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Reato associativo: autonomia e dissidi interni

La Cassazione ha confermato la condanna per reato associativo di un soggetto che, pur operando in autonomia e in conflitto con il capo clan locale, agiva sempre sotto l’egida e con l’appoggio di una più ampia famiglia mafiosa. I giudici hanno stabilito che i dissidi interni non escludono l’appartenenza al sodalizio criminale, se l’azione resta riconducibile alla struttura principale.

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Pubblicato il 27 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reato associativo: quando l’autonomia non esclude l’appartenenza al clan

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato un caso complesso di reato associativo, chiarendo un punto fondamentale: agire con un certo grado di autonomia e persino entrare in conflitto con i vertici locali di un’organizzazione criminale non è sufficiente a escludere la partecipazione al sodalizio. Questa decisione offre importanti spunti di riflessione sulla struttura e le dinamiche interne dei clan mafiosi.

I Fatti del Processo: un Conflitto Interno al Clan

Il caso riguardava un individuo condannato in primo e secondo grado per partecipazione a un’associazione di tipo mafioso. Secondo l’accusa, confermata dai giudici di merito, l’imputato faceva parte di una nota famiglia mafiosa operante in un vasto territorio siciliano. Tuttavia, nel tempo, egli era entrato in aperto conflitto con il capo di una cellula locale, legata alla stessa famiglia, cercando di ritagliarsi margini di autonomia e comando. Aveva formato un proprio piccolo gruppo, dedito principalmente a estorsioni nello stesso territorio controllato dal clan, entrando in concorrenza diretta con la consorteria storica.

La Tesi della Difesa: un Gruppo Slegato dalla Casa Madre

La difesa dell’imputato ha sostenuto che, a seguito di questa rottura, egli si fosse dissociato dal clan originario per dar vita a un nuovo e autonomo gruppo. Secondo questa prospettiva, non sarebbe stata provata l’esistenza di un’associazione criminale con il numero minimo di partecipanti richiesto dalla legge (almeno tre persone). In sostanza, si contestava che l’azione dell’imputato potesse ancora essere ricondotta alla famiglia mafiosa principale, dipingendolo come un ‘cane sciolto’.

Il Reato Associativo secondo la Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato. I giudici supremi hanno avallato pienamente la ricostruzione dei tribunali di merito, basata sulla cosiddetta ‘doppia conforme’, ovvero due sentenze di condanna identiche nel loro esito. La Corte ha sottolineato come le motivazioni delle due decisioni si integrino a vicenda, creando un quadro accusatorio solido.

La Prova della Partecipazione nonostante i Dissidi

Il punto cruciale della decisione è la valutazione della posizione dell’imputato. Nonostante i contrasti con il capo locale e la gestione autonoma delle attività illecite, la sua azione non si è mai svolta al di fuori della cornice della più ampia famiglia mafiosa. Le dichiarazioni convergenti di diversi collaboratori di giustizia, unite agli esiti delle intercettazioni, hanno dimostrato che l’imputato, per poter operare in quel territorio, beneficiava sempre dell’appoggio e della ‘copertura’ del clan principale. Anche in una conversazione intercettata, uno dei capi riconosceva che, nonostante i contrasti, erano ‘tutti sotto una famiglia’.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte ha stabilito che la formazione di sottogruppi o le frizioni interne sono una dinamica non insolita all’interno delle organizzazioni mafiose. Tali dissidi non comportano automaticamente la fuoriuscita dal sodalizio. Nel caso specifico, l’imputato, pur agendo ‘in concorrenza’ con la cellula locale, operava sempre ‘con le spalle coperte’ dal clan di livello superiore. La sua azione mafiosa era quindi correttamente riconducibile alla più ampia famiglia catanese, come contestato nell’imputazione finale. La Corte ha ritenuto le critiche della difesa ‘decentrate’ rispetto alla reale contestazione, poiché si concentravano sulla presunta mancanza di un nuovo gruppo autonomo, mentre l’accusa verteva sulla perdurante appartenenza a quello principale.

Le Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale in materia di reato associativo: la partecipazione a un’associazione mafiosa è un legame che non si scioglie semplicemente con un dissidio interno o con la creazione di un’area di autonomia operativa. Finché l’azione del singolo, pur conflittuale, rimane nell’alveo e beneficia, anche indirettamente, della forza intimidatrice e della struttura dell’organizzazione madre, il vincolo associativo permane. Per i giudici, è stato decisivo accertare che l’imputato non avrebbe mai potuto agire liberamente in quel territorio senza l’appoggio, seppur a distanza, della famiglia mafiosa egemone.

Un conflitto con il capo del clan locale esclude la partecipazione al reato associativo?
No, secondo la sentenza, un conflitto con i vertici locali o il tentativo di creare un proprio spazio di autonomia non esclude di per sé la partecipazione all’associazione mafiosa, specialmente se l’individuo continua a operare sotto la protezione o nell’ambito della più ampia struttura criminale di riferimento.

Cosa si intende per ‘doppia conforme’ e quale importanza ha?
Si ha una ‘doppia conforme’ quando la sentenza della Corte di Appello conferma pienamente quella del tribunale di primo grado. In questi casi, le motivazioni delle due decisioni si integrano, creando un impianto argomentativo particolarmente solido e difficile da contestare in Cassazione.

Come è stata provata l’appartenenza dell’imputato al clan nonostante la sua autonomia?
L’appartenenza è stata provata attraverso le dichiarazioni convergenti di più collaboratori di giustizia e le intercettazioni ambientali. Questi elementi hanno dimostrato che, nonostante l’imputato agisse con un proprio gruppo e in contrasto con il capo locale, la sua azione era sempre riconducibile alla più ampia famiglia mafiosa, dalla quale riceveva appoggio e copertura.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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