Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 3791 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 3791 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 27/06/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 07/12/2022 del TRIB. SORVEGLIANZA di CATANIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG, in persona di NOME COGNOME, che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
I. Con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Sorveglianza di Catania dichiarava inammissibili le richieste, presentate da NOME COGNOME, detenuto in esecuzione della pena di anni 3 di reclusione per il reato di cui all’art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 (T.U.I.), volte alla concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale o della detenzione domiciliare.
L’istanza di detenzione domiciliare veniva dichiarata inammissibile in quanto proposta da detenuto per reato rientrante tra quelli richiamati dall’art. 4-bis, Ord. pen., mentre quella di affidamento in prova veniva dichiarata inammissibile in quanto il tale reato rientra tra quelli di cui al comma primo della medesima disposizione e non è stato ritenuto sussistente il presupposto della collaborazione con la giustizia, peraltro neanche rappresentato nella richiesta.
Il Tribunale aggiunge che l’interessato non ha dedotto elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti.
L’interessato propone ricorso per cassazione, con rituale ministero difensivo, articolando due motivi.
Con il primo motivo, si deduce la violazione di legge, avendo il giudice richiesto, quale condizione di ammissibilità delle istanze, la prova della collaborazione con la giustizia, prescritta dall’art. 4-bis, comma primo, Ord. pen., quando, tuttavia, l’art. 12, commi 3, 3-bis, e 3-ter d.lgs. n. 286 del 1998 è previsto nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma primo-ter, che invece richiede, a tal fine, l’assenza di prova circa l’esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Tale prova non emerge agli atti, ove risultano altri elementi positivi che denotano l’assenza di collegamenti.
Con il secondo motivo, si deduce la violazione dell’art. 4-b4s, comma primobis, Ord. pen., non avendo il Tribunale considerato che il ricorrente, come risultante dagli atti, non avrebbe potuto offrire alcuna utile collaborazione con la giustizia in ragione della sua mancata partecipazione, essendo, peraltro, i fatti già pienamente accertati. Inoltre, quanto all’insussistenza dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, si evidenzia che tale prova non deve necessariamente essere offerta dal richiedente il beneficio, potendo essere raggiunta presuntivamente sulla base di elementi sintomatici, emergenti dagli atti, dell’intervenuta rescissione dei legami con l’associazione criminale di
appartenenza. Nel caso di specie, peraltro, è il titolo di reato ad escludere qualunque collegamento – non accertato in sentenza – con un sodalizio criminale.
Nella requisitoria scritta, il Procuratore generale ha chiesto l’inammissibilità
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
Le doglianze articolate con il primo motivo, con il quale si assume che il reato in esecuzione rientrerebbe tra quelli per i quali il legislatore vieta la concessione delle misure alternative soltanto nel caso in cui risultino (positivamente) elementi tali da ritenere l’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, sono smentite dalla lettura dell’art. 4-bis Ord. pen., che tanto nella formulazione che segue il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, quanto in quella previgente dal 21 aprile 2015, prevede il reato di cui all’art. 12, commi 1 e 3, T.U.I., nel catalogo dei reati ostativi cui al comma primo (c.d. “prima fascia”), e non già nel catalogo di cui al comma primo-ter (c.d. “seconda fascia”), che invece interessa il reato di cui all’art. 416 cod. pen. quando sia finalizzato alla commissione del reato in esecuzione.
Anche le doglianze articolate nel secondo motivo, nella parte in cui il ricorrente sostiene che la legge non prescriva un onere di prova o allegazione avente a oggetto la collaborazione impossibile o inesigibile, sono prive di pregio, essendo pacifico il principio secondo il quale, “ai fini del superamento delle condizioni ostative alla fruizione di benefici penitenziari stabilite – per determinati reati – dal combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, e 2 della legge 12 luglio 1991, n. 203′ grava sul condannato l’onere di delineare nell’istanza elementi specifici circa l’impossibilità o l’irrllevanza della sua collaborazione” (Sez. 1, n. 47044 del 24/01/2017, Rv. 271474).
Quanto all’assunto secondo il quale sul ricorrente non incomberebbe neppure un onere di allegazione circa l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, occorre premettere che, come osservato anche dal Procuratore generale, il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto di poter applicare, in senso potenzialmente favore al richiedente, la nuova disposizione di cui all’art. 4-bis, comma primo-bis, Ord. pen.
4.1 Va evidenziato che tale articolo, nel testo antecedente al d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, prevedeva nel primo comma una presunzione assoluta di mancata
rescissione dei legami con la criminalità organizzata a carico del condannato per reati “ostativi di prima fascia” che non collabori con la giustizia ai sensi dell’art 58-ter Ord. pen.
Proprio in virtù di tale presunzione – assoluta, non essendo superabile se non dalla collaborazione stessa – la disposizione comportava che le richieste di concessione di misure alternative proposte da soggetto non collaborante dovessero dichiararsi in limine inammissibili. Le uniche eccezioni erano rappresentate dai casi di collaborazione impossibile o irrilevante di cui al comma 1-bis art. cit.
4.2. Con progressivi interventi della Corte costituzionale, si è limitata la rigida portata di tale esclusione. Invero, la sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019, con perimetro applicativo limitato ai permessi premio, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma primo, Ord. pen. nella parte in cui non prevedeva che per i delitti ivi contemplati potessero essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché fossero stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
In tale pronuncia, la Corte costituzionale aveva censurato la presunzione assoluta della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata che la legge faceva discendere dalla mancata collaborazione. Invero, «mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, comma terzo, Cost. agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione – una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata».
La normativa è quindi risultata incostituzionale in quanto: 1) all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante; 2) tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena’ intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, comma terzo, Cost.; 3) l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.
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4.3. Restava intatta l’ostatività della mancata collaborazione con la giustizia quanto alla concessione delle misure alternative e della liberazione condizionale.
In merito a quest’ultimo istituto, questa Sezione, con l’ordinanza n. 18518 del 2020, sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma primo, e 58-ter Ord. pen., e dell’art. 2 d.l. n. 152 del 1991, convertito con modifiche nella legge n. 203 del 1991, nella parte in cui escludevano che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, potesse essere ammesso alla liberazione condizionale in assenza di collaborazione con la giustizia.
La Corte costituzionale, con la ordinanza n. 97 del 2021, ha ritenuto di rinviare la trattazione del procedimento di un anno per consentire al Parlamento di raggiungere un diverso punto di equilibro tra gli opposti interessi in gioco, ritenuto – ma non dichiarato – incostituzionale quello sottoposto al suo esame in ragione della ostatività conseguente alla mancanza di collaborazione con la giustizia e dalla quale consegue l’impossibilità di «sperare nella fine della pena».
La Corte costituzionale ha evidenziato, tra le ragioni a sostegno della sospensione del giudizio, che «la normativa risultante da una pronuncia di accoglimento delle questioni, con chiusa nei termini proposti dal giudice a qua, vita a un sistema penitenziario caratterizzato, a sua volta, da incoerenza». Invero, in caso di accoglimento delle questioni sottoposte al suo esame, i condannati non collaboranti, che potevano vedersi valutare nel merito l’istanza di permesso premio a seguito della sentenza n. 253 del 2019, avrebbero potuto accedere anche al procedimento di ammissione alla liberazione condizionale; tuttavia, sarebbe rimasto loro inibito l’accesso alle altre misure alternative, ossia a quelle misure che «normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso il recupero della libertà».
In pendenza della nuova udienza è intervenuto il decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, che ha tra l’altro previsto all’art. 1, comma 1, lett. a), n. 2) l’integrale sostituzione del comma primo-bis dell’art. 4-bis Ord. pen.
Pertanto, con l’ordinanza n. 227 del 2022, la Corte costituzionale ha restituito gli atti alla Corte di cassazione, ritenendo che spettasse al giudice a quo verificare l’influenza della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate e procedere alla rivalutazione della loro non manifesta infondatezza. Invero, «si è in presenza di una modifica complessiva della disciplina interessata dalle questioni di legittimità costituzionale in esame e, per quel che qui particolarmente interessa, di una trasformazione da assoluta in relativa della presunzione di pericolosità del condannato all’ergastolo per reati ostativi non collaborante».
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4.4. La novella del 2022 richiede dunque che sia esercitato il potere valutativo di merito in ordine alla verifica dei requisiti di accesso alle misure alternative richieste dal ricorrente, alla luce della nuova qualità – relativa e superabile -della presunzione di mantenimento di collegamenti con l’organizzazione di appartenenza, da essa introdotta, in caso di mancata collaborazione processuale.
Tale situazione, infatti, non costituisce più un dato rigidamente preclusivo all’accesso ai benefici penitenziari, restando nell’ambito valutativo del Tribunale di sorveglianza superare detta presunzione, non più assoluta, sulla base degli indici, stringenti e cumulativi, che sono stati introdotti con la nuova regola iuris, e che si sostanziano nella necessità di valutare in concreto il percorso rieducativo del ricorrente e l’assenza di collegamenti, attuali o potenziali, con la criminalità organizzata e con il contesto mafioso (in questi termini, Sez. 1, n. 15196 del 01/02/2023, non mass.).
Tali elementi, tuttavia, devono essere allegati o provati dal soggetto istante, come evidenzia l’univoco dato normativo di cui al comma primo-bis dell’art. 4 Ord. pen., che prescrive, quale condizione per l’accoglimento della richiesta, in assenza di collaborazione con la giustizia, che i detenuti – tra l’altro -“alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, all partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, ten conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile”.
È dunque immune da censure la valutazione del Tribunale di sorveglianza, che ha dichiarato inammissibile l’istanza rilevando l’assenza della prescritta allegazione difensiva.
Va infine osservato che le superiori argomentazioni non rilevano con riguardo alla declaratoria di inammissibilità dell’istanza di detenzione domiciliare generica, correttamente pronunciata dal giudice, come imposto dall’art. 47-ter, comma primo-bis, Ord. pen., sul mero rilievo dell’ostatività del reato in esecuzione.
Per le esposte considerazioni, il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile, e il ricorrente deve essere condannato, in forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma, ritenuta
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congrua, di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso (Corte Cost. n. 186 del 2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 27/6/2023