Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 483 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 483 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Civitavecchia il 06/09/2002 COGNOME NOME nato in Polonia il 26/06/1991
avverso la sentenza n. 3574/24 del 26/03/2024 della Corte d’appello di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo: 1) la correzione dell’errore materiale della sentenza impugnata con riguardo all’«indicazione del nome dell’imputato al quale era stata riconosciuta l’invocata attenuante da individuarsi in COGNOME NOME in luogo di COGNOME NOME»; 2) l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla circostanza attenuante della lieve entità del fatto; 3) il rigett dei ricorsi nel resto;
lette le note conclusive dell’Avv. COGNOME COGNOME difensore di Scocco NOME COGNOME e di COGNOME Daniele, il quale, nel replicare alle conclusioni del Pubblico Ministero nella parte di esse relativa alla richiesta di parziale rigetto dei ricorsi, si è riportato ai motivi di questi, insistendo per l’accoglimento de medesimi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 26/03/2024, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del 24/10/2023 del Tribunale di Civitavecchia, emessa in esito a giudizio ordinario: a) confermava la condanna di NOME COGNOME e di NOME COGNOME per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, di rapina impropria aggravata (dall’essere stata la minaccia commessa da più persone riunite) in concorso ai danni di Shendai Hu di cui al capo 1) dell’imputazione e di resistenza a un pubblico ufficiale in concorso di cui al capo 2) dell’imputazione; b) riconosceva “a COGNOME NOME” (così il dispositivo della sentenza) l’ulteriore – rispetto alle circostanze attenuanti generiche già riconosciute dal Tribunale di Civitavecchia – circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. (partecipazione di minima importanza al reato di rapina), in regime di prevalenza rispetto alla menzionata attribuita circostanza aggravante della stessa rapina; c) in conseguenza di quanto indicato al punto b), rideterminava la pena “a lui” (cioè allo COGNOME) inflitta in due anni e otto mesi di reclusione ed C 500,00 di multa (a fronte della pena di cinque anni e due mesi di reclusione ed C 1.000,00 di multa che era stata irrogata a entrambi gli imputati dal Tribunale di Civitavecchia) e “revoca le pene accessorie applicate a COGNOME NOME“.
Avverso la menzionata sentenza del 26/03/2024 della Corte d’appello di Roma, hanno proposto ricorsi per cassazione, con distinti atti, entrambi a firma dell’avv. NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606 comma 1, lett. c), cod. proc. pen., e con riferimento all’art. 125 dello stesso codice, che la Corte d’appello di Roma avrebbe «erroneamente applicato allo COGNOME, invece che al COGNOME l’attenuante di cui all’art. 114 c.p.».
Il ricorrente rappresenta in proposito che il riconoscimento di tale circostanza attenuante era stato richiesto, nell’unico atto di appello dei due imputati, per i solo COGNOME (e non anche per lo COGNOME) e che la Corte d’appello di Roma, nella motivazione della sentenza impugnata, aveva argomentato la sussistenza della stessa circostanza attenuante con riferimento alla posizione del COGNOME (e non dello COGNOME).
Ciò nonostante, in insanabile contrasto con tale motivazione, nel dispositivo della sentenza impugnata, la Corte d’appello di Roma avrebbe erroneamente: a) statuito di riconoscere la circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. “a COGNOME NOME“; b) conseguentemente rideterminato la pena inflitta allo stesso COGNOME.
Il difensore dei due imputati rappresenta di avere presentato alla Corte d’appello di Roma, con una PEC del 28/05/2024, un’istanza di correzione dell’indicato errore materiale, sulla quale la stessa Corte d’appello non aveva, tuttavia, provveduto.
3.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 624, 625 e 628 cod. pen., per avere la Corte d’appello di Roma erroneamente qualificato il fatto di cui al capo 1) dell’imputazione come rapina impropria anziché come furto aggravato e minaccia e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione «con riferimento alla valutazione dell’unitarietà dell’azione».
Il ricorrente premette che, nel proprio atto di appello, aveva dedotto che il fatto di cui al capo 1) dell’imputazione avrebbe dovuto essere riqualificato come furto e minaccia e aveva al riguardo rappresentato che: a) la prima parte dell’azione delittuosa avrebbe integrato il reato di furto, in quanto «lo Scocco compiutamente realizzava la sottrazione della res»; b) diversamente da quanto sarebbe stato ritenuto dal Tribunale di Civitavecchia, da quando la persona offesa NOME si era allontanata per visionare le immagini delle telecamere di videosorveglianza del negozio, era trascorso il considerevole lasso di tempo di circa 15 minuti, durante i quali lo Scocco era rimasto davanti allo stesso negozio, «fuori da qualsiasi sfera di sorveglianza», sicché egli «aveva già consolidato il potere sulla cosa e avrebbe potuto avere l’impunità semplicemente allontanandosi dal luogo del fatto»; c) la successiva condotta minacciosa – tenuto conto del considerevole lasso di tempo che era trascorso dalla sottrazione della res, nonché del fatto che la stessa condotta era stata posta in essere «perché la persona offesa usciva dal negozio con un bastone che è stato utilizzato all’indirizzo dello Scocco» – si doveva ritenere «autonoma, rispetto a un possesso già realizzato» e, pertanto, «non è stata affatto finalizzata ad assicurarsi il possesso sulla cosa o ad ottenere l’impunità ed è sorretta da un elemento soggettivo molto diverso da quello necessario per configurare il reato di rapina impropria». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ciò premesso, il ricorrente deduce che sarebbe del tutto illogico sia «sostenere che l’allontanamento del proprietario dall’ingresso del negozio, dopo che peraltro entrambi gli imputati erano transitati oltre le barre antitaccheggio, per il tempo necessario alla visione dei filmati di ben 16 telecamere di videosorveglianza, gli abbia consentito di mantenere la sorveglianza sugli stessi» imputati, sia «affermare che la “prossimità logico spaziale” confermerebbe l’unitarietà dell’azione. Considerando che tale prossimità degli imputati non solo non si poneva in armonia con la volontà di sottrarre la res, ma addirittura si poneva con la stessa in aperto contrasto. Infatti, mentre lo Hu controllava le telecamere all’interno del
negozio, gli imputati, già all’esterno ed al di fuori di qualsiasi sfera di sorveglianz potevano tranquillamente allontanarsi del tutto indisturbati».
L’unitarietà dell’azione si doveva dunque ritenere essere stata interrotta considerato anche che la fattispecie concreta in considerazione sfuggirebbe pure a un suo inquadramento nel concetto di quasi flagranza -, mentre vi sarebbe invece stata «quella frattura temporale e causale che ha cristallizzato la precedente condotta di furto».
3.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione dell’art. 628 cod. pen., per avere la Corte d’appello di Roma irrogato una pena «illegale», alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 86 del 2024, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, cod. pen., «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolio, il fatto risulti di lieve entità».
Il ricorrente premette che, considerato l’errore materiale che è stato rappresentato con il primo motivo, la Corte d’appello di Roma avrebbe di fatto confermato la pena che gli era stata irrogata per il reato di rapina dal Tribunale di Civitavecchia, il quale, «in ragione della portata del danno», l’aveva determinata nella misura del minimo edittale di cinque anni di reclusione (oltre a C 1.000,00 di multa, a fronte di un minimo edittale di C 927,00).
Ciò premesso, lo COGNOME deduce che, alla luce sia del suddetto riferimento operato dal Tribunale di Civitavecchia alla «portata del danno» per parametrare la pena sul minimo edittale, sia delle «peculiarità della condotta» – atteso che sarebbe «indubbio che, se lo COGNOME si fosse allontanato dal negozio dopo aver sottratto la res, come era nelle sue possibilità, avrebbe risposto unicamente del reato di furto» – il fatto si dovrebbe considerare di lieve entità, con la conseguente applicazione della diminuzione di pena in misura non eccedente un terzo in base all’invocata Corte cost. n. 86 del 2024, della quale, essendo essa stata decisa il 16/04/2024 e, quindi, dopo la sentenza impugnata, la Corte d’appello di Roma non aveva potuto tenere conto.
3.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza dell’art. 628, terzo comma, n. 1), cod. pen., per avere la Corte d’appello di Roma ritenuto la sussistenza della circostanza aggravante dell’essere stata la minaccia commessa da più persone riunite.
Il ricorrente contesta l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui i due imputati avrebbero «entrambi proferito minacce per vincere la sua [della
vittima] resistenza o comunque a rallentare l’arrivo delle forze dell’ordine» (pag. 5 della sentenza impugnata), rappresentando al riguardo che: a) la condotta di avere minacciato la vittima attribuita al COGNOME sarebbe insussistente; b) la condotta di avere proferito minacce per «rallentare l’arrivo delle forze dell’ordine» sarebbe «riferibile solo ad un momento successivo al c.d. atto predatorio».
Nel caso in esame, non ricorrerebbe nessuna delle due ipotesi che giustificano l’aggravamento della pena costituite dalla maggiore costrizione esercitata simultaneamente sulla vittima o dalla maggiore potenzialità criminosa correlata all’oggettiva compresenza di più persone nel luogo del delitto, atteso che la persona offesa NOME aveva riferito che il COGNOME aveva cercato addirittura di fare desistere lo COGNOME.
Il ricorso di NOME COGNOME è affidato a cinque motivi.
4.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., e con riferimento all’art. 125 dello stesso codice, che la Corte d’appello di Roma avrebbe «erroneamente applicato allo COGNOME, invece che al COGNOME l’attenuante di cui all’art. 114 c.p.».
A sostegno del motivo, il COGNOME sviluppa argomentazioni identiche a quelle sviluppate nel primo motivo del ricorso di NOME COGNOME.
4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 110 e 628 cod. pen., per avere la Corte d’appello di Roma erroneamente ritenuto il suo concorso nel reato di rapina e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione «con riferimento alla valutazione della sussistenza dell’ipotesi di cui all’art. 114 c.p.».
Il ricorrente deduce che l’affermazione della Corte d’appello di Roma secondo cui egli avrebbe «concorso ad assicurare all’autore materiale (lo COGNOME) l’impunità minacciando chi aveva manifestato di chiamare le forze dell’ordine» (pag. 6 della sentenza impugnata) sarebbe: a) del tutto illogica, tale dovendosi ritenere «affermare che il COGNOME, dopo aver cercato di far desistere lo COGNOME dai propri propositi criminosi , ai quali non aveva minimamente partecipato in precedenza, a distanza di pochi minuti si sia determinato invece ad aiutarlo, cercando di evitare la chiamata delle forze dell’ordine»; b) contraddittoria rispetto alle motivazioni che la stessa Corte d’appello di Roma ha posto a fondamento del riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen.
La motivazione della sentenza impugnata sarebbe altresì «carente» là dove la Corte d’appello di Roma avrebbe sminuito la valenza della dichiarazione della testimone NOME COGNOME, madre dello COGNOME, secondo la quale la frase «se chiami le guardie me la pijo pure con te» sarebbe stata rivolta a lei e non alla
commessa del negozio NOME COGNOME atteso che, nel rivolgere tale frase alla COGNOME, l’intento del COGNOME non sarebbe stato quello di impedirle di chiamare i Carabinieri. Infatti, poiché non sarebbe stato possibile pensare che la COGNOME chiamasse i Carabinieri per fare arrestare il proprio figlio, sarebbe «chiaro, quindi, che il COGNOME riteneva la frase della COGNOME solo una frase provocatoria, tesa a far desistere il proprio figlio dalla condotta delittuosa e si rivolgeva alla stessa sol con l’intento di farla star zitta. Probabilmente perché riteneva che tale frase avrebbe contribuito ad irritare lo COGNOME, che al contrario lui stava cercando di calmare».
4.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 624, 625 e 628 cod. pen., per avere la Corte d’appello di Roma erroneamente qualificato il fatto di cui al capo 1) dell’imputazione come rapina impropria anziché come furto aggravato e minaccia e, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione «con riferimento all valutazione dell’unitarietà dell’azione».
A sostegno del motivo, il COGNOME sviluppa argomentazioni identiche a quelle sviluppate nel secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME con la sola aggiunta della considerazione che «l’unica condotta attribuita al COGNOME, la asserita minaccia alla dipendente del negozio, resterebbe avulsa dalle condotte attribuite allo COGNOME e non avrebbe alcuna rilevanza penale».
4.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione dell’art. 628 cod. pen., per avere la Corte d’appello di Roma irrogato una pena «illegale», alla luce della già ricordata sentenza della Corte costituzionale n. 86 del 2024.
Il ricorrente premette che, considerato l’errore materiale che è stato rappresentato con il primo motivo, la Corte d’appello di Roma avrebbe di fatto confermato la pena base che gli era stata irrogata per il reato di rapina dal Tribunale di Civitavecchia, il quale, «in ragione della portata del danno», l’aveva determinata nella misura del minimo edittale di cinque anni di reclusione (oltre a € 1.000,00 di multa, a fronte di un minimo edittale di C 927,00).
Ciò premesso, il COGNOME deduce che, alla luce sia del suddetto riferimento operato dal Tribunale di Civitavecchia alla «portata del danno» per parametrare la pena sul minimo edittale, sia delle «peculiarità della condotta» – atteso che al COGNOME «è stato riconosciuto un ruolo di minima importanza e applicata la diminuente prevista dall’art. 114 c.p.» – il fatto si dovrebbe considerare di lieve entità, con la conseguente applicazione della diminuzione di pena in misura non eccedente un terzo in base all’invocata Corte cost. n. 86 del 2024.
4.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606 comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’inosservanza dell’art. 628, terzo comma, n. 1), cod. pen., per avere la Corte d’appello di Roma ritenuto la sussistenza della circostanza aggravante dell’essere stata la minaccia commessa da più persone riunite.
A sostegno del motivo, il COGNOME sviluppa argomentazioni identiche a quelle sviluppate nel secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME COGNOME con la sola aggiunta della considerazione che la condotta di avere proferito minacce per «rallentare l’arrivo delle forze dell’ordine» sarebbe non soltanto «riferibile so ad un momento successivo al c.d. atto predatorio» ma anche compiuta «nei confronti di soggetto diverso dalle persone offese».
CONSIDERATO IN DIRITTO
I primi due motivi dei due ricorsi – i quali, lamentando lo stesso errore materiale del dispositivo della sentenza impugnata, devono essere esaminati congiuntamente – sono fondati.
La questione dei rapporti tra dispositivo e motivazione ha dato luogo a una copiosa elaborazione giurisprudenziale.
In generale, si afferma che il contrasto tra dispositivo e motivazione si risolve con la logica prevalenza dell’elemento decisionale su quello giustificativo (ad esempio: Sez. 6, n. 7980 del 01/02/2017, COGNOME, Rv. 269375-01, la quale ha peraltro precisato che tale prevalenza non è automatica, bensì dipende dalle specificità del caso posto all’attenzione del giudice di legittimità; Sez. 6, n. 19851 del 13/04/2016, COGNOME, Rv. 267177-01), salve, appunto, le specificità del caso, quale, ad esempio, la presenza di un errore materiale nel dispositivo (tra le tante: Sez. 2, n. 13904 del 09/03/2016, COGNOME, Rv. 266660-01; Sez. F, n. 47576 del 09/09/2014, COGNOME, Rv. 261402-01, la quale ha argomentato che qualora, nel dispositivo, ricorra un errore materiale obiettivamente riconoscibile, il contrasto con la motivazione è meramente apparente, con la conseguenza che è possibile fare riferimento a quest’ultima per determinare l’effettiva portata del dispositivo, individuare l’errore che lo affligge ed eliminarne gli effetti).
In altre pronunce, si è affermato che, nel caso di contrasto tra il dispositivo e la motivazione della sentenza, la regola della prevalenza del dispositivo, in quanto espressione della volontà decisoria del giudice, non è assoluta, ma va contemperata, tenendo conto del caso specifico, con la valutazione degli elementi tratti dalla motivazione, che conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni della decisione e che, pertanto, ben può contenere elementi certi e logici che facciano ritenere errato il dispositivo o parte di esso (per tutte: Sez. 3 n. 3969 del 25/09/2018, dep. 2019, B., Rv. 275690-01, relativa a una fattispecie
in cui nel dispositivo era stata omessa la statuizione della concessione della sospensione condizionale della pena, i presupposti della quale, invece, erano stati riconosciuti nella motivazione).
Nel caso in esame, dalla motivazione della sentenza impugnata risulta: 1) che la richiesta, nell’unico atto di appello degli imputati, di riconoscimento dell circostanza attenuante della minima partecipazione al reato di rapina era stata fatta con riguardo al COGNOME e non con riguardo allo COGNOME (pag. 3 della sentenza impugnata, là dove la Corte d’appello di Roma ha riassunto i motivi di appello); 2) la chiara e univoca volontà della Corte d’appello di Roma di riconoscere l’invocata circostanza attenuante al COGNOME e non allo COGNOME (pag. 7 della sentenza impugnata: «eve invece essere accolto il motivo di appello volto a riconoscere il concorso del COGNOME come di minima importanza. Invero, l’Hu non ha riferito di alcun contributo del COGNOME nella condotta predatoria ed è pacifico che costui sia intervenuto, solo nella fase finale, e proferendo una sola frase minacciosa. Ne consegue il riconoscimento dell’ipotesi di cui all’art. 114 cp, da stimare (insieme alle circostanze attenuanti generiche già riconosciute in primo grado) prevalenti rispetto all’aggravante. Invero, il COGNOME non è attinto da precedenti condanne e in assenza di elementi che indichino una condotta di vita anomica le riconosciute attenuanti devono essere valutate prevalenti rispetto all’unica aggravante delle più persone riunite». Corsivo aggiunto).
Tali elementi, contenuti nella motivazione della sentenza impugnata, fanno logicamente ritenere, in modo del tutto inequivoco e, quindi, certo, che il dispositivo della stessa sentenza, là dove indica il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. “a COGNOME NOME” anziché a COGNOME NOME, è affetto da un errore materiale obiettivamente riconoscibile.
Tale errore deve, perciò, essere senz’altro emendato – come è stato del resto concordemente richiesto dai due ricorrenti -, nel senso, appunto, che, nel dispositivo dell’impugnata sentenza n. 3574/24 del 26/03/2024 della Corte d’appello di Roma, dopo le parole “riconosce a”, va escluso il nominativo “COGNOME NOME“, errato, il quale va sostituito con il nominativo “COGNOME NOME“.
Si deve peraltro rilevare che il dispositivo della sentenza impugnata contiene un analogo errore anche là dove è scritto (nel suo penultimo periodo): “Revoca le pene accessorie applicate a COGNOME NOME“. Nella motivazione della stessa sentenza, tale previsione era infatti strettamente connessa al riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. in favore del COGNOME.
Anche tale errore deve, perciò, essere senz’altro emendato, nel senso quindi che, nel dispositivo dell’impugnata sentenza n. 3574/24 del 26/03/2024 della Corte d’appello di Roma, ove è scritto: “Revoca le pene accessorie applicate a
Scocco NOME“, deve leggersi: “Revoca le pene accessorie applicate a COGNOME NOME“.
2. Prima di esaminare gli ulteriori motivi dei due ricorsi, si devono rammentare alcuni principi che sono stati affermati dalla Corte di cassazione in tema di cosiddetta “doppia conforme” e di limiti al sindacato della stessa Corte di cassazione sul vizio della motivazione.
Costituisce un orientamento consolidato quello secondo cui, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cosiddetta “doppi conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (tra le tante: Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 25261501).
È parimenti consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione sia nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, COGNOME, Rv. 280155-01; Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv. 272018-01; Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, COGNOME, Rv. 256837-01).
Costituisce, ancora, un principio pacificamente accolto dalla Corte di cassazione quello secondo cui, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali a imporre una diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spess
della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747-01; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 26296501).
Non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizi sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 de 19/09/2017, COGNOME, Rv. 271623-01; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, COGNOME, Rv. 250362-01).
Richiamati tali principi, affermati dalla Corte di cassazione, il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME e il terzo motivo del ricorso di NOME COGNOME – i quali motivi, prospettando le stesse censure e argomentandole in modo pressoché identico, possono essere esaminati congiuntamente – non sono consentiti.
La Corte di cassazione ha chiarito come, ai fini della configurabilità del delitto di rapina impropria, il requisito dell’«immediatezza», contemplato dalla norma incriminatrice del secondo comma dell’art. 628 cod. pen., non richieda la contestualità temporale tra la sottrazione della res e l’uso della violenza o della minaccia, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale tale da non interrompere l’unitarietà dell’azione volta a impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte o ad assicurare al colpevole l’impunità (Sez. 2, n. 30775 del 10/05/2023, COGNOME, Rv. 285038-02).
Inoltre, sempre nella rapina impropria, la violenza o la minaccia si possono realizzare anche in luogo diverso da quello della sottrazione della cosa e in pregiudizio di persona diversa dal derubato, sicché, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra sottrazione e uso della violenza o minaccia, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale tale da non interrompere l’unitarietà dell’azione volta a impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte o ad assicurare al colpevole l’impunità (Sez. 7, n. 34056 del 29/05/2018, COGNOME, Rv. 273617-01; Sez. 2, n. 43764 del 04/10/2013, COGNOME, Rv. 257310-01).
Nel caso in esame, la Corte d’appello di Roma ha ritenuto che l’intervallo, stimato dagli appellanti «in 10-15 minuti» (pag. 4 della sentenza impugnata), che era intercorso tra la sottrazione dei beni (una felpa e dei pantaloni) da parte dello COGNOME e le minacce che erano state adoperate dallo stesso COGNOME e, per quanto immediatamente si dirà esaminando il secondo motivo del suo ricorso, anche dal COGNOME, al di fuori dell’esercizio commerciale – dove gli imputati si erano trattenuti e dove la persona offesa era ritornata dopo avere avuto conferma della sottrazione a seguito della visione, nel corso dei suddetti «10-15 minuti», delle immagini delle
telecamere di videosorveglianza – per assicurarsi il possesso dei beni sottratti e per procurarsi l’impunitknon avesse interrotto, alla luce anche del fatto che, come si è detto, gli imputati erano rimasti fuori dal negozio, l’unitarietà spazio-temporale dell’azione volta a impedire alla persona offesa NOME COGNOME di tornare in possesso dei menzionati beni e ad assicurare l’impunità a chi li aveva sottratti.
Tale motivazione della ritenuta unitarietà dell’azione volta a impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte e ad assicurare al colpevole l’impunità appare il frutto di un’interpretazione dei fatti che è priva contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae a censure in questa sede di legittimità, in particolare, alle censure che sono state avanzate dai due ricorrenti, le quali, senza riuscire a evidenziare dei vizi che siano effettivamente inquadrabili tra quelli di cui alla lett. e) del comma 1 dell’art. 606 cod. proc. peri., si traducono, in realtà, in una non consentita sollecitazione di una diversa interpretazione dei medesimi fatti e, quindi, nella conseguente parimenti non ammessa richiesta di sussunzione degli stessi fatti, come diversamente interpretati, nelle differenti fattispecie del furto e della minaccia.
Parimenti non consentita, in quanto anch’essa fondata su di una mera differente ricostruzione e interpretazione dei fatti, si deve ritenere anche la doglianza con la quale i ricorrenti sostengono che la condotta minacciosa dello COGNOME era stata da lui realizzata solo «perché la persona offesa usciva dal negozio con un bastone».
Il secondo motivo del ricorso di NOME COGNOME non è consentito.
La Corte d’appello di Roma ha confermato la condanna del COGNOME a titolo di concorso nel reato di rapina impropria sulla base della motivazione che l’imputato – il quale aveva assistito alla condotta sottrattiva che era stata posta in essere dallo COGNOME (passando a questi, che si trovava in un camerino di prova, gli indumenti che il coimputato aveva poi indossato sotto gli abiti che già portava addosso) e, poi, all’attivazione dell’allarme antitaccheggio e alle minacce che lo COGNOME aveva proferito nei confronti del gestore del negozio Shendai Hu -, aveva a questo punto anch’egli minacciato chi intendeva chiamare le forze dell’ordine con la frase «se chiami le guardie me la pijo pure con te» (il che confermava che il COGNOME era a conoscenza del fatto che era stato commesso un reato), senza che potesse assumere rilievo il fatto che tale minaccia fosse stata rivolta alla commessa del negozio NOME COGNOME (come era stato da lei dichiarato nel corso del dibattimento di primo grado) o alla madre dello COGNOME sig.ra NOME COGNOME (come era stato invece da questa dichiarato sempre nel corso del dibattimento di primo grado).
Tale motivazione del contributo concorsuale del COGNOME in particolare, dell’aiuto che egli, nell’ultima fase del reato, minacciando chi intendeva chiamare le forze
dell’ordine, aveva dato allo COGNOME, che aveva sottratto i beni, al fine di assicurargli l’impunità – impendendo o rallentando l’arrivo delle forze dell’ordine, dopo che la sottrazione era stata scoperta – appare del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, sicché essa si sottrae a censure in questa sede di legittimità. In particolare, alle censure che sono state avanzate dal ricorrente, atteso che, diversamente da quanto è stato da questi sostenuto: a) non è affatto illogico ritenere che il COGNOME, ancorché potesse avere in precedenza «cercato di far desistere lo COGNOME dai propri propositi criminosi», lo avesse poi aiutato ad assicurarsi l’impunità minacciando chi intendeva chiamare le forze dell’ordine; b) non vi è alcuna contraddizione tra il ritenere la partecipazione del COGNOME al reato e il ritenere che tale partecipazione avesse avuto una minima importanza nell’esecuzione dello stesso reato.
Le censure del ricorrente, pertanto, senza riuscire a evidenziare dei vizi che siano effettivamente inquadrabili tra quelli di cui alla lett. e) del comma 1 dell’art. 606 cod. proc. pen., né delle violazioni degli artt. 110 e 628 cod. pen., finiscono col tradursi, in realtà, nella sollecitazione di una diversa interpretazione dei fat o, per quanto riguarda la censura che è stata formulata con riguardo alle dichiarazioni della testimone NOME COGNOME nella sollecitazione di una diversa valutazione del significato delle stesse dichiarazioni, oltre che della frase, pronunciata dall’imputato, «se chiami le guardie me la pijo pure con te», il che non è consentito fare in sede di legittimità.
5. Il terzo motivo del ricorso di NOME COGNOME e il quarto motivo del ricorso di NOME COGNOME – i quali motivi, prospettando le stesse censure e argomentandole in modo pressoché identico, possono essere esaminati congiuntamente – non sono consentiti perché aspecifici.
Con la sentenza n. 86 del 2024 – la quale, essendo stata decisa nella camera di consiglio del 16/04/2024, è intervenuta successivamente alla sentenza impugnata -, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, cod. pen., «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».
La Corte costituzionale ha in particolare ritenuto che, come per l’estorsione per la quale è stabilito il medesimo minimo edittale e che aveva subito parallele modifiche nel trattamento sanzionatorio -, anche per la rapina impropria l’elevato minimo edittale previsto dal censurato secondo comma dell’art. 628 cod. pen. (cinque anni di reclusione), il quale era stato introdotto per contenere fenomeni criminali seriamente lesivi della persona e del patrimonio, eccedesse lo scopo quando l’offensività concreta del fatto non giustificava una punizione così severa,
determinando l’irrogazione di una pena irragionevole, sproporzionata e quindi inidonea alla rieducazione del reo. Anche nella rapina infatti – connotata da una latitudine oggettiva e da una varietà di condotte materiali non meno ampie di quelle dell’estorsione – la violenza o la minaccia potrebbero essere, come era nel caso oggetto del giudizio a quo, di modesta portata e il danno cagionato di valore infimo. Occorreva pertanto prevedere, anche in relazione a tale fattispecie, un’attenuante a effetto comune, analoga a quella che era stata introdotta per l’estorsione con la sentenza n. 120 del 2023, quale “valvola di sicurezza” che consentisse al giudice di temperare la sanzione nei casi di lieve entità. Gli indici di detta attenuante – estemporaneità della condotta, scarsità dell’offesa personale alla vittima, esiguità del valore sottratto, assenza di profili organizzativi – era tali da garantire che la riduzione della pena fosse riservata alle ipotesi di lesivit davvero minima, per una condotta che pur sempre incide sulla libertà di autodeterminazione della persona.
Ciò rammentato, si deve rilevare come, nell’invocare la possibilità dell’applicazione dell’introdotta circostanza attenuante della lieve entità del fatto i ricorrenti abbiano omesso di operare un adeguato specifico riferimento ai sopra evidenziati indici della stessa lieve entità, atteso che né lo COGNOME né il COGNOME hanno specificamente argomentato né in ordine alla portata della minaccia che era stata posta in essere (che, peraltro, come risulta dalle sentenze di merito, appare connotata da gravità, «ti ammazzo», oltre che da una manifestazione di disprezzo di tipo razzista, «merda di cinese», e dal lancio di oggetti contro la persona offesa) né in ordine all’entità del danno che era stato cagionato (che, peraltro, come risulta sempre dalle sentenze di merito, era consistito, oltre che nel valore dei beni che erano stati sottratti, anche nei danni che erano stati cagionati alla porta di ingresso e alla vetrina del negozio dello Hu), senza che si possano ritenere costituire un’adeguata argomentazione: né il riferimento, operato da entrambi i ricorrenti, alla «portata del danno», risultando tale riferimento del tutto generico; né il rilievo operato dalla COGNOME, al fatto che egli si sarebbe potuto allontanare dal negozio subito dopo avere sottratto le res, atteso che tale scelta del ricorrente non incide né sulla portata della minaccia posta in essere né sul valore del danno cagionato; né, infine, il rilievo che al COGNOME sia stata riconosciuta la circostanza attenuante della minima partecipazione, atteso che è ben possibile che il concorrente nel reato presti un’opera che ha avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione di un fatto non di lieve entità.
Pertanto, come si è anticipato, i motivi si devono ritenere aspecifici e, perciò, non consentiti.
6. Il quarto motivo del ricorso di NOME COGNOME e il quinto motivo del ricorso di NOME COGNOME i quali motivi, prospettando le stesse censure e
argomentandole in modo pressoché identico, possono essere esaminati congiuntamente – non sono fondati.
La Corte di cassazione ha chiarito che, in tema di rapina impropria, il fatto che più concorrenti siano presenti quando è stata esercitata la violenza o la minaccia ai danni di soggetto diverso da quello nei cui confronti è avvenuta la sottrazione determina l’applicazione dell’aggravante delle più persone riunite, in ragione del maggiore effetto di intimidazione che la presenza di più persone esercita sul terzo intervenuto (Sez. 2, n. 40772 del 19/07/2018, Guerra, Rv. 274459-01, relativa a una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto l’aggravante in un caso in cui l’imputato, dopo avere tentato di impossessarsi della borsetta che una donna aveva lasciato all’interno di un’autovettura, bloccato dagli inseguitori, aveva usato violenza nel tentativo di allontanarsi a bordo dello scooter guidato dal complice, presente ai fatti e poi fuggito).
Alla luce di tale principio, che è condiviso dal Collegio, ne discende la piena logicità e la piena correttezza della sentenza impugnata là dove la Corte d’appello di Roma, in conformità con quanto era stato ritenuto dal Tribunale di Civitavecchia, ha confermato la sussistenza della circostanza aggravante dell’essere stata la minaccia commessa da più persone riunite, sulla considerazione, come si è detto, del tutto logica e corretta, che i due correi non solo erano stati entrambi presenti sulla scena del delitto ma avevano entrambi proferito minacce – lo COGNOME nei confronti del gestore del negozio Shendai Hu e il COGNOME nei confronti della commessa dello stesso negozio NOME COGNOME o della sig.ra NOME COGNOME, il che aveva evidentemente potenziato l’effetto di intimidazione che le minacce avevano prodotto su tali soggetti.
7. In conclusione: a) deve essere disposta la correzione dell’errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza n. 3754/24 del 26/03/2024 della Corte d’appello di Roma, nel senso che: a.1) dopo le parole “riconosce a”, va escluso il nominativo “COGNOME NOME“, errato, il quale va sostituito con il nominativo “COGNOME NOME“; a.2) ove è scritto: “Revoca le pene accessorie applicate a COGNOME NOME” deve leggersi: “Revoca le pene accessorie applicate a COGNOME NOME“; b) i ricorsi devono essere rigettati, con la conseguente condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Corregge il dispositivo della sentenza impugnata, escludendo dopo le parole “riconosce a” il nominativo “COGNOME NOME” errato, e sostituendolo con il nominativo “COGNOME NOME“. Corregge, altresì, il dispositivo della sentenza impugnata nel senso che, ove è scritto: “Revoca le pene accessorie applicate a
Scocco NOME“, deve leggersi: “Revoca le pene accessorie applicate a COGNOME NOME“. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 23/10/2024.