Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 9477 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 9477 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME nato in Romania il 21/12/1973, contro la sentenza della Corte d’appello di Bologna del 16/04/2024;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’appello di Bologna ha confermato la sentenza con cui, in data 17/07/2020, il GIP del Tribunale di Ravenna aveva riconosciuto NOME COGNOME responsabile del delitto di rapina impropria e, ritenuta l’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen. stimata prevalente rispetto alla recidiva, l’aveva condannato alla pena, così ridotta per la scelta del rito premiale, di anni 2, mesi 2 e giorni 20 di reclusione ed euro 533,33 di multa oltre al pagamento delle spese processuali;
ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo del difensore di fiducia che deduce:
2.1 violazione di legge con riguardo alla mancata riqualificazione del fatto in furto: ripercorre la vicenda sottolineando, per un verso, come l’occultamento dei beni sottratti sia una modalità del tutto ordinaria di consumazione del furto non integrante il mezzo fraudolento mentre, nel caso in esame, la contestazione in termini di rapina impropria è stata fondata sulla condotta del ricorrente successiva all’impossessamento e che non si è risolta in un atteggiamento minaccioso;
2.2 violazione di legge in considerazione della sentenza n. 86 del 2024 della Corte Costituzionale: rileva come la vicenda in esame presenti tutti i presupposti fattuali per essere ricondotta nella ipotesi “lieve” frutto dalla declaratoria d illegittimità costituzionale intervenuta con la sentenza n. 86 del 2024;
2.3 vizio di motivazione quanto alla omessa applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.: ribadisce la assoluta esiguità del profit patrimoniale e l’assenza di prova sulle minacce, circostanze che avrebbero consentito di applicare la causa di non punibilità;
2.4 vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche: segnala come, nel caso di specie, plurimi fossero gli elementi in grado di giustificare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, a partire dal comportamento processuale dell’imputato, di piena ammissione della propria responsabilità e, ancora, il modestissimo profitto patrimoniale;
2.5 vizio di motivazione sul trattamento sanzionatorio: segnala come la vicenda non meritasse una risposta sanzionatoria quale quella cui era pervenuto il GUP con decisione confermata in appello;
la Procura Generale ha concluso per iscritto per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché articolato su censure manifestamente infondate o, comunque, generiche.
NOME COGNOME era stato tratto a giudizio e riconosciuto responsabile, nei due gradi di merito, all’esito di un conforme apprezzamento delle medesime emergenze istruttorie, del delitto di rapina impropria in quanto, dopo essersi introdotto all’interno dell’esercizio commerciale RAGIONE_SOCIALE di INDIRIZZO in Ravenna, si era impossessato – strappandone le relative etichette – di un pantalone e di una maglietta per il valore complessivo di euro 23,98, per poi allontanarsi in direzione della propria autovettura nei cui pressi era stato raggiunto dall’addetto alla vigilanza NOME COGNOME e dalla responsabile dell’esercizio commerciale ed avendo usato violenza nei confronti del primo che spintonava violentemente riuscendo in tal modo ad allontanarsi.
1. Il primo motivo del ricorso è aspecifico.
Correttamente, infatti, a Corte d’appello ha replicato alle censure difensive formulate con il gravame di merito rilevando come esse fossero francamente “disconnesse” rispetto alla vicenda in esame riferendosi, in particolare, al profilo dell’occultamento della merce, alla pure dedotta “imprevedibilità” dell’intervento del COGNOME ed alla violenza quale atto “prodromico” alla fuga, elementi del tutto distonici rispetto alla ancora in questa sede invocata riqualificazione del fatto in termini di furto.
Come è noto, infatti, quel che rileva, ai fini della configurabilità del delitt di rapina (impropria) è il nesso funzionale tra la violenza esercitata e la finalità perseguita, di mantenere il possesso di quanto sottratto ovvero di garantirsi l’impunità e che, nel caso di specie, la ricostruzione dell’episodio come restituita dalla lettura delle due sentenze di merito non può evidentemente essere messo in discussione.
Per altro verso, è pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio per cui la violenza necessaria ad integrare il reato di cui all’art. 628 cod. pen. è costituita da ogni energia fisica adoperata dall’agente verso la persona offesa al fine di annullarne o limitarne la capacità di autodeterminazione, potendo consistere in una “vis corporis corporí data”, ossia in una condotta posta in essere esclusivamente con la forza fisica dell’agente e senza l’aiuto di strumenti materiali, o in una energia esercitata con qualsiasi utensile adatto allo scopo (cfr., in tal senso, ad esempio, Sez. 2, n. 14901 del 19/03/2015, COGNOME, Rv. 263307 01; conf., Sez. 2, n. 3366 del 18/12/2012, dep. 23/01/2013, Rv. 255199 – 01, in cui la Corte ha ribadito che la violenza necessaria per l’elemento materiale della
rapina può consistere anche in una spinta o in un semplice urto in danno della vittima, finalizzati a realizzare o, per la rapina impropria, ad assicurarsi l’impossessamento della cosa).
Il secondo motivo è generico.
2.1 Non rileva qui il problema della rilevabilità d’ufficio della questione (cfr., sul punto, Sez. 2 – , n. 4365 del 15/12/2023, dep. 01/02/2024, C. Rv. 285862 01, in cui la Corte ha affermato che nel giudizio di cassazione, è rilevabile d’ufficio, anche in caso di inammissibilità del ricorso, la nullità della sentenza impugnata nella parte relativa al trattamento sanzionatorio, conseguente alla sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale di norma riguardante la determinazione della pena, annullando con rinvio la decisione impugnata e ha rimesso al giudice di merito la quantificazione della pena, in ragione della sopravvenuta declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 629 cod. pen., nella parte in cui non è previsto che la sanzione comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando, per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità ai se dell’art. 311 cod. pen.; conf., Sez. 2 – , n. 19938 del 15/05/2024, COGNOME Rv. 286432 – 01).
Nel caso di specie, infatti, l’atto d’appello risale all’ottobre del 2020 ed i giudizio d’appello si era celebrato il 16.4.2024 mentre la sentenza della Corte Costituzionale è intervenuta il giorno 13.5.2024 con pubblicazione sulla G.U. del 15.5.2024); è pertanto evidente che la difesa non poteva sollevare la questione prima della formulazione dei motivi di ricorso per cassazione che ha rappresentato la prima occasione utile per prospettarla.
2.2 Come è noto, con la sentenza n. 86 del 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale “… nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”.
La sentenza n. 86 del 2024, sul solco della sentenza n. 120 del 2023, ha fatto presente che “in presenza di una fattispecie astratta connotata … da intrinseca variabilità atteso il carattere multiforme degli elementi costitutiv violenza o minaccia, cosa sottratta, possesso, impunità, e tuttavia assoggettata a un minimo edittale di rilevante entità, il fatto che non sia prevista la possibilità pe il giudice di qualificare il fatto reato come di lieve entità in relazione alla natu alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione, ovvero alla particolare
tenuità del danno o del pericolo, determina la violazione, ad un tempo, del primo e del terzo comma dell’art. 27 Cost.”.
I giudici delle leggi hanno spiegato, infatti, che “la ratio decidendi della sentenza n. 120 del 2023 vale anche per la rapina …” atteso che “… la descrizione tipica operata dall’art. 628 cod. pen. evidenzia una latitudine oggettiva e una varietà di condotte materiali non meno ampia di quella del delitto di estorsione, poiché, anche nella rapina, la violenza o minaccia può essere di modesta portata e l’utilità perseguita, ovvero il danno cagionato, di valore infimo”; hanno considerato emblematico “… il caso di cui deve giudicare il rimettente, nel quale la sottrazione è stata relativa a pochi generi di consumo, del prezzo di qualche euro appena, e la violenza o minaccia si è esaurita in frasi scarsamente intimidatorie e in una spinta data per divincolarsi” osservando che “… in simili fattispecie, per la rapina come per l’estorsione, il minimo edittale di notevole asprezza, introdotto per contenere fenomeni criminali seriamente lesivi della persona e del patrimonio, eccede lo scopo, determinando l’irrogazione di una pena irragionevole, sproporzionata e quindi inidonea alla rieducazione”.
A conferma della assimilabilità, sotto il profilo della congruità della risposta sanzionatoria, della fattispecie della rapina a quella dell’estorsione, la Corte Costituzionale ha richiamato la sentenza n. 141 del 2023, resa in una fattispecie concreta “… di incerta sussunzione tra i paradigmi …” ed in cui aveva osservato che la formulazione delle norme incriminatrici “… fa sì che essi si prestino ad abbracciare anche condotte di modesto disvalore: non solo con riferimento all’entità del danno patrimoniale cagionato alla vittima, che può anche ammontare (come nel caso oggetto del giudizio a quo) a pochi euro” ma anche “… con riferimento alle modalità della condotta, che può esaurirsi in forme nninimali di violenza” (come, nel caso di specie, una lieve spinta), ovvero “… nella mera prospettazione verbale di un male ingiusto, senza uso di armi o di altro mezzo di coazione, che tuttavia già integra la modalità alternativa di condotta costituita dalla minaccia …” rispetto alle quali “… la disciplina vigente impone una pena minima di cinque anni di reclusione: una pena che risulterebbe, però, manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva dei fatti medesimi – anche in rapporto alle pene previste per la generalità dei reati contro la persona -, se l’ordinamento non prevedesse meccanismi per attenuare la risposta sanzionatoria nei casi meno gravi”.
La Corte Costituzionale ha infine evocato il principio di individualizzazione della pena e la sua finalità rieducativa giudicando perciò illegittima una disciplina, quale quella contemplata nel capoverso dell’art. 628 cod. pen. per la rapina “impropria” che, caratterizzata negli anni da plurimi interventi ispirati ad un
progressivo inasprimento sanzionatorio, non contempla tuttavia una sorta di “valvola di sicurezza che consenta al giudice di moderare la pena, onde adeguarla alla gravità concreta del fatto estorsivo”, in grado di evitare che si pervenga alla “… irrogazione di una sanzione non proporzionata ogni qual volta il fatto medesimo si presenti totalmente immune dai profili di allarme sociale che hanno indotto il legislatore a stabilire per questo titolo di reato un minimo edittale di notevole asprezza”.
In particolare, ha osservato che “… il fatto che non sia prevista la possibilità per il giudice di qualificare il fatto reato come di lieve entità in relazione alla natur alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione, ovvero alla particolare tenuità del danno o del pericolo, determina la violazione, ad un tempo, del primo e del terzo comma dell’art. 27 Cost.”; ha dichiarato dunque “… l’illegittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lie entità”.
Per altro verso, la Corte Costituzionale ha precisato che “… gli indici dell’attenuante di lieve entità del fatto – estemporaneità della condotta, scarsità dell’offesa personale alla vittima, esiguità del valore sottratto, assenza di profili organizzativi – garantiscono che la riduzione della pena sia riservata alle ipotesi di lesività davvero minima, per una condotta che pur sempre incide sulla libertà di autodeterminazione della persona” pervenendo, infine, ad estendere la portata della decisione, in via consequenziale, e sulla base delle medesime premesse e delle stesse considerazioni, anche all’ipotesi della rapina propria.
Il ventaglio delle situazioni suscettibili di essere prese in esame e valutate per ritenere (o escludere) la lieve entità del fatto è effettivamente ampio e multiforme riguardando aspetti sia di natura oggettiva che di natura soggettiva; ed è proprio alla luce dell’ampio spettro di situazioni valutabili ai fini de riconoscimento della “lieve entità” del fatto che va affrontato il problema della compatibilità – sul piano della motivazione – della ipotesi “lieve” con la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen..
Va richiamato, a tal proposito, il principio, costantemente ribadito da questa Corte in innumerevoli decisioni, secondo cui la circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, presuppone necessariamente che il pregiudizio cagionato sia lievissimo, ossia di valore economico pressoché irrisorio, avendo riguardo non solo al valore in sé della cosa sottratta, ma anche agli ulteriori effetti
pregiudizievoli che la persona offesa abbia subìto in conseguenza del reato, senza che rilevi, invece, la capacità del soggetto passivo di sopportare il danno economico derivante dal reato (cfr., tra le tante, Sez. 2, n. 28269 del 31/05/2023, Conte, Rv. 284868 – 01; Sez. 2, n. 5049 del 22/12/2020, dep 2021, COGNOME, Rv. 280615-01; Sez. 4, n. 6635 del 19/01/2017, COGNOME, Rv. 269241-01; Sez. 5, n. 24003 del 14/01/2014, COGNOME, Rv. 260201 – 01); si è affermato, con riguardo al delitto di rapina, che non è sufficiente che il bene mobile sottratto sia di modestissimo valore economico, ma occorre valutare anche gli effetti dannosi connessi alla lesione della persona contro la quale è stata esercitata la violenza o la minaccia, attesa la natura plurioffensiva del delitto, il quale lede non solo il patrimonio, ma anche la libertà e l’integrità fisica e morale della persona aggredita per la realizzazione del profitto; consegue che, solo ove la valutazione complessiva del pregiudizio sia di speciale tenuità può farsi luogo all’applicazione dell’attenuante, sulla base di un apprezzamento riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se immune da vizi logico-giuridici (cfr., Sez. 2, n. 50987 del 17/12/2015, COGNOME, Rv. 265685-01; Sez. 2, n. 19308 del 20/01/2010, COGNOME, Rv. 247363- 01).
Il tratto comune a queste decisioni è quello di ritenere applicabile l’attenuante prevista dal n. 4 dell’art. 62 cod. pen. nel caso di “speciale tenuità” del danno, va inteso non soltanto come danno direttamente incidente sul patrimonio della vittima ma anche con riguardo agli ulteriori riflessi sulla persona offesa.
L’attenuante comune, insomma, afferisce al profilo della offesa al bene tutelato che, pertanto, nei delitti c.d. “plurioffensivi”, deve essere di “special tenuità” sotto ogni aspetto, ovvero con riguardo ad ogni aspetto di possibile pregiudizio arrecato alla vittima.
Dal canto suo, l’attenuante introdotta dalla sentenza della Corte Costituzionale tiene conto di uno spettro diverso di situazioni avendo riguardo, come già accennato, alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione sia, in alternativa (“ovvero”), alla “… particolare tenuità del danno o de pericolo”.
Si tratta di aspetti distinti e non coincidenti tanto che, a ben guardare, il legislatore ha inteso differenziare proprio dettando i criteri di valutazione per giungere ad individuare la corretta risposta sanzionatoria alla condotta penalmente rilevante: l’art. 133 cod. pen., stabilisce, infatti, che, nel parametrare la pena, il giudice deve tener conto della “gravità” del reato desunta sia “… 1) dalla
natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione” che, tra gli altri, “… 2) dalla gravità del danno o del perico cagionato alla persona offesa dal reato…”.
Proprio la non coincidenza tra questi due profili comporta che un fatto possa aver cagionato un danno (astrattamente qualificabile come) di speciale tenuità (e, si ribadisce, non soltanto sotto il profilo esclusivamente patrimoniale ma sotto tutti i possibili aspetti di “lesività” della condotta) ma, nello stesso tempo, possa assumere un diverso rilievo sotto altri profili come, per l’appunto, quelli che concernono “… la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione …”, espressione che, si badi, utilizzata nelle sentenze della Corte Costituzionale (la n. 68 del 2012, alla n. 120 del 2023 sino alla n. 86 del 2024), risulta pressoché integralmente coincidente il disposto di cui al n. 2) del comma primo dell’art. 133 cod. pen..
Laddove, come nel caso di specie, sia stata riconosciuta la attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen., l’attenuante “costituzionale” della “lieve entità d fatto” potrebbe essere riconosciuta se, oltre agli aspetti già considerati ai fini della attenuante comune, fossero rinvenibili anche quelli concernenti “… la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione …”consentano di apprezzare il fatto, nel suo complesso (ovvero a prescindere dal danno o dal pericolo cagionato) come “di lieve entità”; viceversa, la attenuante “costituzionale” dovrebbe essere esclusa, anche in caso di riconoscimento della attenuante di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen., qualora gli ulteriori profili sopra richiamati n consentano una valutazione complessiva di “lieve entità” del fatto.
2.4 Proprio l’astratta compatibilità tra le due attenuanti impone, tuttavia, alla difesa che ne invochi la coesistenza, di specificare se, ed in che misura, il riconoscimento di quella di cui all’art. 62 n. 4 cod. pen. abbia avuto riguardo solo ad alcuni aspetti della “lieve entità” del fatto consentendo, perciò, il riconoscimento di quella coniata dai giudici delle leggi: per giungere a questo risultato, tuttavia, è necessario che la difesa alleghi la sussistenza, nel caso di specie, di elementi di valutazione “ulteriori” rispetto a quelli che fossero già stati considerati ai fi dell’attenuante comune.
Da questo punto di vista, allora, non può non rilevarsi la genericità del motivo di ricorso che si limita, a ben guardare, ad invocare l’applicazione dell’attenuante introdotta dalla sentenza della Corte Costituzionale senza in alcun modo indicare, se non altro sul piano dell’allegazione, gli elementi su cui essa dovrebbe fondarsi.
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Al di là di ogni altra considerazione, infatti, è sufficiente rilevare che l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. era evidentemente preclusa dalla pena edittale prevista per il delitto per il quale è stata riconosciuta la responsabilità del ricorrente.
Manifestamente infondato è, infine, il quarto motivo.
Correttamente la Corte di Appello ha escluso di poter fondare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche sulla scelta dell’imputato per il rito abbreviato conformandosi, in tal modo, alla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui è illegittima la concessione delle circostanze attenuanti generiche se motivata dalla scelta dell’imputato di accedere al giudizio abbreviato, atteso che la valutazione premiale di tale scelta è già posta a fondamento del riconoscimento della diminuzione di pena prevista per il rito alternativo (cfr., Sez. 3, n. 46463 del 17/09/2019, COGNOME, Rv. 277271 01; Sez. 2, n. 24312 del 25/03/2014, Diana, Rv. 260012 01; Sez. 4, n. 6220 del 19/12/2008, dep. 2009, COGNOME, Rv. 242861 – 01).
L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della somma – che si stima equa – di euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende, non essendo ravvisabile motivo alcuno d’esonero.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 21.1.2025