Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 25363 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 25363 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 27/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME (CUI CODICE_FISCALE) nato in Marocco il 14/01/2003
avverso l’ordinanza del 28/02/2025 del GIP TRIBUNALE di RIMINI udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rimini ha convalidato l’arresto del ricorrente operato dalla polizia giudiziaria in relazione ai reati di rapina aggravata e uso indebito di carta di credito, contestualmente applicando la misura della custodia cautelare in carcere.
Ricorre per cassazione NOME COGNOME deducendo, con unico motivo, nullità dell’ordinanza impugnata per violazione dell’art. 382 cod. proc. pen., essendo stato erroneamente ritenuto dal Giudice per le indagini preliminari lo stato di quasi flagranza del reato necessario per procedere all’arresto del ricorrente, non essendo stato egli inseguito dalla polizia, che lo aveva notato in un luogo distante
oltre un chilometro da quello ove era stata commessa la rapina, a seguito di ricerche scaturenti solo dalle dichiarazioni della vittima e di terzi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché proposto in carenza di interesse oltre che con motivo manifestamente infondato.
1.Premesso che il ricorso si rivolge soltanto a censurare l’ordinanza di convalida dell’arresto e non il successivo provvedimento con il quale era stata applicata al ricorrente la misura cautelare, deve ricordarsi che è inammissibile per difetto di interesse il ricorso dell’indagato avverso l’ordinanza di convalida dell’arresto in flagranza. Tale ordinanza, invero, come risulta dalle disposizioni contenute nell’art. 391 cod. proc. pen. non si configura come un formale ed autonomo titolo di detenzione, rendendosi necessaria per il permanere dello stato di custodia l’emissione di un ulteriore provvedimento di riesame di una specifica misura cautelare secondo i canoni generali di cui agli artt. 273, 274 e 279 dello stesso codice; resta, pertanto, escluso l’inquadramento dell’ordinanza di convalida nella categoria degli atti tipici destinati a dare inizio alla custodia cautelare. La dimensione del detto provvedimento è, quindi, circoscritta nell’ambito del controllo sulla legittimità dell’operato della polizia giudiziaria nei suoi aspett relativi alla situazione di flagranza ex art. 382 cod. proc. pen. e delle altre condizioni che disciplinano l’arresto obbligatorio o facoltativo a norma degli artt. 380 e 381 dello stesso codice. Ne consegue che l’impugnazione avverso il provvedimento di custodia, che è il solo a regolare la posizione giuridica dell’indagato in ordine alla sua libertà personale ed è dotato di una propria autonomia, e non già quella avverso l’ordinanza di convalida, viene a costituire la sede idonea per l’esame della ricorrenza o meno di gravi indizi di colpevolezza e della necessità o meno della misura cautelare nelle sue varie forme. (Sez. 1, n. 1087 del 09/03/1992, COGNOME, Rv. 191157-01). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
In ogni caso, il motivo di ricorso è anche manifestamente infondato.
In tema di convalida dell’arresto, ricorre lo stato di quasi-flagranza nel caso in cui l’indagato sia sorpreso dalla polizia giudiziaria con cose e tracce inequivocamente rivelatrici della recentissima commissione del delitto. (Sez. 6, n. 25331 del 19/05/2021, P., Rv. 281749-01).
Nel caso in esame, il ricorrente, pochi minuti dopo la commissione del delitto, era stato trovato dalla polizia giudiziaria nel possesso di beni sottratti alla persona offesa, quali la tessera sanitaria ed uno scontrino attestante l’utilizzo della carta di credito della vittima avvenuto poco prima.
Ne consegue che il possesso di tali cose e tracce del reato appena commesso, integravano gli estremi della quasi flagranza, legittimando l’arresto del ricorrente.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila
alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter disp.att. cod. proc. pen..
Così deciso, il 27/05/2025.