Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 27141 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 27141 Anno 2025
Presidente: IMPERIALI NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 16/05/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME nato a BARLETTA il 09/12/1978 COGNOME nato a BITONTO il 20/06/1979
avverso la sentenza del 18/03/2024 della CORTE di APPELLO di BARI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo emettersi declaratoria di inammissibilità del ricorso;
udito l’Avv. NOME COGNOME per COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 18 marzo 2024 la Corte d’Appello di Bari in parziale riforma della sentenza emessa il 30 ottobre 2019 dal Giudice per l’Udienza Preliminare del Tribunale di Bari, con la quale gli imputati NOME NOME e NOME NOME erano state dichiarate colpevoli del reato di rapina loro in concorso ascritto, concedeva alla sola
Digiacomantonio i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Avverso tale sentenza proponevano ricorso per cassazione, con distinti atti, entrambe le imputate, per il tramite dei rispettivi difensori, chiedendone l’annullamento.
La difesa della COGNOME articolava un unico motivo di doglianza, con il quale deduceva erronea applicazione degli artt. 624, 625 e 628 cod. pen., assumendo che erroneamente la Corte d’Appello non aveva riqualificato il fatto nel delitto di furto, considerato che la COGNOME non aveva esercitato alcuna violenza o minaccia nei confronti degli addetti al supermercato, successivamente alla perpretazione della condotta furtiva, e neppure era stata raggiunta la prova di un preventivo accordo fra la ricorrente e la COGNOME, che aveva inveito contro un addetto al punto vendita.
La difesa di COGNOME Grazia articolava due motivi di doglianza.
Con il primo motivo deduceva erronea applicazione dell’art. 597, n. 5), cod. proc. pen. in relazione alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, osservando che la Corte d’Appello non aveva considerato che la ricorrente era gravata da un unico precedente penale in relazione a un reato ormai estinto ex art. 460, comma 5, cod. proc. pen., e che il detto beneficio era stato, invece, concesso alla coimputata NOMECOGNOME nonostante quest’ultima fosse gravata da numerosi precedenti penali.
Con il secondo motivo deduceva erronea applicazione della legge penale e illogicità della motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto, considerato che non era stato provato che la ricorrente, che al momento del fatto si trovava fuori dai locali del supermercato, fosse consapevole del furto che era stato commesso all’interno dei detti locali.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto nell’interesse della COGNOME è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Si deve, invero, osservare che correttamente la Corte territoriale ha qualificato il fatto a titolo di rapina impropria, e non di furto aggravato, per avere ritenuto sussistenti tutti gli elementi del reato di cui all’art. 628, commi 1 e 3, n. 1), ultima parte, e 3bis) cod. pen., e in particolare l’elemento della
minaccia, nella specie verbale, nei confronti del responsabile del supermercato teatro del delitto.
A fronte dell’osservazione della difesa secondo la quale la COGNOME non aveva esercitato alcuna violenza o minaccia nei confronti degli addetti al supermercato, successivamente alla perpretazione della condotta furtiva, e neppure aveva agito in concorso con la coimputata COGNOME che aveva inveito contro un addetto al punto vendita, la Corte territoriale ha richiamato la testimonianza della responsabile del punto vendita, che aveva affermato che all’arrivo delle forze dell’ordine la COGNOME era entrata nel supermercato creando scompiglio, in tal modo consentendo alla COGNOME e a una complice non identificata di allontanarsi, e pronunciando nei confronti di un dipendente del punto vendita la frase minacciosa riportata nell’imputazione.
Da tale testimonianza la Corte di merito ha tratto conseguenze del tutto logiche, ritenendo che la condotta della COGNOME “era evidentemente finalizzata ad assicurare alle altre due donne il possesso della refurtiva e, quanto alle minacce immediatamente successive, di impedire al COGNOME di denunciarle e, eventualmente, di effettuarne il riconoscimento … il descritto concatenarsi delle condotte smentisce la rappresentazione delle minacce alla stregua di reazione verbale svincolata dall’atto preda tono della COGNOME e conferma la ritenuta qualificazione giuridica delle due azioni delittuose come rapina impropria”.
Il primo motivo dedotto per la COGNOME è manifestamente infondato e pertanto inammissibile, dovendosi considerare che, in tema di giudizio di appello, COGNOME il COGNOME giudice COGNOME non GLYPH è GLYPH tenuto GLYPH a GLYPH concedere GLYPH d’ufficio la sospensione condizionale della pena, né a motivare sul punto, nel caso in cui, nell’atto di impugnazione e in sede di discussione, siano stati genericamente richiamati i “benefici di legge”, omettendo l’indicazione di alcun elemento di fatto idoneo a giustificare l’accoglimento della richiesta (v. in tal senso Sez. 1, n. 44188 del 20/09/2023, T. Rv. 285413 – 01).
Nel caso di specie la ricorrente non ha avanzato, né con l’atto di appello né nel corso del giudizio di gravame, richiesta di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena; di qui la manifesta infondatezza del motivo.
Il secondo motivo dedotto nell’interesse della COGNOME è manifestamente infondato per le medesime ragioni illustrate in sede di trattazione del ricorso proposto per la COGNOME.
4. Alla stregua di tali rilievi i ricorsi devono, dunque, essere dichiarati inammissibili; le ricorrenti devono, pertanto, essere condannate, ai sensi
dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno
2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che le ricorrenti versino, ciascuna, la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle
ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 16/05/2025