Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 7959 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2   Num. 7959  Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 09/01/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME, nato a Cerignola il DATA_NASCITA COGNOME, nato a Cerignola il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a Cerignola il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 09/05/2023 della Corte d’appello di L’Aquila visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME, la quale ha concluso chiedendo che i ricorsi siano dichiarati inammissibili;
udito l’AVV_NOTAIO, in difesa di COGNOME NOME e di COGNOME NOME, il quale, dopo la discussione, ha chiesto l’accoglimento dei ricorsi;
udito l’AVV_NOTAIO, in difesa di NOME NOME, il quale, dopo la discussione, si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 09/05/2023, la Corte d’appello di L’Aquila confermava la sentenza del 12/01/2023 del G.u.p. del Tribunale di Teramo, emessa in esito a giudizio abbreviato, di condanna di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME
COGNOME alla pena, rispettivamente, di sei anni di reclusione ed C 3.000,00 di multa l’COGNOME e di cinque anni e otto mesi di reclusione ed C 2.400,00 di multa il COGNOME e il COGNOME per i reati, commessi in concorso tra loro e unificati dal vincolo della continuazione, di: a) rapina pluriaggravata (dall’essere stata la violenza e minaccia commessa con armi, da persone travisate e da più persone riunite, oltre che dall’essere la violenza consistita nel porre la dipendente NOME COGNOME in stato d’incapacità di agire) (capo A dell’imputazione); b) furto pluriaggravato (dall’avere usato violenza sulle cose, dall’avere commesso il fatto in tre persone e su cosa esposta alla pubblica fede, nonché dal nesso teleologico) di un’autovettura (capo B dell’imputazione); c) lesioni personali pluriaggravate (dall’avere commesso il fatto con uno strumento atto a offendere, travisati e in più persone riunite) (capo C dell’imputazione).
 Avverso l’indicata sentenza del 09/05/2023 della Corte d’appello di L’Aquila, hanno proposto ricorsi per cassazione, per il tramite del proprio rispettivo difensore, NOME COGNOME e NOME COGNOME (con un unico atto) e NOME COGNOME (con un ulteriore atto).
I ricorsi di NOME COGNOME e di NOME COGNOME sono affidati a un unico motivo, con il quale i ricorrenti deducono l’erronea applicazione dell’art. 56 cod. pen. per non avere la Corte d’appello di L’Aquila ritenuto che la rapina di cui al capo A) dell’imputazione fosse tentata, e non consumata, nonché l’apparenza della motivazione della stessa Corte d’appello al riguardo.
I ricorrenti premettono che il capo A) dell’imputazione indicava, in modo asseritamente «ambigu», che gli imputati «si facevano consegnare, in attesa dell’apertura del caveau e dell’ATM ove erano custoditi, rispettivamente C 215.000,00 circa ed C 115.000,00 circa, C 7.600,00 in contanti».
Ciò premesso, i ricorrenti rappresentano che l’obiettivo dell’azione da essi programmata era costituito esclusivamente dall’impossessamento delle ingenti somme di denaro che erano contenute nel caveau e nell’ATM dell’ufficio postale come risultava chiaramente dalle sommarie informazioni che erano stare rese dalla direttrice dello stesso ufficio NOME COGNOME, dalle quali emergeva come la minaccia a essa rivolta fosse diretta a ottenere da lei il codice per aprire l’ATM e, poi, il caveau – mentre l’impossessamento della somma di C 7.600,00 in contanti era avvenuto come un’«azione eventuale e non programmata», finalizzata, in realtà, a ottenere che la COGNOME avesse le mani libere, per la ragione che la seconda porta del caveau si poteva aprire solo a seguito del riconoscimento delle sue impronte digitali, e dettata dal mero evolversi delle circostanze, segnatamente, dal fatto che proprio in quel momento la dipendente NOME COGNOME aveva consegnato alla COGNOME la busta che conteneva i 7.600,00 euro.
Tanto premesso e rappresentato, i ricorrenti sollevano il quesito se l’essersi essi impossessati della suddetta somma di C 7.600,00 come «azione eventuale e non programmata», mero «incipit del programma delittuoso», a fronte del fatto che la condotta effettivamente programmata, cioè l’impossessamento del denaro contenuto nel caveau e nell’ATM – che essi intendevano portare a termine pur dopo essersi impossessati dei 7.600,00 euro – non si era mai consumata per il sopravvenuto intervento della Polizia di Stato, possa integrare gli estremi della rapina consumata o meramente tentata.
Secondo i ricorrenti, i giudici di merito avrebbero erroneamente frazionato i vari atti di un’unica azione, cementata, sotto il profilo teleologico, dall’intenzione di sottrarre le somme che erano contenute nel caveau e nell’ATM, considerando un delitto autonomo l’impossessamento della somma di C 7.600,00, laddove tale impossessamento non avrebbe «una valenza giuridica a sé ma si inseri in un contesto spazio-temporale più articolato e complesso», del quale costituiva «una frazione eventuale dell’intera azione», la quale non potrebbe «avere una analisi atomistica, nel senso di sottoporre a verifica solo una parte dell’azione», ma dovrebbe essere considerata sotto l’aspetto finalistico».
I ricorrenti deducono anche che la motivazione della sentenza impugnata non consentirebbe di comprendere il percorso logico-giuridico che ha condotto la Corte d’appello di L’Aquila a confermare l’avvenuta consumazione della rapina, atteso anche che il richiamo, operato dalla stessa Corte d’appello, ai concetti di impossessamento e di potere di vigilanza e custodia della vittima non avrebbero «valore decisivo per comprendere il caso di specie», nel quale «la sottrazione delle 7.600 rappresentava l’inizio dell’azione criminosa programmata e interrotta dalle forze dell’ordine».
I ricorrenti deducono infine che la somma di C 7.600,00 era sì loro indosso ma essi non ne «potevano disporre autonomamente in quanto l’azione non era stata portata a termine e stazionavano ancora negli uffici delle RAGIONE_SOCIALE».
Il ricorso di NOME COGNOME è pure esso affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce anch’egli l’erronea applicazione dell’art. 56 cod. pen. per non avere la Corte d’appello di L’Aquila ritenuto che la rapina di cui al capo A) dell’imputazione fosse tentata, e non consumata, nonché l’apparenza della motivazione della stessa Corte d’appello al riguardo.
Il ricorrente prospetta in proposito argomentazioni letteralmente identiche a quelle prospettate nei ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi dei ricorsi – i quali, atteso che quello del ricorso di NOME prospetta argomentazioni letteralmente identiche a quelle prospettate nei ricorsi
di NOME COGNOME e NOME COGNOME, possono essere esaminati congiuntamente – sono manifestamente infondati.
Il Collegio ritiene anzitutto che la rapina della somma di C 7.600,00 si debba ritenere senz’altro consumata, così come correttamente reputato dalle conformi sentenze dei giudici di merito.
Infatti, il fatto che lo specifico obiettivo iniziale dell’azione degli imputa potesse essere costituito dall’impossessamento delle somme che erano contenute nel caveau e nell’ATM dell’ufficio postale non esclude che, con una risoluzione estemporanea, insorta in ragione dell’evolversi dell’azione – segnatamente, del fatto che, nel corso di essa, la direttrice dell’ufficio postale si era trovata a detenere una busta contenente la somma di C 7.600,00 – gli stessi imputati si siano determinati a impossessarsi, dietro minaccia, di tale somma e ne abbiano effettivamente acquisito l’autonoma disponibilità, così consumando il delitto di rapina della stessa somma.
Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, infatti, il delitto di rapina si consuma nel momento in cui la cosa sottratta cade nel dominio esclusivo del soggetto agente, anche se per breve tempo e nello stesso luogo in cui si è verificata la sottrazione, e pur se, subito dopo il breve impossessamento, il soggetto agente sia costretto ad abbandonare la cosa sottratta per l’intervento dell’avente diritto o della forza pubblica (Sez. 2, n. 14305 del 14/03/2017, Moretti, Rv. 269848-01; Sez. 2, n. 5512 del 22/10/2013, dep. 2014, Barbato, Rv. 25820701, relativa a una fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto consumata la rapina in banca commessa dall’imputato che, dopo essersi impossessato del denaro, veniva bloccato all’interno dell’istituto dal sistema girevole di accesso e successivamente immobilizzato da una guardia giurata).
Nel caso in esame, non appare dubbio che gli imputati si fossero impossessati della somma di C 7.600,00, acquisendone l’autonoma disponibilità, atteso che, dalle conformi sentenze dei giudici di merito, risulta che gli stessi, dopo avere spintonato la COGNOME, le avevano sottratto la busta contenente il suddetto denaro e che il COGNOME e il COGNOME erano stati trovati dagli agenti della Polizia di Stato in possesso del medesimo denaro dopo che erano ormai usciti dall’ufficio postale.
2. Pertanto i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna COGNOME ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 09/01/2024.