Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 33725 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 33725 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a EMPOLI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 08/07/2024 della CORTE di APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo l’annullamento del provvedimento impugNOME con rinvio alla Corte d’Appello di Firenze limitatamente al trattamento sanzioNOMErio; udito l’AVV_NOTAIO COGNOME, per il COGNOME, che ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 8 luglio 2024 la Corte d’Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza emessa in data 11 novembre 2020 dal Tribunale di Firenze, per quel che qui interessa dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato COGNOME NOME in relazione ai reati di lesione personale e calunnia contestati ai capi a) e c) dell’imputazione perché estinti per intervenuta prescrizione e rideterminava la pena in relazione al residuo
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reato di rapina aggravata in concorso di cui al capo b), contestato al COGNOME per essersi impossessato, in concorso con COGNOME NOME, del telefono cellulare di NOME mediante violenza consistita nell’avere cagioNOME alla parte offesa reiterate lesioni e nell’averla immobilizzata e colpita alla mano.
Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, chiedendone l’annullamento e articolando due motivi di doglianza.
Con il primo motivo deduceva erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al giudizio di responsabilità e alla mancata derubricazione del fatto nel reato di violenza privata di cui all’art. 610 cod. pen.
Assumeva che la Corte territoriale non aveva affrontato le censure prospettate dalla difesa e aveva reso argomentazioni palesemente illogiche e contraddittorie con riferimento alla dedotta impossibilità oggettiva di ricostruire la dinamica dei fatti alla luce della contraddittorietà delle dichiarazioni rese dall persone offese NOME COGNOME e NOME COGNOME, quest’ultimo, secondo la prospettazione accusatoria, pure fatto oggetto di aggressione fisica nel medesimo contesto, considerato che il NOME, nel corso del procedimento, aveva reso in relazione all’aggressione subita ben tre versioni fra loro differenti quanto al nucleo essenziale dei fatti, versioni che la Corte d’Appello aveva posto a base della statuizione di condanna considerando il “significato complessivo delle dichiarazioni rese”, il medesimo significato che, contraddittoriamente, aveva anche ritenuto, in uno alla considerazione della “concitazione del momento”, giustificativo della diversa statuizione, in senso assolutorio, emessa nei confronti del coimputato COGNOME NOME.
Deduceva che la deposizione del teste COGNOME NOME, utilizzata dalla Corte territoriale quale riscontro alle dichiarazioni accusatorie delle parti offese, er inattendibile, sia perché il COGNOME nutriva ragioni di forte risentimento ne confronti del COGNOME, sia perché lo stesso teste aveva palesemente mentito nel dichiarare di aver sottratto il server contenente le immagini dell’aggressione su incarico del COGNOME, laddove in realtà al momento del fatto il server non era attivo in quanto era stato inviato presso una ditta per essere riparato.
Assumeva inoltre che la deposizione del teste COGNOME, pure utilizzata dalla Corte territoriale quale riscontro in senso accusatorio, era sotto tale profilo inconcludente poiché il teste, per descrivere l’accaduto, aveva utilizzato il
termine “parapiglia”, indicativo della totale confusione che nell’occorso si era venuta a creare.
Quanto alle dichiarazioni rese dal coimputato COGNOME NOME la difesa deduceva che in relazione alla stesse non erano stati utilizzati i parametri di valutazione di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen.
Assumeva, infine, che non risultava dimostrato che il COGNOME avesse agito con il fine di sottrarre il telefono mobile alla parte offesa, piuttosto che con l’intenzione di indurre quest’ultima a cessare di riprendere con l’apparecchio cellulare l’aggressione che era in atto in danno di NOME COGNOME; prospettava, anche sotto tale profilo, la derubricazione del fatto nel reato di violenza privata.
Con il secondo motivo deduceva erronea applicazione degli artt. 192 cod. proc. pen. e 62, n. 6), cod. pen., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6) cod. pen., assumendo che la motivazione era illogica nella parte in cui, da un lato, aveva giustificato la concessione delle circostanze attenuanti generiche con l’avvenuto risarcimento del danno in favore di entrambe le persone offese e, dall’altro, aveva negato l’attenuante dell’avere prima del giudizio riparato interamente il danno in ragione della mancanza di ogni deduzione in ordine alla corrispondenza tra la transazione intervenuta con le parti offese e il danno dalle medesime patito, dovendosi anche considerare che queste ultime, per il tramite di un procuratore speciale, avevano dichiarato di essere state integralmente risarcite, che il telefono cellulare sottratto era di fascia economica e il fatto era caratterizzato da estemporaneità in quanto frutto di un litigio degenerato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
La Corte d’Appello, invero, ha reso una motivazione immune da vizi in relazione a tutti i profili evidenziati con il ricorso.
Quanto alla ricostruzione della dinamica dei fatti la Corte di merito ha dato conto in maniera puntuale di tutte le fonti di prova esaminate, traendo da esse conclusioni improntate a logica.
Ha, innanzitutto, evidenziato che, trattandosi di cosiddetta “doppia conforme” in relazione alla ritenuta responsabilità del ricorrente per il reato di
rapina aggravata in concorso di cui al capo b), doveva essere richiamata la “ampia ed esaustiva motivazione” resa dal giudice di primo grado.
Ha, in particolare, richiamato le dichiarazioni accusatorie della persona offesa NOME COGNOME, che, al pari del primo giudice, ha ritenuto attendibili, evidenziando come lo stesso avesse ricostruito la vicenda ricordando che il connazionale NOME era stato percosso dal COGNOME in quanto reo di avere, il giorno precedente, rovistato nella cucina del centro di accoglienza lasciando aperti cassetti e sportelli, ciò che aveva indotto il NOME a filmare con il proprio telefono cellulare l’aggressione, perpetrata anche mediante l’uso di un bastone, e precisando che a quel punto il COGNOME aveva rivolto la propria attenzione nei suoi confronti, aggredendolo e sottraendogli il telefono cellulare per far sì che smettesse di riprendere la scena.
La Corte ha dato conto anche dei molteplici riscontri alla versione dei fatti fornita dalla persona offesa, rinvenuti nelle dichiarazioni dei testi COGNOME e COGNOME, i quali avevano concordemente affermato che il COGNOME si era scagliato contro il COGNOME, munito di un bastone, per sottrargli il telefono cellulare, che gli era stato strappato di mano.
Quanto all’attendibilità del teste COGNOME, contestata dalla difesa, la Corte d’Appello ha opportunamente evidenziato che il fatto che il server relativo all’impianto di videoregistrazione allocato sui luoghi fosse stato inviato presso una ditta per essere riparato – e non, come affermato dal COGNOME, da questi sottratto su incarico del ricorrente per rendere indisponibili le immagini dell’aggressione – costituiva circostanza risultante dalle mere dichiarazioni del COGNOME.
In relazione al fatto, dedotto in ricorso, che il COGNOME avesse agito al solo fine di far desistere il COGNOME dal ritrarre l’aggressione perpetrata nei confronti del proprio connazionale, la Corte territoriale ha correttamente argomentato osservando che la persona offesa aveva perso il controllo del proprio telefono cellulare, che era stato sottratto dall’imputato, circostanza che, a prescindere dallo scopo perseguito dall’agente, era idonea ad integrare il reato di rapina (cfr. Sez. 2, n. 16819 del 26/02/2019, Simone Rv. 276052 – 01, secondo cui è configurabile il delitto di rapina, e non quello di violenza privata, quando la persona offesa sia costretta, con violenza o minaccia, a consegnare un proprio bene, anche per un uso meramente momentaneo, e ne perda il controllo durante l’utilizzo da parte dell’agente, il quale, in tal modo, consegue l’autonoma disponibilità della cosa).
Rendendo le argomentazioni fin qui richiamate la Corte territoriale si è espressamente confrontata con le fondamentali deduzioni difensive e l’omessa specifica valutazione degli altri dati richiamati nel ricorso non configura il vizio denunciato: va ribadito, infatti, che il giudice di appello, in presenza di una “doppia conforme” (è il caso di specie), nella motivazione della sentenza, non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, egli spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr., Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Cammi, Rv. 277593; Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C., Rv. 275853; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260841; di recente v. Sez. 2, n. 31920 del 04/06/2021, Alampi, Rv. 281811, non mass. sul punto).
Inoltre, la presenza di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nel provvedimento impugNOME, laddove le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non può comportare l’annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso essere rilevante solo quando, per effetto di tale critica, all’esito di una verifica sull completezza e globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione (cfr., Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227; Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 267723; Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, COGNOME, Rv. 253445). Neppure la mancata enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, co riguardo all’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione, determina la nullità della sentenza d’appello per mancanza di motivazione, se tali prove non risultano decisive e se il vaglio sulla loro attendibilità possa comunque essere ricavato per relationem dalla lettura della motivazione (cfr., Sez. 3, n. 8065 del 21/09/2018, dep. 2019, C., Rv. 275853; da ultimo, cfr. Sez. 2, n. 26870 del 12/05/2022, Gioè, non mass.).
Anche il secondo motivo è manifestamente infondato e, pertanto, inammissibile.
La Corte d’Appello ha, invero, reso una motivazione immune da vizi anche in relazione al diniego della invocata circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6), cod. pen., dando conto in maniera adeguata delle ragioni della mancata concessione della detta attenuante, anche in relazione alle concesse circostanze attenuanti generiche, osservando che, pur avendo l’imputato provveduto a risarcire il danno (comportamento posto a fondamento della concessione delle circostanze attenuanti generiche), non vi era prova del fatto che tale risarcimento fosse integrale ed effettivo, ciò che costituiva il presupposto per l’applicazione dell’invocata circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6), cod. pen.
Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile; il ricorrente deve, pertanto, essere condanNOME, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in ammende. favore della cassa delle
Così deciso il 24/06/2025