Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 21938 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 21938 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 08/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME, nata a Villaricca il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 14/09/2023 della Corte d’appello di Napoli;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo che l’annullamento con rinvio della sentenza relativamente al capo a);
uditi gli AVV_NOTAIO NOME COGNOME, in sostituzione dell’AVV_NOTAIO COGNOME, e NOME COGNOME, in sostituzione dell’AVV_NOTAIO, i quali hanno concluso insistendo per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Ad NOME COGNOME era stato in origine contestato il delitto di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter; 321 cod. pen.) per aver, unitamente ad altre persone, corrotto, dietro pagamento di denaro, il pubblico ufficiale NOME COGNOME, in servizio quale ausiliario di cancelleria presso il Tribunale di sorveglianza di Napoli, perché sottraesse il fascicolo processuale a carico di NOME COGNOME (capo a), nonché il delitto di distruzione di atti pubblici (art. 490 cod. pen.), per ave distrutto, in concorso con altri, tale fascicolo, dandovi fuoco (capo b).
Il Tribunale di Napoli, previa riqualificazione del reato di cui al capo a), condannava NOME COGNOME per furto aggravato (artt. 110, 624, 625, n. 7; 61, n. 11, cod. pen.) e per distruzione di atti pubblici (art. 490 cod. pen.) (capo b).
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Napoli, accogliendo l’appello del Pubblico Ministero, riformava la sentenza di primo grado, riqualificando il reato del capo a) in corruzione propria (artt. 319, 320 cod. pen.) e condannava per tale reato l’imputata; confermava la condanna per distruzione di atti pubblici (art. 490 cod. pen.) di cui al capo b).
Ha presentato ricorso NOME COGNOME, per il tramite dell’AVV_NOTAIO, successivamente revocato, deducendo cinque motivi di ricorso.
4.1. Violazione della legge penale e motivazione illogica e contraddittoria in relazione alla fattispecie di corruzione propria; omessa motivazione sull’elemento soggettivo.
La Corte di appello non ha risposto alle deduzioni relative alla natura di supporto tecnico-manuale alle attività delle qualifiche superiori, delle mansioni svolte da NOME COGNOME, ausiliario di fascia A/2.
Il carattere meramente esecutivo di tali attività avrebbe dovuto precludere la qualificazione dell’COGNOME come pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio.
Vero è che la Corte di appello, nel ritenere che l’COGNOME, mero commesso, avesse la qualifica pubblicistica, ha fatto riferimento alla figura del «funzionario di fatto», precisando come, ai fini della sua sussistenza, le funzioni non devono essere state usurpate, perché occorre, al contrario, il consenso o, quantomeno, l’acquiescenza, della pubblica amministrazione e, cioè, un’investitura di fatto, lecita e non abusiva. Tuttavia, siffatti consenso o tolleranza non risultavano nel caso di specie, non potendo essere desunti – come invece ritenuto dalla Corte d’appello – dalla nota del superiore gerarchico dell’COGNOME, dalla quale si evince:
che questi si occupava dello scarico della stampa e della distribuzione della posta in arrivo sulle caselle di posta elettronica ordinaria, della ricerca ed archiviazione dei fascicoli, dello smistamento dei fascicoli in transito dalla segreteria amministrativa alle cancellerie; che, in via occasionale, a maggio 2017, aveva sostituito e/o supportato colleghi addetti all’RAGIONE_SOCIALE Informazione; che dal mese di luglio 2017 era stato inserito, insieme ad altri dipendenti, nella turnazione per lo svolgimento dello scarico e distribuzione della posta elettronica del ruolo generale e di una sezione dell’ufficio giudiziario dove lavorava.
Le mansioni dell’COGNOME – sia quelle svolte in via ordinaria, sia quelle attribuite per sopperire alla carenza di organico – ricalcano, infatti, in modo pedissequo i compiti assegnati in via ordinamentale al profilo professionale della qualifica funzionale che ricopriva (ausiliario di Cancelleria A/2) e non sono in alcun modo riconducibili alla nozione di pubblico ufficio o di pubblico servizio, avendo natura meramente esecutiva.
Comunque, i fatti in contestazione risultano compiuti a fine febbraio/inizio marzo 2017 e, quindi, prima che ad COGNOME fosse assegnato in via temporanea lo svolgimento delle presunte mansioni ulteriori rispetto a quelle ordinarie, presso uffici diversi da quello di stabile assegnazione.
Per il resto, il ragionamento della Corte d’appello sarebbe meramente congetturale, fondandosi su elementi vaghi e generici.
Né sarebbe corretto inferire dall’appropriazione del fascicolo del COGNOME da parte dell’COGNOME la dimostrazione che questi rivestisse un ruolo idoneo ad incidere sull’esercizio della funzione giurisdizionale, essendosi, piuttosto, trattato di un’azione proditoria e furtiva, commessa alla stregua di un comune cittadino il quale, avvalendosi di un espediente, fosse entrato nell’ufficio ed avesse sottratto con scaltrezza un incartamento.
Manca, specularmente, la motivazione sulla sussistenza dell’elemento psicologico dell’imputata e, in particolare, sulla consapevolezza che l’COGNOME rivestisse la qualità di intraneus, dal momento che la ricorrente sapeva, al contrario, che si trattava di un mero ausiliario di cancelleria ed avendo, quindi, tutt’al più, la volontà di commissionargli un furto.
4.2. Errata applicazione della legge penale e vizio di motivazione in rapporto all’art. 320 cod. pen., con riferimento al trattamento sanzionatorio, non avendo i Giudici dell’appello spiegato se abbiano o meno disposto la riduzione di pena (non superiore a un terzo) prevista da tale disposizione per il caso in cui ad essere corrotto sia non già un pubblico ufficiale, bensì un incaricato di pubblico servizio.
Sarebbe stato, quindi, impedito il corretto esercizio del diritto di difesa, con conseguente violazione dell’art. 111 Cost., e disatteso l’insegnamento di legittimità che richiede di commisurare il trattamento sanzionatorio sui parametri
dell’art. 133 cod. pen., considerato anche che la pena concretamente irrogata è stata superiore alla media edittale ed essendo noto che l’obbligo motivazionale si intensifica via via il giudice si distacca da tale limite.
4.3. Violazione della legge penale e vizio di motivazione quanto alle fattispecie di furto nonché mancanza di motivazione in merito al corretto regime sanzionatorio, determinata dalla diversa qualificazione giuridica del fatto, in violazione del divieto di retroattività della legge penale sfavorevole (art. 25 Cost.).
In appello, era stato dedotto un errore nella quantificazione della pena ex artt. 624 e 625 cod pen., posto che l’inasprimento sanzionatorio era avvenuto con la riforma Orlando nell’agosto del 2017 e non poteva, dunque, riguardare comportamenti realizzati prima di quella data.
Inoltre, comunque, la pena base individuata dal giudice di primo grado non avrebbe dovuto subire un aumento ulteriore per effetto dell’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 11, cod. pen., atteso che il concorso di tale circostanza con altra aggravante comporta l’applicazione di una pena già predeterminata dall’ultimo comma dell’art. 625 cod. pen., come tale, non suscettibile di ulteriore aumento.
Tali deduzioni avevano perso rilievo a seguito della riqualificazione del fatto in corruzione (i giudici avevano rilevato altresì che la corruzione non potesse assorbire la distruzione), ma rivivrebbero ove si tornasse nuovamente ad inquadrare tale fatto nel furto, essendo evidente il collegamento tra l’impossessamento del fascicolo e la sua distruzione – un reato sarebbe l’antefatto e l’altro il postfatto – con conseguente applicazione del criterio, “di valore”, della consunzione che: prescinde dall’identità di bene giuridico; richiede l’unitarietà normativa-sociale del fatto (e non una identità naturalistica); evita il ne bis in idem sostanziale.
4.4. Vizio di motivazione in rapporto al tentativo di distruzione di atti pubblici.
Illogica e contraddittoria sarebbe la motivazione nella parte in cui riconduce la condotta dell’imputata alla fattispecie consumata piuttosto che a quella tentata, l’evento non essendosi prodotto a causa del tempestivo intervento della polizia giudiziaria, avendo la Guardia di Finanza immediatamente provveduto a spegnere le fiamme, permettendo il recupero della documentazione, rimasta sostanzialmente integra.
Una lettura teleologicamente orientata, volta a valorizzare il bene giuridico tutelato dalla fattispecie, infatti, induce a ritenere che, anche là dove recita «in tutto o in parte», l’art. 490 cod. pen. faccia riferimento soltanto alle parti essenziali del documento le quali, nel caso di specie, sarebbero rimaste intatte, come dimostrato dal fatto che, sin dal verbale di sequestro redatto nell’immediatezza dalla Guardia di Finanza, sono espressamente indicati sia il nominativo
dell’intestatario, sia il numero del procedimento, sia la natura del contenuto del documento.
4.5. Errata applicazione dell’art. 133 cod. pen. in merito all’esclusione delle circostanze attenuanti generiche e alla rideterminazione della pena entro i limiti edittali.
In disparte quanto già osservato a proposito della mancata applicazione della diminuzione di pena prevista nell’art. 320 cod. pen., il giudice dell’appello ha rimarcato i caratteri di estrema gravità, allarme sociale e spiccata intensità del dolo, desumendoli dalle intercettazioni, dalle quali si evince che l’imputata era solita ricorrere a pratiche di questo genere. L’affermazione è, però, priva di riscontro, essendo stato invece appurato in giudizio che le frasi captate costituivano banali millanterie prive di concretezza.
Destituita di fondamento è pure l’affermazione relativa all’assenza di elementi sintomatici di resipiscenza ovvero di rivalutazione critica del fatto, posto che l’imputata da subito manifestò chiari segnali di pentimento, ammettendo le proprie responsabilità, rendendo una confessione ampia e dettagliata nonché dichiarazioni etero-accusatorie nei confronti degli altri imputati, fornendo, quindi, elementi utili a una più corretta ricostruzione dei fatti.
Anche nel motivare il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, il Giudice per le indagini preliminari si era riportato alle considerazioni sfavorevoli sulla condotta e sulla personalità dell’imputata, in palese violazione del ne bis in idem sostanziale, avendo determinato una duplicazione delle valutazioni di segno negativo dei medesimi elementi di fatto.
A fronte delle deduzioni della difesa, la Corte di appello non ha fornito alcuna motivazione, nonostante anche a questo proposito si fosse evidenziato che l’imputata: aveva reso una confessione spontanea, segno di resipiscenza; aveva collaborato alle indagini, come d’altronde riconosciuto dallo stesso giudice di primo grado; era incensurata; versava in una difficile condizione di vita individuale, familiare e sociale.
Né andrebbe trascurato lo stato di assoggettamento nei riguardi del COGNOME, della cui caratura criminale la COGNOME era venuta a conoscenza solo gradualmente: il timore per la propria incolumità, insieme alla circostanza che il COGNOME era nella condizione di procurarle numerosi clienti tra gli aderenti al complesso associativo – garantendole in questo modo un margine di entrata sicuro di cui la ricorrente aveva assoluta necessità – avrebbero indotto l’imputata a soddisfare le richieste del suo interlocutore nel tentativo di non contraddirlo.
Ancora, avrebbe dovuto essere apprezzata l’irreprensibile condotta processuale della ricorrente che, oltre ad optare per il rito alternativo, ha posto in essere comportamenti improntati a lealtà. E valutarsi il basso rischio che la stessa
torni a delinquere, in considerazione della sua avviata professione ul ventennale.
Infine, i Giudici dell’appello hanno applicato per la continuazione un aumento di un anno e sei mesi, sicuramente esorbitante.
La ricorrente, per il tramite dell’AVV_NOTAIO, ha presentato altresì note conclusive.
5.1. Ad integrazione del primo motivo di ricorso, si ribadisce come l’COGNOME non rivestisse la qualifica di incaricato di pubblico servizio, perché inquadrato come commesso e, perciò, titolare di mansioni meramente esecutive, il che risultava confermato – non smentito – dalla nota del Dirigente Amministrativo del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, con la quale – su richiesta del Pubblico Ministero presso il Tribunale di Napoli Nord – furono chiarite le mansioni concretamente svolte dal medesimo con l’acquiescenza dell’amministrazione di appartenenza.
COGNOME era stato, infatti, in virtù di specifica determinazione, escluso da ogni mansione che potesse consentirgli di avere accesso al contenuto dei fascicoli processuali nonché da ogni mansione relativa alla formazione e istruzione dei fascicoli processuali destinati alle udienze. Per contro, era stato risolutivamente confinato, per espressa volontà dell’ente di appartenenza, allo svolgimento di attività meramente materiali (ufficio del gratuito patrocinio, sportello informazioni e o scarico della posta relative all’aggiornamento dei dati relativi alle istanze di patrocinio a spese dello Stato).
Peraltro, la Corte di appello di Napoli, ha considerato decisive, ai fini della qualifica pubblicistica, le mansioni, svolte da maggio a luglio 2017, diverse da quelle per le quali era formalmente inquadrato, ma il fatto sub a) giunse a consumazione nel febbraio 2017, quando l’COGNOME non svolgeva tali ulteriori mansioni.
Infine, si insiste sul fatto che la sentenza impugnata non motiva quanto all’accertamento dell’elemento soggettivo della COGNOME sullo specifico punto della qualifica di incaricato di pubblico servizio attribuita all’COGNOME.
5.2. Si rinvia alle deduzioni svolte nel ricorso in tema di consunzione tra le due ipotesi di reato e in punto di qualificazione del reato sub b) come tentato.
5.3. Quanto al trattamento sanzionatorio, si ribadisce che: dal testo della sentenza impugnata non emerge se sia stata applicata la riduzione prevista dall’art. 320 cod. pen.; non risultano esplicitati i criteri usati ai fini d commisurazione giudiziale della pena (sebbene questa risulti fissata in misura prossima al limite edittale): non sono espressi i criteri seguiti per l’aumento in continuazione (quand’anche esso sia addirittura superiore al minimo edittale previsto per l’art. 490 cod. pen., autonomamente considerato). Peraltro, una volta
escluso l’assorbimento del fatto sub b) nel fatto sub a), la carica di disvalore di tale ultimo reato, già valorizzata per la determinazione del trattamento sanzionatorio del fatto più grave, non avrebbe potuto essere valutata una seconda volta in relazione al fatto meno grave di cui al capo b), che rappresenta la naturale prosecuzione della condotta di sottrazione del fascicolo processuale.
Si richiamano le deduzioni del ricorso quanto al trattamento sanzionatorio per l’ipotesi in cui il reato di capo a) torni ad essere qualificato come furto.
6. Anche l’AVV_NOTAIO ha presentato note di udienza.
Con riferimento al secondo e quarto motivo di ricorso, in esse si deduce l’omessa riduzione della pena o, comunque, la mancata motivazione in ordine all’applicazione dell’art. 320 cod. pen.
Con riguardo al primo motivo di ricorso, si ribadisce come la destinazione dell’COGNOME all’RAGIONE_SOCIALE Informazioni ed ai rapporti col pubblico avesse riguardato un periodo successivo a quello in cui sono stati commessi i fatti e come la condotta ascritta all’COGNOME esulasse comunque dalle mansioni ricoperte eventualmente in via di fatto, sottolineando che il fascicolo era in gestione ad un ufficio diverso da quello cui era applicato l’COGNOME, come anche riconosciuto dalla sentenza di primo grado, sul punto non riformata in appello. Di conseguenza, la condotta realizzata fu avulsa dalle mansioni svolte anche in via di fatto, così spezzandosi il legame con l’ufficio ricoperto e configurandosi una vera e propria usurpazione di compiti, con conseguente non configurabilità del delitto di corruzione. Peraltro, si aggiunge, nel ribaltare la sentenza di primo grado, più favorevole per l’imputata, quella di appello avrebbe dovuto spendere una motivazione rafforzata.
Con riguardo al quarto motivo, ricordato che la giurisprudenza di legittimità esclude la sussistenza del reato di distruzione di atti pubblici là dove il documento mantenga intatta la sua funzione probatoria, si evidenzia che la sentenza impugnata non ha chiarito, in risposta alle correlate deduzioni in appello, da dove è stato desunto che fossero state rinvenute «parti residuali, parzialmente distrutte, senz’altro non utilizzabili» del fascicolo, in presenza di un contrastante verbale della polizia giudiziaria, e non abbia specificato alcunché sulle condizioni del fascicolo o se il contenuto fosse intellegibile oppure no né su quali parti ne fossero state distrutte.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato, nei limiti e per le ragioni illustrate di seguito.
Nei due gradi di giudizio di merito è stato accertato che NOME COGNOME, all’epoca dei fatti ausiliario di fascia A/2 presso il Tribunale di Sorveglianza di Napoli, dietro pagamento di una somma di denaro da parte dell’imputata, avvocato, sottrasse un fascicolo processuale, portandolo fuori dagli uffici giudiziari, e lo consegnò alla COGNOME la quale, successivamente, vi diede fuoco.
Ciò sinteticamente premesso in ordine alla vicenda fattuale, vanno accolte le deduzioni difensive contenute nel primo motivo del ricorso principale, integrate nelle note di udienza, relative all’insussistenza della qualifica soggettiva in capo all’COGNOME.
3.2. L’art. 358 cod. pen., nell’aderire alla cd. concezione oggettivofunzionale, definisce il pubblico servizio «un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con l’esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale».
La nozione di incaricato di pubblico servizio, dunque, si caratterizza per l’apposizione legislativa di un limite superiore, rappresentato dall’assenza dei tre classici poteri (autoritativo, certificativo e deliberativo) – il cui esercizio è ti invece della qualifica di pubblico ufficiale – e di un limite inferiore, costitui dall’esclusione di attività che abbiano carattere meramente esecutivo.
Nel caso di specie, tale – ovvero prestazione di opera meramente materiale era stata persuasivamente definita l’attività svolta dall’COGNOME dalla sentenza di primo grado.
Precisato, infatti, che la qualifica formale dell’COGNOME era quella di mero ausiliario (che di per sé difficilmente indizia la sussistenza di una qualifica pubblicistica), i Giudici del Tribunale avevano specificato come all’COGNOME spettasse soltanto il compito di spostare i fascicoli e di inserire i dati nel sistema informatico, e precisavano ulteriormente che tali attività inerivano, peraltro, esclusivamente all’ufficio che si occupava dei procedimenti con gratuito patrocinio, diverso da quello da cui fu sottratto il fascicolo, dove l’COGNOME non svolgeva alcun incarico.
Aggiungevano, infine, che la sua assegnazione all’RAGIONE_SOCIALE era stato disposto dalla Dirigenza del Tribunale proprio allo scopo di “confinarlo” e cioè di «depotenziarne l’attitudine a delinquere», essendo l’COGNOME già incorso in precedenti vicissitudini giudiziarie.
3.3. A tale lineare e persuasiva ricostruzione la sentenza di appello ha contrapposto il richiamo alla teorica del funzionario di fatto, desunta da alcuni precedenti di questa Corte, specificando come essa richieda un consenso o, quantomeno, la tolleranza della pubblica amministrazione in ordine allo svolgimento delle attività extra ordinem le quali, dunque, devono poter godere di un’investitura, seppure di fatto, lecita e non essere state usurpate.
A tal fine, ha ritenuto determinante la nota del superiore gerarchico dell’COGNOME, da cui si desumerebbe che questi svolgeva anche compiti non meramente esecutivi e come tali attività non fossero state usurpate, bensì espressamente affidate all’ausiliario. In specie, ha attribuito particolare rilievo all’assegnazione dell’COGNOME, sebbene in via occasionale, all’ufficio informazioni.
3.4. In realtà, dalla nota – testualmente riportata nella sentenza impugnata – si desume che l’COGNOME svolgeva compiti da cui esulava il necessario profilo di caratterizzazione intellettuale necessario alla configurazione del pubblico servizio, occupandosi invece dello scarico, della stampa e della distribuzione della posta in arrivo sulle caselle di posta elettronica ordinaria, della ricerca ed archiviazione dei fascicoli, dello smistamento dei fascicoli in transito dalla segreteria amministrativa alle cancellerie.
Mentre, per quanto riguarda la sua temporanea assegnazione all’RAGIONE_SOCIALE informazioni – che, in effetti, avrebbe potuto giustificare la caratterizzazione pubblicistica – nella medesima nota si dice espressamente che tale assegnazione fu disposta a decorrere dal maggio 2017, sicché giustamente le difese dell’imputata, in ragione della già rilevata natura oggettivo-funzionale del pubblico servizio, obiettano che tale attività non può rilevare in relazione ad un fatto che era stato, invece, commesso mesi prima, e cioè nel febbraio dello stesso anno.
3.5. Né appare coerente desumere – come fanno, ancora, i Giudici dell’appello – dal fatto che là dove lavorava l’COGNOME erano collocati alcuni fascicoli, la conclusione che egli ne avesse la disponibilità o, ancor meno, inferire elementi sintomatici della qualifica pubblicistica dalla circostanza – di per sé assolutamente neutra – che l’COGNOME fosse solito dialogare con gli avvocati.
La Corte d’appello ha attribuito rilievo alle dichiarazioni, rese in sede di interrogatorio, dall’COGNOME nella parte in cui questi aveva riferito di aver fatto qualche volta all’AVV_NOTAIO il favore di controllare i fascicoli per evitarle la f in ufficio; per converso, ha però tralasciato di valorizzare la prima parte delle medesime dichiarazioni, del pari riportate in sentenza, in cui l’COGNOME precisava che, dopo il procedimento che lo aveva visto coinvolto, egli non aveva avuto più accesso ai fascicoli fissati per le udienze, essendo stato addetto alla esclusiva gestione di quelli divenuti definitivi con gratuito patrocinio: fascicoli, dunque, diversi da quello sottratto dall’COGNOME dietro incarico dell’imputata.
Viziosamente circolare appare, infine, l’argomento per cui, essendo l’COGNOME riuscito a sottrarre il fascicolo e ad impedire, quindi, la celebrazione di un’udienza, ciò dimostrerebbe che egli rivestiva un ruolo idoneo ad incidere sull’esercizio della funzione giurisdizionale.
3.4. Dalla medesima sentenza impugnata – che, sotto questo profilo, nemmeno adempie, per le ragioni esposte, all’obbligo di motivazione rinforzata (sebbene abbia operato una riqualificazione del fatto in malam partem) emerge, in conclusione, che l’COGNOME svolgeva attività meramente materiale all’interno del Tribunale di sorveglianza.
Egli non avrebbe potuto essere ritenuto, pertanto, un incaricato di un pubblico servizio, il che impedisce di ritenere corretta la qualificazione del reato come corruzione.
Ne consegue che risulta assorbito il secondo motivo di ricorso, relativo all’omessa motivazione sulla diminuzione della pena disposta dall’art. 320 cod. pen., per l’ipotesi in cui l’intraneus del reato rivesta tale qualifica.
L’COGNOME, agendo come un quisque de populo, si è impossessato del fascicolo del COGNOME, oltretutto inerente ad un ufficio diverso da quello presso il quale era addetto, dunque, sottraendolo a chi avrebbe dovuto su di esso esercitare una sfera di vigilanza e portandolo al di fuori della sede giudiziaria (per poi consegnarlo all’imputata).
In tale condotta si ravvisa pacificamente la tipicità di un furto (aggravato: artt. 624; 625, n. 7; 61, n. 11, cod. peri.) del quale l’imputata, che ha determinato tale condotta, deve rispondere a titolo di concorso (art. 110 cod. pen.), così come correttamente ritenuto dai Giudici di primo grado.
In tale delitto (artt. 110, 624; 625, n. 7; 61, n. 11, cod. pen.) il fatto di cui capo a) va, dunque, nuovamente qualificato.
Destituite di ogni fondamento appaiono, invece, le eccezioni relative alla non configurabilità del reato di cui all’art. 490 cod. pen. in forma consumata, espresse nel quarto motivo di ricorso.
Nella sentenza di secondo grado si trova chiaramente scolpito che «la COGNOME, in concorso con COGNOME, provvedeva a dare fuoco all’incarto processuale del quale si rinvenivano parti residuali e parzialmente distrutte, senz’altro non utilizzabili».
Pertanto, deve ritenersi che le contrarie eccezioni difensive – secondo cui le parti essenziali sarebbero rimaste intatte, sicché non sarebbe stata vulnerata la funzione probatoria del documento -, pur formalmente lamentando un vizio di
motivazione, sollecitino una ricostruzione alternativa del fatto, tuttavia non realizzabile in sede di legittimità.
Il motivo è, quindi, inammissibile. La responsabilità della ricorrente per il delitto di soppressione, distruzione e occultamento di atti veri risulta confermata.
Del pari infondata è la tesi secondo cui, una volta riqualificato in furto la condotta di cui al capo a), tale reato dovrebbe essere assorbito in quello del capo b) (o viceversa).
Si è, infatti, evidentemente al cospetto di due condotte – il furto e la distruzione del fascicolo – diverse e separate dal punto di vista cronologico le quali, seppur avvinte da un nesso teleologico – che avrebbe potuto, per ipotesi, addirittura indiziare la circostanza aggravante del nesso teleologico (art. 61, n. 2, cod. pen.), piuttosto che un assorbimento – non presentano elementi strutturali comuni, tantomeno collocabili in rapporto di genere a specie.
Né è vero che esse configurino – come sostenuto nel ricorso e negli atti successivamente depositati – l’una (a seconda) l’antefatto o postfatto dell’altra, ben potendo immaginarsi il furto di un oggetto che non sia seguito dalla sua distruzione e, viceversa, la distruzione di una cosa che non sia stata in precedenza rubata (a differenza di quanto ipotizzabile, per esempio, in relazione alle percosse e all’omicidio).
Di conseguenza, non residua alcuno spazio per ravvisare un concorso apparente di norme: né in base al criterio, struttural-formale, della specialità (tra le altre, Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668, secondo cui nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall’art. 15 cod. pen., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tra le norme, effettuata dal legislatore), né in base al criterio, di natura più sostanziale, rappresentato dall’assorbimento/consunzione, non essendo i due reati in rapporto di presupposizione necessaria.
È, infine, il caso di osservare che in senso contrario non depongono certo i due precedenti citati nel ricorso (uno dei quali, peraltro, risalente. Sez. 5, n. 11766 del 01/07/1985, COGNOME, Rv. 171287; Sez. 5, n. 13836 del 11/12/2013, dep. 2014, Tavecchio, Rv. 260200), che non appaiono affatto pertinenti rispetto al caso di specie.
Essi hanno, infatti, riguardo a casi di falso per soppressione realizzati, appunto, mediante furto (in cui la soppressione degli atti era, oltre che contestuale, logicamente non distinguibile dal furto): situazione non certo assimilabile a quella di specie, in cui la distruzione di un documento è stata commessa a distanza di tempo dalla sottrazione dello stesso e mediante una
diversa azione (dandovi fuoco) ed in cui, secondo la pacifica giurisprudenza d questa Corte, è configurabile un concorso materiale di reati, poiché distint diverse sono le due condotte di furto e di falso (Sez. 5, n. 851 del 12/12/2 dep. 2006, COGNOME Corchettino, Rv. 233757, oltre alla motivazione dei precedent citati dalle difese).
I motivi terzo e quinto di ricorso sono assorbiti.
Alla luce di quanto rilevato, si impone l’annullamento della sentenza impugnata, affinché il giudice del rinvio, ferma l’affermazione di pena responsabilità per i delitti di cui al capo a), come riqualificato, e di cui al ridetermini la pena.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato descritto nel capo a) che riqualifica ex artt. 110, 624, 61, n. 11) e 625, n. 7, cod. pen., e rinvia a a sezione della Corte d’appello di Napoli per la rideterminazione della pena. Riget nel resto il ricorso. Visto l’art. 624 cod. proc. pen., dichiara la irrevocabil sentenza in ordine all’affermazione della penale responsabilità dell’imputata.
Così deciso il 08/05/2024