Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 10761 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 10761 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 10/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a LIVORNO il 31/08/1949
avverso ordinanza del 25/09/2024 del TRIBUNALE di RAGIONE_SOCIALE di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 11 maggio 2023, il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva rigettato la richiesta di detenzione domiciliare proposta, ai sensi degli artt. 47-ter Ord. pen. e 16-nonies, legge n. 82 del 1991, da NOME COGNOME condannato alla pena di 9 anni, 9 mesi e 22 giorni di reclusione, costituenti pena residua di quella maggiore di 18 anni, 1 mese e 10 giorni di reclusione determinata con il provvedimento di cumulo n. 194/2024 emesso il 2 luglio 2024 dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Livorno (che aveva unificato la sentenza in data 5 novembre 2018 della Corte di appello di Firenze, di condanna per associazione finalizzata al narcotraffico e per detenzione di stupefacenti di ingente quantità, e la sentenza in data 10 novembre 2015 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Firenze per rapina aggravata commessa nel 2009), con fine pena il 4 febbraio 2034. Dato atto della collaborazione con la giustizia, del parere favorevole della D.N.A. e del comportamento corretto tenuto agli arresti domiciliari, il Tribunale aveva tuttavia valutato l’elevata caratura criminale, il procedimento all’epoca pendente per omicidio, la misura applicata per esigenze di cautela sociale e il prevedibile aumento della pena detentiva, giungendo alla conclusione della previa necessità di un periodo di osservazione penitenziaria.
1.1. Con sentenza n. 11208/24 in data 8 febbraio 2024, la Prima Sezione della Corte di cassazione annullò la predetta ordinanza, rilevando che il Tribunale aveva ignorato la positiva evoluzione della personalità del condannato, il quale, dopo la consumazione dei reati in epoca molto risalente, negli ultimi sei anni, oltre a fornire un contributo collaborativo significativo, era rimasto sottoposto agli arresti domiciliari, misura dal contenuto identico a quello della detenzione domiciliare, senza incorrere in alcuna violazione. Al cospetto di elementi indicativi di una revisione critica ampiamente consolidata, appariva contraddittoria l’affermazione della carenza di ravvedimento e manifestamente illogica l’affermata necessità di una previa verifica intramuraria.
1. Con ordinanza in data 25 settembre 2024, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha nuovamente rigettato la richiesta proposta nell’interesse di COGNOME. Secondo il Collegio gli elementi valutabili nel giudizio rescissorio erano diversi da quelli presi in esame dalla Corte di cassazione, considerata la sopravvenienza della condanna, inflitta con sentenza in data 27 ottobre 2022 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Livorno, alla pena di 10 anni e 8 mesi di reclusione per il delitto di omicidio di NOME COGNOME commesso il 30 giugno 2002; tenuto conto del comportamento assunto in quel procedimento e degli esiti dell’osservazione penitenziaria svolta dal 5 giugno 2023 al 12 aprile 2024. Dopo avere evidenziato, preliminarmente, il parere favorevole della D.N.A. con riferimento alla collaborazione iniziata nel 2018, qualificata da dichiarazioni su
un’associazione finalizzata al traffico di ingenti quantità di stupefacenti – sodalizio tuttora attivo nel settore delle estorsioni e degli illeciti contro il patrimonio e cont l’incolumità personale, nel cui contesto era maturato l’omicidio di COGNOME – il Collegio di merito ha rilevato che l’attenuante della collaborazione era stata concessa soltanto per la partecipazione di COGNOME all’associazione finalizzata al narcotraffico, mentre era stata negata per l’omicidio, commesso anni prima e ritenuto estraneo a contesti di criminalità organizzata. In proposito, si è osservato che le dichiarazioni relative a tale episodio sarebbero soltanto autoaccusatorie, senza riguardare altri soggetti e che, con esse, COGNOME avrebbe cercato di alleggerire la propria posizione, riferendo di aver inteso spaventare o gambizzare la vittima, benché la traiettoria del proiettile mortale abbia smentito tale versione e, soprattutto, tacendo il relativo movente. Inoltre, il Tribunale ha valorizzato la spietatezza dell’azione, commessa nel corso della semilibertà, precostituendo strumentalmente una licenza premio per recarsi a Livorno dalla madre. Infine, non sarebbe stata ancora verificata l’attendibilità delle sue dichiarazioni accusatorie riguardanti il sodalizio, avendo la D.N.A. riferito che il dibattimento è in corso. Sul versante dell’osservazione carceraria condotta dal 5 giugno 2023 al 12 aprile scorso, dopo i sei anni di arresti domiciliari, gli operatori penitenziari avrebbero descritto una personalità infantile, con strumenti cognitivi elementari e lacune personali per le quali egli necessiterebbe di supporto, eventualmente tramite Ser.D., per orientare i suoi interessi verso valori e risorse non devianti. Pur avendo riferito che la nascita dei figli lo avrebbe motivato a cambiare vita, il Tribunale ha evidenziato la contraddizione tra tale affermazione e il fatto di essere fuggito all’estero proprio con i figli, evadendo dagli arresti domiciliari e rimanendo latitante per anni e rispetto al fatto di avere commesso, dopo l’estradizione, negli anni 2015-2016, il reato associativo. Inoltre, il Collegio di merito ha evidenziato che la storia criminale del detenuto è stata rielaborata senza esprimere ripensamenti e revisione critica, senza alcuna forma di solidarietà verso le vittime e senza un approfondito confronto con la genesi delle sue condotte illecite e della collaborazione, intrapresa soltanto al momento dell’arresto. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Su tali basi, in una ponderazione complessiva tra la collaborazione con la giustizia e la gestione degli arresti domiciliari, da un lato, e la necessità di un ravvedimento adeguato alla detenzione domiciliare richiesta, dall’altro laro, il Tribunale ha, conclusivamente, ritenuto di non concedere la misura, considerato lo spessore criminale del richiedente e le condotte recidivanti di considerevole entità e commesse in ampio arco temporale. Quanto all’applicazione della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 01, Ord. pen. il Collegio capitolino ha ritenuto che la natura ostativa dei reati non lo consentisse.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso il predetto provvedimento per mezzo del difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME deducendo due distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al rigetto della detenzione domiciliare.
Il Tribunale ometterebbe di considerare una serie di risultanze e non valuterebbe appieno quelle positive, facendo prevalere elementi fantasiosi e nascondendo la attuale realtà del ricorrente, settantacinquenne che ha trascorso sette anni agli arresti domiciliari senza violare le prescrizioni, nonché un anno in carcere, comportandosi correttamente anche nella struttura detentiva e che avrebbe bisogno di esercitare il suo ruolo educativo nei confronti dei figli adolescenti.
Quanto al passaggio della motivazione in cui il Collegio di merito affermerebbe che gli elementi valutabili in sede di rinvio sono diversi da quelli presi in esame dalla Corte di cassazione, si osserva che quest’ultima, in realtà, ben conosceva l’esistenza del procedimento per omicidio. In ogni caso, COGNOME sarebbe stato condannato a soli dieci anni di reclusione, con le attenuanti generiche prevalenti; e il mancato riconoscimento della speciale attenuante della collaborazione si spiegherebbe con il fatto che non si trattava di reato aggravato dal metodo mafioso. Quanto ai precedenti penali, essi sarebbero stati valorizzati dal Tribunale benché si tratti di vicende assai risalenti nel tempo, obliterando il parere favorevole della D.N.A. e il giudizio della speciale Commissione e del Servizio centrale di protezione, che descriverebbe un soggetto ormai ravveduto. Così come del tutto obliterati sarebbero l’assenza di nuove denunzie, il ripudio delle condotte del passato, l’adesione a valori socialmente condivisi, l’attaccamento al contesto familiare, la condotta di vita attuale, la corretta gestione degli arresti domiciliari eseguiti dal 2016 senza commettere la minima infrazione. Ed erronea sarebbe la pretesa del Tribunale di un “ravvedimento estremo” del detenuto, richiesto per la liberazione condizionale e non per la detenzione domiciliare. Quanto, poi, agli esiti dell’osservazione penitenziaria, la relazione predisposta dagli operatori non sarebbe presente in atti, sicché la Difesa non sarebbe stata in grado di controbattere alle affermazioni del Tribunale di sorveglianza.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al mancato riconoscimento dell’avvenuto ravvedimento.
Il Tribunale contraddirebbe i precedenti della Suprema Corte secondo cui occorrerebbero, rispetto alla collaborazione, ulteriori e specifici elementi idonei a dimostrare la maturazione di una convinta revisione critica che consenta di
formulare, quanto meno in termini di elevata e qualificata probabilità un giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condanna di vita del condannato alle regole dettate dall’ordinamento. Nel caso di specie tale condizione non sarebbe stata ravvisata nonostante che COGNOME collabori, ininterrottamente, da ben otto anni e non abbia mai riportato rapporti disciplinari di alcun tipo, dedicandosi esclusivamente alla famiglia. Dunque, il Tribunale avrebbe utilizzato il parametro richiesto dall’art. 176 cod. pen. anziché quello dell’art. 16-nonies, legge n. 82 del 1991, avendo affermato la giurisprudenza che la «ragionevole probabilità del ravvedimento presuppone due elementi di segno positivo: la collaborazione riconosciuta giudizialmente e l’insussistenza di elementi che indichino collegamenti con la criminalità organizzata» (Sez. 1, n. 36368 del 10/09/2021).
In data 18 novembre 2024 è pervenuta in Cancelleria la requisitoria scritta del Procuratore generale presso questa Corte, con la quale è stata chiesta la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati.
L’art. 16-nonies, d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito con modificazioni dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, introdotto dall’art. 14, comma 1, legge 13 febbraio 2001, n. 45 e modificato dall’art. 18, comma 1, lett. c), legge 28 giugno 2024, n. 90, stabilisce che nei confronti delle persone condannate per un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale o per uno dei delitti di cui agli artt. 51, comma 3-bis o 371-bis, comma 4-bis, cod. proc. pen., le quali abbiano prestato, anche dopo la condanna, taluna delle condotte di collaborazione che consentono la concessione delle circostanze attenuanti previste dal codice penale o da disposizioni speciali, la liberazione condizionale, la concessione dei permessi premio e l’ammissione alla misura della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter Ord. pen. sono disposte, su proposta ovvero sentito il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, dal tribunale o dal magistrato di sorveglianza, i quali, avuto riguardo all’importanza della collaborazione e sempre che sussista il «ravvedimento» e non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, adottano il relativo provvedimento anche in deroga alle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle relative ai limiti di pena di cui all’art. 1 cod. pen. e agli artt. 30-ter e 47-ter Ord. pen.
Nel caso di specie, il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto che non vi fossero le condizioni per una valutazione positiva del ravvedimento del richiedente e ha, dunque, respinto l’istanza di detenzione domiciliare.
All’uopo, l’ordinanza impugnata ha evidenziato l’allarmante biografia criminale di NOME COGNOME, resosi responsabile, oltre che di numerose rapine ed evasioni dagli anni ’70 al 2015, di un omicidio nel 1984, per il quale è stato condannato alla pena di 24 anni di reclusione; di un altro omicidio, commesso nel giugno 2002, mentre si trovava sottoposto alla misura alternativa della semilibertà, revocatagli nel settembre 2002; di una rapina, commessa nel 2009, per la quale si trovava sottoposto alla misura degli arresti domiciliari, dalla quale era evaso rendendosi latitante all’estero, per poi essere estradato, nel 2012, e sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale; del delitto, commesso nel 2015/2016, previsto dall’art. 74, d.P.R. n. 309 del 1990, nonché di altre rapine ed estorsioni. Il Tribunale ha poi evidenziato che nel 2017 COGNOME ha iniziato a collaborare, autoaccusandosi dell’omicidio e venendo, per tale ragione, rinviato a giudizio, all’esito del quale è stato, infine, condannato, in via definitiva, alla pena di 10 anni e 8 mesi di reclusione. Ad onta di ciò, l’ordinanza ha valutato negativamente, nell’ambito del percorso collaborativo, il contegno tenuto nel rendere le dichiarazioni relative all’episodio dell’omicidio, che sarebbero state volte a ridurre le proprie responsabilità e che, soprattutto, non avrebbero portato alla condanna di altri complici. E tale circostanza, tenuto conto della nuova condanna e del conseguente allontanamento del fine pena, ha indotto a ritenere non ancora maturata la condizione soggettiva del ravvedimento, cui il citato art. 16-nonies subordina l’accesso, a condizioni privilegiate, ai benefici penitenziari. Ciò anche alla luce dei risultati dell’osservazione della personalità svolta dal 5 giugno 2023 al 12 aprile 2024, ritenuti poco tranquillanti, avendo gli operatori penitenziari riferito di una personalità infantile con scarsi strumenti cognitivi e lacune personali, di una forte dipendenza dalla famiglia e, soprattutto, di un’assenza di ripensamenti e di revisione critica per i propri vissuti delinquenziali, in relazione ai quali COGNOME non ha espresso interesse e solidarietà per le parti lese. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Tanto premesso, va innanzitutto rilevato che secondo la giurisprudenza di legittimità, il requisito del «ravvedimento» previsto dalla citata disposizione, non può essere oggetto di una sorta di presunzione, formulabile sulla sola base dell’avvenuta collaborazione e dell’assenza di persistenti collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, ma richiede la presenza di ulteriori, specifici elementi, di qualsivoglia natura, che valgano a dimostrarne in positivo, sia pure in termini di mera, ragionevole probabilità, l’effettiva sussistenza (Sez. 1, n. 48505 del 18/11/2004, COGNOME, Rv. 230137 – 01; Sez. 1, n. 34283 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 232219 – 01; Sez. 1, n. 1115 del 27/10/2009, dep. 2010,
COGNOME, Rv. 245945 – 01; Sez. 1, n. 48891 del 30/10/2013, COGNOME, Rv. 257671 01; Sez. 1, n. 43256 del 22/05/2018, Sarno, Rv. 274517 – 01). Al riguardo, si è ritenuto che il «ravvedimento» debba essere valutato con riguardo alla condotta complessiva del collaboratore di giustizia, tenuto conto dei rapporti con i familiari, con il personale giudiziario, dello svolgimento di attività lavorativa o di studio, quali elementi indicativi di una revisione critica della sua vita anteatta e una reale ispirazione al suo riscatto morale (Sez. 1, n. 3675 del 16/01/2007, Tedesco, Rv. 235796 – 01; Sez. 1, n. 9887 del 01/02/2007, COGNOME, Rv. 236548 – 01). Quanto, poi, all’interesse e alla concreta disponibilità del condannato a fornire alla vittima del reato ogni possibile assistenza, essi, pur rilevanti ai fini del relativo giudizi (Sez. 1, n. 1115 del 27/10/2009, dep. 2010, COGNOME, Rv. 245945 – 01; Sez. 1, n. 48891 del 30/10/2013, Marino, in motivazione), non possono, tuttavia, identificarsi con il ravvedimento, né esso può risolversi tout court nel pentimento o nel riconoscimento dei propri errori, postulando una valutazione globale della condotta del soggetto (Sez. 1, n. 9887 del 01/02/2007, Pepe, Rv. 236548 – 01). Si è, inoltre, affermato (Sez. 1, n. 9034 del 30/11/2023, dep. 2024, COGNOME, non massimata; Sez. 1, n. 37626 del 24/02/2023, Vargas, non nnassimata; Sez. 1, n. 43256 del 22/05/2018, Sarno, in motivazione) che tale ravvedimento vada in concreto rapportato alla natura e consistenza del beneficio richiesto, valendo anche per i collaboratori il criterio di gradualità nella concessione di benefici penitenziari (su di esso v. Sez. 1, n. 23343 del 23/03/2017, Arzu, Rv. 270016 01; Sez. 1, n. 20551 del 04/02/2011, COGNOME, Rv. 250231 – 01; Sez. 1, n. 31999 del 06/07/2006, Valfrè, Rv. 234889 – 01), il quale, pur non costituendo una regola assoluta e codificata, è suggerito dall’esperienza e risponde ad un razionale apprezzamento delle esigenze rieducative e di prevenzione cui è ispirato il significato stesso del trattamento penitenziario; e ciò vale particolarmente quando i reati commessi siano sintomatici di una non irrilevante capacità a delinquere, manifestata in contesti delinquenziali di elevato livello (Sez. 1, n. 5689 del 18/11/1998, dep. 1999, Foti, Rv. 212794 – 01). Dunque, va ribadita, anche con riferimento ai benefici applicabili ai collaboratori di giustizia, la necessari gradualità dell’accesso alle misure alternative, in quanto il sistema di accesso a detti benefici penitenziari, in sé, è fondato sulla progressività e gradualità (v. Sez. 1, n. 22443 del 17/01/2019, COGNOME, Rv. 276213 – 01, secondo cui il Tribunale di sorveglianza, anche quando siano emersi elementi positivi nel comportamento del detenuto, può legittimamente ritenere necessario un ulteriore periodo di osservazione e lo svolgimento di altri esperimenti premiali, al fine di verificare l’attitudine del soggetto ad adeguarsi alle prescrizioni da imporre). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Consegue alle considerazioni che precedono che la nozione di ravvedimento richiamata dal comma 4 dell’art. 16-nonies debba essere apprezzato in maniera differente a seconda del beneficio o della misura richiesti. Se, infatti, si ammette
la gradualità nell’accesso ad essi, deve postularsi, da un punto di vista logico, che il percorso rieducativo del detenuto non debba considerarsi concluso fin dal momento dell’accesso al primo gradino dei benefici penitenziari, costituito dal permesso premio. Richiedere, fin da tale momento, il raggiungimento di quel «sicuro ravvedimento» che viene richiesto dall’art. 176 cod. pen. per l’applicazione della liberazione condizionale vanificherebbe il richiamato principio gradualistico nell’accesso ai benefici; e non consentirebbe di comprendere per quale motivo il detenuto debba essere ammesso al permesso premio e non, direttamente, alla detenzione domiciliare o finanche alla liberazione condizionale. Ne consegue che il «ravvedimento», richiesto anche per il permesso premio e per la detenzione domiciliare, il quale giustifica, unitamente al percorso collaborativo, la previsione di un più agevole accesso ai benefici rispetto ai detenuti non collaboranti, deve essere inteso non già come l’avvenuto conseguimento del fine ultimo del trattamento rieducativo, quanto come la maturazione di un definitivo e irreversibile distacco dalle pregresse scelte di vita criminale.
Nel caso di specie, ritiene il Collegio che la motivazione con cui il Tribunale ha dato conto del proprio percorso decisionale presenti dei profili di manifesta illogicità che rendono necessario un nuovo pronunciamento in sede rescissoria.
5.1. Sotto un primo profilo, va rilevato che il provvedimento impugnato ha ridimensionato il contributo collaborativo prestato da COGNOME: e ciò sotto diversi aspetti. Innanzitutto, egli avrebbe cercato di attenuare la propria responsabilità rispetto all’omicidio di COGNOME, cercando di avallare la tesi di un omicidio preterintenzionale smentita dalle acquisizioni processuali, in questo modo palesando un livello ancora inadeguato di riflessione autocritica rispetto al grave reato commesso. Inoltre, come ricordato, il Tribunale ha stigmatizzato la mancata applicazione, per tale delitto, dell’attenuante speciale della collaborazione e ha posto in luce, al contempo, sia che essa si sarebbe risolta in una mera autoincolpazione, sia il mancato riconoscimento delle responsabilità di eventuali complici. Tale valutazione presenta, tuttavia, profili di significativa illogicità, tenut conto di quanto documentato dalla Difesa e riferito dallo stesso provvedimento impugnato. In disparte la circostanza che, come evidenziato dal Tribunale di sorveglianza, il procedimento penale relativo all’omicidio era stato riaperto proprio grazie alle dichiarazioni confessorie rese da COGNOME, a carico del quale, dunque, non vi erano, prima di tale momento, elementi sufficienti a sostenere l’accusa, va rilevato che, con tali dichiarazioni, egli non si è affatto limitato ad una autoincolpazione, avendo anche indicato i nomi di altri soggetti che, a suo dire, avrebbero concorso nell’omicidio e che sono stati assolti unicamente perché le parole del collaboratore non sono state riscontrate, come richiesto, invece, dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., sicché la mancata condanna degli stessi non può
certo addebitarsi a COGNOME. Ne consegue che l’affermazione secondo cui il contributo collaborativo del dichiarante non sarebbe stato «completo e sincero» (fg. 3 dell’ordinanza impugnata) si palesa come sostanzialmente apodittica. Quanto, poi, al mancato riconoscimento dell’attenuante speciale, la stessa ordinanza ha, in realtà, riconosciuto che l’omicidio non era maturato in un contesto di criminalità organizzata in senso stretto, sicché la relativa argomentazione del Tribunale appare non conducente.
Del pari, l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato secondo cui la collaborazione di COGNOME non avrebbe ancora ricevuto alcun vaglio di attendibilità è smentita dal dato emergente dalla sentenza n. 14819 del 12/02/2020 della Corte di cassazione, da cui si evince che le dichiarazioni dell’odierno ricorrente sono state poste a fondamento della pronuncia di condanna a carico dei partecipi di un’associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, cui si riferisce precipuamente la sua attività di collaborazione. Elementi, questi, che rendono illogica l’affermazione secondo cui non sarebbe dimostrata l’interruzione di ogni collegamento con l’ambiente della criminalità organizzata di provenienza.
5.2. Sotto altro aspetto, l’ordinanza ha posto in luce l’assenza di una definitiva revisione critica da parte del ricorrente, sottolineandosi il disinteresse mostrato da COGNOME rispetto alle vittime degli illeciti da lui commessi.
A tale riguardo, premesso che la relazione sull’osservazione penitenziaria è stata diffusamente citata nel provvedimento impugnato e che tale circostanza smentisce l’affermazione difensiva secondo cui essa non sarebbe stata versata in atti, va nondimeno evidenziata, ancora una volta, la omessa considerazione, nella complessiva valutazione operata dal Tribunale, della capacità di autodisciplina palesata da COGNOME nel corso di 6 anni di arresti domiciliari, trascorsi senza violare prescrizioni di analogo contenuto a quelle cui sarebbe sottoposto con la misura domiciliare richiesta, oltre che in un ulteriore anno di espiazione della pena detentiva in carcere, anch’esso caratterizzato da una condotta sempre corretta sul piano disciplinare. Un aspetto, questo, che unito al profilo della inevitabile rottura dei legami con i contesti criminali del passato, ormai recisi per effetto di una collaborazione che allo stato non consentirebbe di ristabilirli, finisce per minare, sul piano logico, la motivazione resa dal Tribunale capitolino, che rimane fondata sulla necessità di una piena revisione critica dei trascorsi delinquenziali del detenuto e, in questo modo, finisce per accogliere quella nozione ampia di ravvedimento che, come si è detto, viene in rilievo ai sensi dell’art. 176 cod. pen. ma non nelle disposizioni sulla collaborazione, che rimandano, essenzialmente, a un definitivo abbandono della vita anteatta, di cui la risoluzione dei legami con il contesto criminale di provenienza costituisce un indicatore significativo.
Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere accol sicché l’ordinanza impugnata deve essere annullata, con rinvio, per nuovo giudizi al Tribunale di sorveglianza di Roma.
PER QUESTI MOTIVI
Annulla il provvedimento impugnato con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Roma.
Così deciso in data 10 gennaio 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente