisitamente materiale e cioè gli elementi organizzativi che del sodalizio costituiscono il substrato.
La Corte d’appello ha ritenuto che le acquisizioni processuali avessero provato l’esistenza di stabili accordi fra gli imputati per la perpetrazione di una serie indeterminata di delitti. Il primo dato di rilievo era costituito dalla perpetrazione dei delitti rubricati ai capi 5, 6, e 7 analizzati prima. Questi denotavano il ricorso a consolidate modalità operative per il reperimento dello stupefacente in NOMEia e l’organizzazione laboriosa del trasporto in Italia, mediante il ricorso a corrieri; accortezza assolutamente necessaria per scongiurare il sempre presente pericolo di subire il sequestro della droga e l’arresto di propri adepti. La capacità di pianificare importazioni e cessioni di stupefacente del tipo eroina in quantità assolutamente ragguardevoli era emersa dai rapporti posti in essere dal COGNOME e da NOME COGNOME in concorso fra di loro e con altre persone in un lasso temporale incredibilmente ristretto, in poco più, cioè, di 15 giorni e questo di per sé rimandava, non solo ad una capacità criminale assolutamente di spicco, ma anche all’esistenza di una stabile pianificazione a monte di una serie indeterminata di delitti analoghi.
Infatti, il reperimento dei quantitativi di droga non poteva che essere correlato a brevi esborsi di denaro, i quali a loro volta si giustificano ragionevolmente solo se si postula la piena e realistica rappresentazione in capo a chi li effettua di poter certamente contare su una rete di persone capaci di eseguirne il trasporto in favore di chi altrettanto evidentemente ne attende la cessione, confidando su questa per poter successivamente procedere alla vendita a terzi. La sentenza ricorda numerosissimi elementi acquisiti nel senso indicato e richiama le conversazioni progressivo 25 delle 15:25 del 7 ottobre 2001, riportata integralmente all’interno della sentenza, e che intercorre fra NOME COGNOME e COGNOME. In questa sede si pianificò la cessione di stupefacente del 15 ottobre 2001. Anche la conversazione progressiva 26 era intercorsa fra le stesse persone e anche qui si era registrata la preoccupazione di COGNOME per una possibile intercettazione; analogamente, la conversazione progressiva 27 e la conversazione 259 nelle quali si discuteva della ripresa dell’attività illegale di spaccio nei giorni successivi. Ulteriore conferma relativa all’esistenza dell’organizzazione criminale era emersa dalla conversazione delle ore 22:25 del 25 ottobre 2001, fra NOME e NOME, relativamente all’assenza di notizie relative a NOME, costituiva riprova il riferimento fatto da NOME alla decisione inevitabile di procedere a vendere altra sostanza stupefacente, evidentemente nella sua disponibilità e la condivisione di questa sua iniziativa con altri soggetti che avevano manifestato perplessità al riguardo. Dai dialoghi captati il 25 ottobre fra NOME e NOME, chè chiede se la droga fosse la loro, egli rispose affermativamente; il dialogo manifestava anche che i due erano preoccupati per il mancato perfezionamento della consegna di droga, che aveva aggravato la situazione debitoria del gruppo criminale, tanto che si parla di debiti “nostri”.
L’oggetto della conversazione, sebbene in linguaggio criptico, aveva lasciato comprendere che si parlava del luogo in cui era avvenuto il controllo del corriere atteso e l’arresto di quest’ultimo, unitamente alla moglie, ed il quantitativo di droga questa volta indicato con l’espressione due caffè.
Quindi il ruolo di NOME (detto NOME) era quello di partecipe, come rilevato dalla conversazione numero 13 delle 20:45, che verte proprio sulle vicende relative al furto di sostanza stupefacente che NOME COGNOME aveva occultato per conto e in piena sintonia con NOME. Infatti, il primo aveva comunicato al secondo di non avere più rinvenuto lo stupefacente che aveva provveduto ad occultare a casa sua. La notizia incontrò il disappunto di NOME perché si apprese proprio da costui che aveva dato indicazioni affinché la droga fosse nascosta sottoterra, ma che poi alla fine aveva optato per il nascondiglio in casa ritenendolo sicuro. Si era appreso per bocca dei due interlocutori anche dell’esistenza di una cassa comune e costoro avevano pianificato anche la modalità di riscossione dei crediti del gruppo criminale.
Quanto al ruolo di NOME e di NOME, identificati con certezza con i nomignoli NOME e NOME, la sentenza precisa che era stata provata l’intraneità di entrambi nel sodalizio criminale e la vicenda esitata con l’arresto dei due in data 1 Febbraio 2002, era fondata sulle indagini che avevano provato la piena sinergia operativa di costoro da un lato e COGNOME NOME e COGNOME NOME dall’altro essi non risultavano soltanto terminali necessari di un’operazione univocamente riferibile all’organizzazione, ma intranei al sodalizio nella misura in cui le modalità della condotta posta in essere rivelavano la consapevolezza delle dinamiche.
Infatti, essi dimostravano di avere rapporti direttamente con l’alienante la droga e questo era un dato che si giustificava solo nell’indicata prospettiva. Il vero corriere non era messo a parte dell’identità del venditore, perché si trattava di un dato compromettente. Nel caso in esame, invece, erano proprio i due COGNOME che seguivano e guidavano il corriere, che non si interfacciava con il NOME, prendendo disposizioni da costoro, i quali si raccordavano con COGNOME NOME; inoltre, della loro sorte dopo l’arresto si interessò, con evidente preoccupazione, NOME COGNOME. Questi chiamava tale COGNOME alle 10:30 del giorno successivo, come si evinceva dalla conversazione progressiva 160 e proprio a tal fine il dialogo provava solidamente l’adesione di NOME e di NOME al sodalizio criminale perché per bocca di NOME, che dell’organizzazione era intraneo, si parla di loro come dei “suoi ragazzi”.
L’espressione non è stata ritenuta casuale dalla sentenza impugnata, poiché veniva ribadita e, per evocare la memoria del suo interlocutore, il soggetto captato faceva riferimento ad una frequentazione abituale tanto da affermare, ancora una volta, che si trattava di “quei ragazzi miei”. NOME COGNOME peraltro
dimostrava anche una perfetta sinergia operativa con gli altri imputati nella perpetrazione dei delitti di cui al capo 9) dell’imputazione e confermava la sua intraneità alla organizzazione.
Si annota che NOME era stato distintamente riconosciuto dai militari della Guardia di finanza a bordo della Porsche su cui si trovava COGNOME NOME mentre veniva eseguito l’arresto e lo stesso vi aveva assistito. In particolare, nella conversazione progressiva n. 395 delle 15:10 egli aveva avvisato dell’accaduto NOME NOME, invitandolo immediatamente a disfarsi dell’utenza telefonica. Ad avviso della Corte, se pure la mera presenza non era di per sé sintomatica univocamente di un concorso, nondimeno la segretezza delle operazioni e il riserbo assoluto che avevano caratterizzato ogni condotta degli imputati non poteva che rivelare la piena condivisione delle finalità illecite da parte di NOME, dato che confermava la sua intraneità al sodalizio.
15. Quanto, dunque, alla condotta di partecipazione, la lettura dei dialoghi, in uno con i riscontri richiamati in sentenza (di volta in volta costituiti dai serviz di OCP o da perquisizioni e sequestri) risultano ancora una volta coerenti con i principi più volte affermati in materia: la condotta di partecipazione ad un’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti è integrata, infatti, dal costante e continuo approvvigionamento di sostanze delle quali il sodalizio fa traffico, tale da determinare uno stabile affidamento del gruppo sulla disponibilità all’acquisto, mediante la costituzione di un vincolo reciproco durevole che supera la soglia del rapporto sinallagmatico contrattuale delle singole operazioni e si trasforma nell’adesione dell’acquirente al programma criminoso (Sez. 5, n. 33139 del 28/9/2020, COGNOME, Rv. 280450-01; sez. 4, n. 3398 del 14/12/2021, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285702-01, in cui si è anche precisato che tale disponibilità, unitamente ad altri indici comprovanti l’inserimento organico nella associazione, determina uno stabile rapporto, ancorché non esclusivo, con questa).
16. Nella specie, deve ritenersi che le doglianze costituiscano mera riproposizione delle censure formulate in sede di gravame. Esse sono state articolate senza un effettivo confronto con le argomentazioni spese dalla Corte territoriale in relazione agli elementi probatori, tutti esposti nel corpo della sentenza impugnata (sul significato dei quali, si ribadisce, non possono articolarsi vizi deducibili in questa sede). La sentenza impugnata ha dato conto, in maniera analitica, delle ragioni in fatto giustificative dell’inquadramento in diritto delle condotte esaminate. In particolare, i giudici del merito hanno rinviato: alla non occasionalità dell’accordo, di per sé incoerente con una ricostruzione delle condotte come espressive di reati continuati in concorso; all’esistenza di una struttura
organizzata, dotata di organigramma, in seno alla quale hanno collocato il diverso apporto di ciascun sodale.
Non può quindi cogliersi insanabile illogicità nel ribadire (alla pagina 100 della sentenza) che non era stato possibile accertare i diversi ruoli svolti da ciascuno, posto che con tale espressione si intende il dettaglio delle attribuzioni, ed essendo invece ampiamente emerso che ciascuno degli imputati aveva mostrato piena consapevolezza del fatto che l’apporto concretizzava la partecipazione al sodalizio.
E’ stata anche accertata la consapevole interazione tra i sodali, anche se non tra tutti contemporaneamente, cosa invero non richiesta ai fini della sussistenza della fattispecie associativa. I giudici di merito hanno ricostruito il modus operandi, grazie al quale i dialoghi potevano restare criptici o ridursi a mere occasioni per fissare appuntamenti, la sussistenza di una contabilità; la stessa percezione di appartenenza espressa dai sodali (il riferimento è ai dialoghi riportati in sentenza, più su ricordati) ed infine il vincolo solidaristico, espresso attraverso l’assunzione di debiti comuni.
Anche i motivi relativi al trattamento sanzioNOMErio non possono essere accolti.
In particolare, è privo di specificità il secondo motivo proposto da COGNOME NOME, che deduce la violazione dell’art. 81 cod.pen., in relazione alla affermata errata individuazione del reato più grave. Il ricorrente lo indica in quello relativo al reato di cui agli artt. 73 ed 80 d.P.R. n. 309/1990, oggetto della condanna passata in giudicato disposta dal GUP del Tribunale di Trani il 29 gennaio 2004 (anni 6 di reclusione ed euro 30.000 di multa) e non in quello oggetto del presente giudizio (art. 74 d.P.R. n. 309/1990), la cui pena irrogata, in considerazione delle circostanze attenuanti generiche, è stata di anni sette di reclusione.
Ora, in tema di reato continuato, la violazione più grave va individuata in astratto in base alla pena edittale prevista per il reato ritenuto dal giudice in rapporto alle singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata e all’eventuale giudizio di comparazione fra di esse (Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013; Rv. 255347 – 01), il motivo non deduce, a valle di tale regola di giudizio, i termini dell’error in cui sarebbe caduta la valutazione della sentenza impugnata.
18. Il quarto motivo proposto da NOME va pure ritenuto infondato.
In primo luogo, non vi è alcun contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione, atteso che la pena finale rideterminata dalla Corte d’appello a seguito della concessione delle attenuanti generiche e del dichiarato aumento per la continuazione, sia quanto ai reati sub 1) e 9) dell’imputazione, sia quanto ai reati di cui alla sentenza del Tribunale di Trani del 28 ottobre 2005, è pari a 10 anni di reclusione, per come esplicitato in motivazione e tale pena finale è indicata nel dispositivo.
La mancata indicazione in dispositivo dell’aumento di pena in concreto irrogata quanto alla continuazione per il reato sub 9) dell’imputazione l’esplicitazione in dispositivo dell’aumento per la sola continuazione esterna si risolve in una omissione che non determina alcuna incertezza quanto alla pena complessiva irrogata, di dieci anni.
19. Per altro verso, la Corte d’appello ha individuato la violazione più grave, tenendo conto dell’applicazione delle circostanze attenuanti e, una volta determinata la pena per il reato base, ha aumentato la stessa per la continuazione (in questo senso Sez. 3, n. 225 del 28/06/2017 (dep. 2018) Rv. 272211 – 01 ; Sez. 3, n. 44175 del 19/09/2023 Ud. Rv. 285258 – 01). In tema di reato continuato, il giudice, per individuare la violazione più grave, deve tener conto anche delle circostanze, aggravanti e attenuanti, ravvisabili nel caso concreto e operare gli aumenti o le diminuzioni di pena che, entro i limiti previsti dalla legge, ritiene opportuni, effettuando, all’esito, l’aumento sanzioNOMErio per la ritenuta continuazione.
20. Con riferimento alla dosimetria della pena, contestata soprattutto dal ricorrente NOME COGNOME, occorre ricordare che una specifica e dettagliata motivazione in merito ai criteri seguiti dal giudice si richiede nel caso in cui la sanzione sia determinata in misura prossima al massimo edittale o, comunque, superiore alla media, risultando insindacabile, in quanto riservata al giudice di merito, la scelta implicitamente basata sui criteri di cui all’art. 133, cod. pen., di irrogare una pena in misura media o prossima al minimo edittale (sez. 4, n. 27959 del 18/6/2013, COGNOME, Rv. 258356; sez.2, n. 28852 del 8/5/2013, COGNOME, Rv. 256464; sez. 4, n. 21294 del 20/3/2013, COGNOME, Rv. 256197). Nel caso in cui il giudice di merito abbia applicato la pena in misura prossima al minimo edittale, trova applicazione il principio secondo il quale la motivazione in ordine alla detNOMEazione della pena base, ed alla diminuzione o agli aumenti operati per le eventuali circostanze aggravanti o attenuanti, è necessaria solo quando la pena inflitta sia superiore alla misura media edittale. Fuori da questo caso, anche l’uso delle espressioni quali “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, è sufficiente a far ritenere che il giudice abbia tenuto presenti, sia pure globalmente, i criteri dettati dall’art. 133, cod. pen., per il corretto esercizio del potere discrezionale conferitogli dalla norma in ordine al quantum della pena, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (sez. 2, n. 36104 del 27/4/2017, COGNOME, Rv. 271243-01; sez. 3, n. 6877 del 26/10/2016, dep. 2017, S., Rv. 269196-01; sez. 5, n. 9141 del 29/8/1991, COGNOME, Rv. 188590), per calcolare la quale, peraltro, non va dimezzato il
massimo edittale previsto per il reato, ma diviso per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale, aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo (sez. 3, n. 29968 del 22/2/2019, COGNOME, Rv. 276288-01).
E’ fondato invece il secondo motivo formulato nell’interesse dell’imputato COGNOME, inerente alla estinzione del reato di cui al capo 9) per decorso del relativo termine prescrizionale già in appello.
Tale conclusione va estesa, essendo stato ritenuto pure responsabile per il medesimo capo 9), al ricorrente NOME COGNOME, che aveva comunque proposto appello alla sentenza di primo grado.
L’art. 157 cod.pen., in vigore all’epoca dei fatti, prevedeva il termine di anni quindici per la prescrizione dei delitti per i quali era prevista una pena della reclusione non inferiore a dieci anni; lo stesso articolo, novellato dalla L. n. 251 del 2005, art. 6 (c.d. ex Cirielli) prevede, invece, che la prescrizione estingue il reato quando è decorso un tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque non inferiore ad anni sei in caso di delitto, con raddoppio per talune ipotesi di reato (tra cui quello all’esame) e un aumento massimo del quarto in caso di sospensione ed interruzione ai sensi dell’art. 161 c.p., comma 2.
Il testo dell’articolo, in vigore prima della sostituzione disposta dalla suddetta legge n. 251 del 2005, per quanto qui rileva, prevedeva l’estinzione del reato per prescrizione in dieci anni, se si trattava di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione inferiore a dieci anni.
Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo al massimo della pena stabilita dalla legge per il reato, consumato o tentato, tenuto conto dell’aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti e della diminuzione minima stabilita per le circostanze attenuanti.
Nel caso di specie, la pena prevista dall’art. 73 d. P.R. n. 309/1990, alla data di commissione dei reati in esame, era compresa dai 6 ai 10 anni e con la diminuzione anche minima per le attenuanti, rientra nella categoria sub.3 (in dieci anni). A questi occorre aggiungere i cinque anni previsti dall’art. 157 c.p. (nel testo previgente non ancora novellato dalla legge c.d. “ex Cirielli”), poi va applicato l’ulteriore aumento pari alla metà, previsto dal precedente art. 160 c.p., giungendo ad un termine massimo di anni 15, ex art. 161 cod.pen. essendo intervenuto il decreto di citazione in giudizio entro il 2010.
Si giunge così al più al dicembre 2016, data di prescrizione del reato di cui al capo 9) contestato a NOME, che è quello commesso più di recente (7.12.2001), precedente alla pronuncia di primo grado.
Essendo intervenuta la prescrizione precedentemente anche alla sentenza di primo grado, in mancanza di impugnazione del Pubblico Ministero in ordine alla
concessione delle attenuanti generiche relativamente alle fattispecie di reato contestata sub 9) del capo d’imputazione, va disposto l’annullamento senza rinvio dei capi della sentenza impugnata allo stesso relativi pronunciati nei confronti di COGNOME NOME e, in applicazione dell’art. 587 c.p.p., anche nei confronti di COGNOME NOME. Infatti, si è in presenza di concorso di più persone in uno stesso reato, per cui l’impugnazione proposta da uno degli imputati, in quanto non fondata su motivi esclusivamente personali, come è nel caso di specie, giova anche in favore di NOME NOME, nei cui confronti, in virtù della presente impugnazione, non si è determiNOME il giudicato. Pertanto, non si pone la questione relativa alla possibilità dell’estensione in favore di coimputato, nei cui confronti la responsabilità è stata accertata in via definitiva, affrontata da Sez. U, n. 19054 del 20/12/2012 Ud. (dep. 2013) Rv. 255297 – 01.
Alla luce di tale declaratoria, vista la nuova formulazione dell’art. 620, lett. I), come sostituito dall’art. 1, comma 67, della legge 23 giugno 2017, n. 103, non essendo necessari nuovi accertamenti di fatto, il Collegio ritiene di poter determinare la pena confermando quella stabilita dalla Corte di appello per il solo reato associativo, fermo restando, quanto a COGNOME NOME, l’aumento relativo alla riconosciuta continuazione con il reato accertato con la sentenza del Tribunale di Trani, ed applicando il seguente calcolo. Quanto a NOME la pena va determinata in anni otto di reclusione (pena base per il reato di associazione di dieci anni, ridotta a sette per la concessione delle attenuanti generiche, fermo l’aumento di un anno per la continuazione con i reati di cui alla sentenza del Tribunale di Trani del 28.10.2005; quanto a COGNOME NOME, la pena va determinata in anni otto di reclusione, ridotta la pena base di anni undici di reclusione ad anni otto per la concessione delle attenuanti generiche e dovendosi escludere l’aumento di due anni per il capo 9) relativo al reato dichiarato estinto per prescrizione.
L’accoglimento, anche parziale dell’impugnazione degli imputati, comporta l’esclusione della loro condanna alle spese del procedimento.
P.Q.M.
Disposta preliminarmente, quanto alla posizione di NOME COGNOME, la restituzione degli atti alla Corte di appello di Bari presso cui è in corso il nuovo giudizio di appello, annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alle imputazioni di cui all’art. 73 D.P.R. 309/1990 per essere i reati estinti per intervenuta prescrizione, e rigetta nel resto i ricorsi proposti da NOME, NOME e NOME.
Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2024.