Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 8307 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 8307 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 12/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME, nato a Noia il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 13/02/2023 della Corte d’appello di Napoli visti gli atti, il provvedimento impugnato, il ricorso e i motivi nuovi; udita la relazione del Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME, la quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;
udito l’AVV_NOTAIO, in difesa di RAGIONE_SOCIALE, il quale ha depositato conclusioni scritte e nota spese;
udito l’AVV_NOTAIO, in difesa di NOME, il quale si è riportato al ricorso, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata;
udito l’AVV_NOTAIO, sempre in difesa di NOME, il quale si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 13/02/2023, la Corte d’appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza del 09/07/2021 del G.u.p. del Tribunale di Noia, emessa in esito a giudizio abbreviato:
confermava la condanna di NOME COGNOME per i reati di: a.1) usura continuata e pluriaggravata (dall’avere richiesto in garanzia una proprietà immobiliare e dall’avere commesso il reato in danno di chi si trova in stato di bisogno e svolge attività imprenditoriale, professionale o artigianale) ai danni di NOME COGNOME (capo 1 dell’imputazione); a.2) tentata estorsione continuata e aggravata (dal cosiddetto nesso teleologico) sempre ai danni di NOME COGNOME (capo 2 dell’imputazione); a.3) usura continuata e pluriaggravata (dall’avere commesso il reato in danno di chi si trova in stato di bisogno e svolge attività imprenditorial professionale o artigianale) ai danni di NOME COGNOME (capo 3 dell’imputazione);
b) rideterminava in cinque anni e quattro mesi di reclusione ed C 9.333,00 di multa la pena irrogata al NOME per i suddetti tre reati, unificati dal vincolo del continuazione;
confermava la condanna del NOME al risarcimento dei danni subiti, in conseguenza degli stessi reati, da NOME COGNOME, da NOME COGNOME e dall’RAGIONE_SOCIALE, i quali si erano costituti parti civili.
Avverso l’indicata sentenza del 12/02/2023 della Corte d’appello di Napoli, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore AVV_NOTAIO, NOME COGNOME, affidato a undici motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione di legge e il «difetto assoluto» della motivazione con riguardo all’affermazione della sua responsabilità per il reato di usura continuata e pluriaggravata di cui al capo 1) dell’imputazione.
Dopo avere ripercorso la motivazione delle conformi sentenze dei giudici di merito, il ricorrente lamenta anzitutto che l’affermazione secondo cui, nella prima delle due fasi del suo rapporto con la NOME, egli si sarebbe fatto dare, oltre che promettere, degli interessi usurari, sarebbe il frutto di un radicale travisamento delle dichiarazioni della stessa COGNOME, il quale era stato denunciato anche in sede di appello. Dopo avere testualmente riportato le sommarie informazioni che erano state rese dalla persona offesa alla RAGIONE_SOCIALE di finanza il 03/08/2018, il ricorrente rappresenta che, dalle stesse, emergerebbe che la COGNOME «on aveva affatto pagato interessi usurari, perché aveva restituito poco più della metà della somma ricevuta», atteso che la stessa COGNOME: a) aveva ricevuto C 60.000,00 in contanti, restituendo in più tranches, fino al mese di maggio 2018, C 25.000,00, ai quali avrebbe aggiunto altri C 5.200,00 nel successivo mese di giugno, per un totale di C 30.200,00; b) «se avesse rispettato il suo impegno di versare 75.000,00 euro per ogni mese, a partire dal mese di febbraio e “… per un anno” avrebbe così estinto integralmente il suo debito»; c) in conseguenza del suo rapporto con il COGNOME, aveva «realizzato un incremento patrimoniale netto di euro 28.800,00, pari alla differenza tra quanto ricevuto dal COGNOME euro 60.000,00 e da lei
restituito euro 30.200,00». Il ricorrente deduce quindi che, essendo stati fuorviati dall’erronea convinzione che fossero stati dati degli interessi usurari, i giudici d merito avrebbero omesso l’imprescindibile verifica dei termini dell’accordo tra il COGNOME e la COGNOME, nel senso dell’accertamento che l’imputato, a fronte del denaro prestato alla COGNOME, si fosse fatto promettere da questa degli interessi usurari.
A quest’ultimo proposito, il ricorrente rappresenta che, nel proprio atto di appello, aveva riconosciuto la natura usuraria del suddetto prestito per come era stato descritto dalla COGNOME (impegno di questa a pagargli, a fronte di un prestito di C 60.000,00, da restituire in un anno, C 90.000,00 in dodici rate mensili da C 7.500,00). Sennonché sia il G.u.p. del Tribunale di Noia sia la Corte d’appello di Napoli avrebbero omesso – come sarebbe stato ineludibile fare – di valutare criticamente l’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, atteso che, a tale proposito, la Corte d’appello aveva rinviato alla motivazione della sentenza di primo grado, formulando, di suo, affermazioni meramente assertive, mentre il G.u.p. aveva anch’esso motivato in modo generico e meramente assertivo. Le affermazioni dei giudici di merito in ordine all’attendibilità delle dichiarazioni del persona offesa NOME – le quali, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, dovrebbero essere valutate con criteri di particolare rigore e non come quelle di un testimone «”ordinario”» – avrebbero, invece, trascurato di considerare alcuni assai significativi fatti oggettivi, segnatamente, che la COGNOME: a) si e inizialmente recata non dalla RAGIONE_SOCIALE di finanza, ma presso uno “RAGIONE_SOCIALE” sito in Tuscania – scelta, questa, di rivolgers a una struttura lontana dal luogo di residenza della persona offesa che «avrebbe dovuto essere debitamente considerata» per avviare le pratiche per ottenere i ristori previsti dalla legge per le vittime di USLI ra, sennonché, anche a dare credito alle sue successive dichiarazioni, essa non poteva essere ritenuta una persona danneggiata da un reato di usura consumato in suo danno atteso che, «al suo rapporto col NOME aveva, invece, tratto un vantaggio pari ad euro 29.800,00»; b) convocata dalla RAGIONE_SOCIALE di finanza a seguito della segnalazione del responsabile del suddetto “RAGIONE_SOCIALE“, si sarebbe venuta a trovare – sempre secondo il ricorrente – «in una situazione assai scomoda», in quanto, «e avesse ammesso di avere ottenuto un prestito di 60.000,00 euro e di averne restituiti solo 32.200,00 , e, ciò nonostante, di essersi presentata come danneggiata dal reato di usura per ottenere dei ristori, la sua posizione avrebbe cessato di essere quella di persona informata sui fatti, per divenire altro», con la conseguenza che a sua scelta di accusare il COGNOME era risultata, in sostanza, obbligata»; grazie alla sua denunzia, aveva ottenuto l’effetto di non restituire al NOME la somma di C 29.800,00. Il ricorrente lamenta altresì che la Corte d’appello di Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Napoli, col motivare l’attendibilità delle dichiarazioni della COGNOME nei termini di si è detto, avrebbe anche omesso di valutare le doglianze che, in proposito, erano state avanzate nel proprio atto di appello.
Il ricorrente riporta poi degli stralci delle sommarie informazioni che furono rase della COGNOME alla RAGIONE_SOCIALE di Finanza il 03/08/2018, il 10/01/2019, il 01/03/2019 e il 05/04/2019.
Riportati tali stralci, il COGNOME asserisce che, con riguardo alla «prima fase» del suo rapporto con la COGNOME, questa avrebbe «fissato alcuni, successivi passaggi»: a) nel primo, il COGNOME avrebbe richiesto solo gli €60.000,00 prestati, sicché «avrebbe rinunciato a tutti gli interessi»; b) dopo tre o quattro giorn il COGNOME, che solo qualche giorno prima «si sarebbe accontentato di riottenere il suo, senza riscuotere interessi», avrebbe invece preteso il rilascio di 36 cambiali da C 5.000,00, per un totale di C 180.000,00, in aggiunta agli C 32.200,00 che la COGNOME gli aveva già corrisposto; c) ad agosto (2018) vi sarebbe stato un «nuovo radicale cambiamento», nel senso che il «NOME non avrebbe più preteso le cambiali, ma la somma di Euro 50.000,00 , a saldo e stralcio del dovuto», sicché «li interessi pretesi non sarebbero stati più, né pari ad euro 30.000,00 , pretesi inizialmente; nemmeno pari ai 150.000,00 , richiesti all’inizi giugno, ma di importo di euro 20.200,00 , ossia alla differenza tra quanto già pagato e da pagare dalla COGNOME (30.200,00 + 50.000,00 = 80.200,00) ed il capitale ricevuto in prestito». Ciò detto, il NOME, dopo avere sottolineato che la persona offesa aveva ammesso di avergli rilasciato, a titolo di garanzia, degli assegni per un importo pari solo all’ammontare del prestito che aveva ricevuto, rappresenta che l’ultima indicata propria pretesa troverebbe un riscontro documentale nell’appunto manoscritto che era stato prodotto dalla COGNOME alla RAGIONE_SOCIALE di finanza e che essa aveva affermato provenire dal NOME e indicare la somma che questi le aveva chiesto «per la risoluzione definitiva della debitoria»; appunto dal quale sarebbe emerso un tasso di interesse annuo del 13%, non usurario, atteso che il tasso soglia per il 2018 era il 16,81%. Il calcolo che risulterebbe dal menzionato manoscritto troverebbe conferma anche in quanto fu dichiarato dalla COGNOME nel suo secondo incontro con la RAGIONE_SOCIALE di finanza, nel corso del quale la persona offesa parlò di un «debito residuo che ancora maturavo nei confronti del NOME pari a circa 40.000,00 euro», atteso che da tale dichiarazione si ricaverebbe che la COGNOME, dopo avere pagato C 30.200,00, riteneva di essere debitrice di «circa 40.000,00 euro», sicché, «secondo gli accordi iniziali, ossia la sua promessa, la COGNOME avrebbe dovuto pagare in tutto, per la restituzione di capitale e interessi, euro 70.200,00 circa», cioè circa C 10.000,00 di interessi, cifra «assai prossima ai 7.500,00 risultanti dal manoscritto». Il ricorrente asserisce di avere esposto quanto si è appena riassunto allo scopo di fare emergere «la inemendabile Corte di Cassazione – copia non ufficiale
irrazionalità delle motivazioni, tanto della sentenza di primo grado che di appello, perché fondate sulla prerazionale validazione delle allegazioni della persona offesa», e l’omissione, da parte dei giudici del merito, della necessaria verifica critica delle stesse allegazioni, nonostante esse fossero «affett da palesi oggettive criticità», nonché della considerazione delle doglianze che erano espresse al riguardo nel proprio atto di appello.
Con riguardo alla «seconda fase del rapporto», il NOME deduce che i giudici del merito avrebbero posto a fondamento delle proprie decisioni la promessa, da parte della NOME, della consegna di 36 cambiali e dell’atto di proprietà del proprio immobile in Noia – avendo la Corte d’appello di Napoli ritenuto anche che le stesse cambiali fossero state sottoscritte e l’atto di proprietà consegnato – laddove, dalle dichiarazioni della persona offesa (il ricorrente ha trascritto, a tale proposito, alcun stralci di quelle che erano state da essa rese il 03/08/2018, il 19/01/2019, il 01/03/2019 e il 05/04/2019), risulterebbe invece in modo inequivocabile che la COGNOME «non aveva formulato alcuna promessa, né, tantomeno, aveva sottoscritto gli effetti cambiari e consegnato l’atto di proprietà», con i conseguenti travisamento della prova e mancanza «fisica» della motivazione, anche con riguardo alla doglianza, che era stata formulata nel proprio atto di appello, con la quale era stato rappresentato come la mera richiesta di interessi usurari, non seguita da accettazione – e, quindi, dalla promessa di versarli – non fosse idonea a configurare il reato di usura.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la violazione di legge, con riferimento agli artt. 56, 393, 629 e 656 cod. pen., e il «difetto assoluto» della motivazione con riguardo alla mancata riqualificazione del fatto di cui al capo 2) dell’imputazione da tentata estorsione a esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e alla conseguente mancata declaratoria di improcedibilità dell’azione penale per difetto di querela.
Il ricorrente rappresenta che quanto esposto nel primo motivo nel senso dell’esclusione della natura usuraria del rapporto con la NOME e del fatto che egli, in realtà, aveva cercato solo di riottenere il proprio denaro, con la conseguente legittimità della propria pretesa, ancorché «male azionata», avrebbe dovuto condurre la Corte d’appello di Napoli a qualificare il fatto di cui al capo 2 dell’imputazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e a dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale per difetto di querela.
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , c) , ed e), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 191, comma 1, dello stesso codice, e all’art. 644 cod. pen., l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal persona offesa NOME COGNOME il 25/09/2020 e la violazione di legge e il «difetto
assoluto» della motivazione con riguardo all’affermazione della sua responsabilità per il reato di usura continuata e pluriaggravata di cui al capo :3) dell’imputazione.
Il ricorrente premette che NOME COGNOME fu sentito due volte dal pubblico ministero, il 21/09/2020 e il 25/09/2020.
Ciò premesso, il COGNOME rappresenta che, in occasione della prima di tali due occasioni, lo COGNOME aveva taciuto dell’usura che lo stesso COGNOME avrebbe consumato ai suoi danni, con le conseguenze che, attesa tale reticenza, l’esame al quale egli fu successivamente sottoposto il 25/09/2020 avrebbe dovuto essere immediatamente interrotto – senza che, in senso contrario, diversamente da quanto sarebbe stato ritenuto dalla Corte d’appello di Napoli, potesse assumere rilievo la natura del reato in relazione al quale erano emersi indizi di reità a caric dello COGNOME nel corso della sua deposizione – e che, in mancanza di detta interruzione, le menzionate dichiarazioni del 25/09/2020 si dovevano ritenere inutilizzabili erga omnes. Il ricorrente rappresenta ancora che, il 21/09/2020, lo COGNOME sarebbe stato reticente anche con l’affermare che, né prima né dopo l’arresto del COGNOME, alcuno lo aveva avvicinato per costringere la COGNOME a «ritirare» la propria denuncia, atteso che, il successivo 25/09/2020, lo stesso COGNOME dichiarò invece di essere stato a tale scopo avvicinato da un tale «NOMECOGNOME NOME“» – tanto che aveva esordito la propria deposizione dicendo di «essere pentito di non avervi detto nulla la volta scorsa» – con le conseguenze che, dopo tale ammissione, il suo esame avrebbe dovuto essere interrotto e gli si sarebbero dovuti dare gli avvisi di legge e che, in mancanza di ciò, le sue successive dichiarazioni si dovevano ritenere inutilizzabili ex art. 63, comma 2, cod. proc. pen. Il ricorrente deduce ancora che lo COGNOME non avrebbe nemmeno dovuto essere citato come persona informata dei fatti, atteso che, dalle dichiarazioni che erano state rese dalla NOME prima di tale citazione (il ricorrente cita, in proposito alcuni stralci di quelle del 30/01/2019), sarebbero emersi elementi di reità a suo carico per concorso nel reato di usura ai danni della stessa NOME, o per favoreggiamento reale, con la conseguente inutilizzabilità, ex art. 63, commi 1 e 2, cod. proc. pen., delle dichiarazioni rese dallo COGNOME, anche nel giudizio abbreviato. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il ricorrente deduce poi che la Corte d’appello di Napoli, oltre a non rilevare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di NOME COGNOME, avrebbe anche mancato di sottoporle a un, anche sommario, vaglio critico, ignorando, altresì, le specifiche doglianze che erano state articolate al riguardo nel proprio atto di appello. Nel rappresentare come nella decisione impugnata avrebbe avuto un rilievo decisivo il fatto della ritenuta mancanza di prova dello stato di detenzione in carcere dell’imputato dal 29/11/2008 al 10/05/2016, il NOME deduce che tale stato detentivo sarebbe stato «attestato dalla stessa P.G.» e risulterebbe, comunque,
dall’allegato decreto del 10/05/2019 della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma di unificazione delle pene concorrenti. La decisività di tale elemento discenderebbe dal fatto che lo COGNOME, il 25/09/2020, aveva dichiarato al pubblico ministero di essersi presentato, dal 2005 al 2010, almeno una volta al mese, presso l’RAGIONE_SOCIALE del NOME per ottenere da lui il “cambio” di alcuni assegni. Il fatto che il COGNOME si fosse trovato in carcere dal 29/11/2008 al 10/05/2016 dimostrerebbe che lo COGNOME, per buona parte dell’anno 2008 e per gli interi anni 2009 e 2010, non poteva avere incontrato il NOME presso la sua RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE, con la conseguenza che lo stesso COGNOME aveva mentito al pubblico ministero anche il 25/09/2020 (oltre che il 21/09/2020). Alla luce di tale dirimente dato, diverrebbe allora «paradossalmente addirittura irrilevante il rilievo, in sé invece decisivo», della mancata considerazione, da parte della Corte d’appello di Napoli, degli argomenti che erano stati prospettati nel proprio atto di appello con riguardo «all’effetto compromissorio delle dichiarazioni dello COGNOME» costituito dalle dichiarazioni della sorella NOME COGNOME e del fratello NOME, con la conseguenza che, «solo per completezza», il ricorrente ha riprodotto, alle pagine da 46 a 56 del ricorso, i fogli da 28 a 38 del proprio atto d appello.
Il ricorrente lamenta ancora che la Corte d’appello di Napoli avrebbe totalmente omesso di motivare in ordine all’ammontare del tasso di interesse che sarebbe stato praticato dall’imputato. Il ricorrente precisa che lo COGNOME non aveva riferito che ogni mese di durata del prestito doveva corrispondere al NOME C 200,00 per lo sconto di assegni di C 1.500,00 ma che, al momento della consegna dell’assegno, il Nunziava tratteneva, sull’importo dello stesso di C 1.500,00, C 200,00 a titolo di interessi, «a saldo definitivo delle sue competenze in relazione a quell’operazione» (così il ricorso). Ciò precisato, il ricorrente evidenzia come lo COGNOME non avesse fornito alcuna indicazione in ordine alla data in cui gli assegni che gli erano stati “scontati” dal COGNOME avrebbero potuto essere posti all’incasso, con la conseguenza che, poiché la persona offesa non aveva quindi indicato la durata del prestito, non era possibile stabilire il tasso di interesse ch era stato praticato e, quindi, se esso avesse superato la soglia dell’interesse usurario. Tale lacuna motivazionale della sentenza impugnata non potrebbe essere superata integrandola con la motivazione della sentenza di primo grado. Ciò in quanto la motivazione che, in proposito, aveva fornito il G.u.p. del Tribunale di Noia («considerando quale periodo di restituzione un mese, anche in ragione del fatto che il titolo poteva essere portato all’incasso anche il giorno stesso della consegna con un innalzamento del tasso applicato») si fonderebbe su di una mera illazione e sarebbe smentita dal fatto che, se gli assegni avessero realmente potuto essere «portat all’incasso anche il giorno stesso della consegna», ciò sarebbe
stato fatto dallo COGNOME, il quale avrebbe così evitato di corrispondere l’interesse che, invece, a suo dire, aveva pagato al COGNOME.
2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 2, comma 4, e 157 cod. pen., la violazione di legge e il «difetto assoluto» della motivazione con riguardo alla mancata declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di usura continuata e pluriaggravata di cui al capo 3) dell’imputazione.
Il ricorrente rappresenta in proposito che: a) come affermato dalla stessa Corte d’appello di Napoli, il reato (che, nel capo d’imputazione, era stato contestato come commesso «dal dicembre 2005 al dicembre 2010») si doveva ritenere consumato il 01/12/2005 («la consumazione è da individuare al 1° dicembre 2005»; pag. 7 della sentenza impugnata»); b) pertanto, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., la pena edittale massima per il reato di usura non aggravato si doveva ritenere quella, più favorevole al reo, di sei anni di reclusione stabilita dalla legge anteriore all’entrata in vigore (il 08/12/2005) della legge dicembre 2005, n. 251 (cosiddetta “ex Cirielli”), il cui art. 2, comma 1, aveva innalzato la suddetta pena edittale massima da sei a dieci anni di reclusione; c) «uovendo da tale constatazione», si sarebbe dovuto individuare la legge applicabile riguardo al tempo necessario a prescrivere il reato, la quale, sempre ai sensi dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., si doveva individuare in quella, più favorevole, dell’art. 6, comma 1, della legge n. 251 del 2005; d) pertanto, in base a tale legge, «il termine di prescrizione del reato era di anni 6, pari al massimo della pena edittale», con la conseguenza che il reato «non circostanziato» si sarebbe prescritto il 31/12/2016 (6 anni dal 31/12/2010, termine iniziale ex art. 644-ter cod. pen.); e) ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, non si sarebbe potuto tenere conto delle circostanze aggravanti di cui ai numeri 3) e 4) del quinto comma dell’art. 644 cod. pen. e della recidiva, «benché contestate e ritenute», in quanto esse erano state contestate, mediante il deposito della richiesta di rinvio a giudizio, solo il 09/12/2020 e, quindi, dopo la scadenza del termine prescrizionale del reato non circostanziato. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Napoli avrebbe invece applicato, in violazione dell’art. 2, quarto comma, cod. pen., la meno favorevole disciplina della prescrizione del reato vigente al tempo della sua commissione.
2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 644, quinto comma, n. 3) e n. 4), cod. pen., la violazione di legge e il «difetto assoluto» della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti previste dai suddetti n. 3) e n. 4) del quinto comma dell’art. 644 cod. pen.
Dopo avere riassunto la motivazione della sentenza di primo grado in ordine alla ritenuta sussistenza di tali circostanze aggravanti e le doglianze che, al riguardo, erano state avanzate nel proprio atto di appello, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Napoli avrebbe omesso di considerare la richiesta, contenuta nello stesso atto di appello, di escludere le due circ:ostanze aggravanti in questione con riferimento al reato di cui al capo 1) dell’imputazione, atteso che la stessa Corte d’appello avrebbe confutato le tesi difensive solo con riguardo all’esclusione delle stesse circostanze aggravanti con riferimento al reato di cui al capo 3) dell’imputazione.
Tale mancanza «fisica» della motivazione non potrebbe essere colmata facendo rinvio alla motivazione della sentenza di primo grado per due ragioni e cioè che: a) anche la sentenza di primo grado era priva di «una adeguata dimostrazione sul punto»; b) la Corte d’appello, quand’ariche avesse inteso condividere in toto le argomentazioni del G.u.p. del Tribunale di Noia, avrebbe dovuto «dare conto e dimostrazione di aver considerato le doglianze difensive sul punto», ciò che, invece, non aveva fatto.
Il ricorrente rappresenta come la denunciata lacuna motivazionale abbia avuto concreto rilievo nella determinazione della pena per il reato di cui al capo 1) dell’imputazione.
2.6. Con il sesto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 99 cod, pen., la violazione di legge e il «difetto assoluto» della motivazione con riguardo alla conferma dell’applicazione della recidiva reiterata e specifica.
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Napoli avrebbe confermato l’applicazione di tale recidiva sulla sola base della sussistenza di precedenti penali a proprio carico, senza «verificare, alla luce, in particolare, del tempo trascorso dalla consumazione dell’ultimo reato, se sussist concretamente la eventualità che l’imputato nel futuro po dare luogo ad ulteriori manifestazioni di pericolosità criminale», tenuto conto del fatto – che sarebbe stato del tutto trascurato – che l’ultimo dei reati che gli erano stati attribuiti ris a poco meno di trenta anni prima della consumazione dei reati sub iudice.
2.7. Con il settimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 62, primo comma, n. 6), cod. pen., la violazione di legge e il «difetto assoluto» della motivazione con riguardo al mancato riconoscimento della circostanza attenuante del risarcimento del danno.
Il ricorrente contesta la motivazione della Corte d’appello di Napoli secondo cui la circostanza attenuante di cui al n. 6) del primo comma dell’art. 62 cod. pen., «per costante giurisprudenza di legittimità, non è applicabile ai delitti c
offendono il patrimonio» (pag. 9 della sentenza impugnata), atteso che la giurisprudenza citata dalla stessa Corte d’appello si riferisce alla circostanza attenuante del ravvedimento attivo e non alla circostanza attenuante del risarcimento del danno, la quale «ha, invece, essenzialmente, naturalmente applicazione e rilievo» proprio con riguardo ai reati contro il patrimonio.
Il NOME rappresenta che, nel proprio atto di appello, egli aveva chiesto il riconoscimento della circostanza attenuante del risarcimento del danno e non del ravvedimento attivo. La Corte d’appello di Napoli avrebbe perciò equivocato in ordine all’oggetto della richiesta difensiva, con riguardo alla quale, perciò, difetterebbe un’effettiva motivazione, la quale avrebbe richiesto la presa d’atto dell’assenza di un danno materiale – atteso che era pacifico che la COGNOME aveva ricevuto C 60.000,00 e ne aveva restituiti al NOME solo C 30.200,00 – e la valutazione della congruità del risarcimento del danno morale nella misura di C 5.000,00 che era stato fatto mediante l’offerta reale di tale somma.
2.8. Con l’ottavo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 62-bis cod. pen., la violazione di legge e l’«assoluto difetto» della motivazione con riguardo alla conferma del diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Il ricorrente contesta l’affermazione della Corte d’appello di Napoli secondo cui «la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche risulta formulata in maniera del tutto apodittica, senza allegazione di alcun elemento utile idoneo a renderne possibile l’eventuale accoglimento» (pag. 10 della sentenza impugnata), atteso che, al contrario, egli aveva indicato, a sostegno della propria richiesta, gli elementi che aveva: a) «lealmente ammesso di avere avuto un rapporto di dare-avere con la NOME»; b) «subito lo incamerarnento da parte della donna, senza titolo alcuno, di poco meno della somma che le aveva elargito, senza reagire in alcun modo, se non insistendo, magari con modi poco urbani, per riavere il suo»; c) «formulato una offerta reale, a favore della donna, di risarcimento del, molto ipotetico, danno morale, pari ad euro 5.000,00».
L’omessa considerazione di tali elementi integrerebbe «un inemendabile vuoto motivazionale», che sarebbe ancora più grave in quanto essi, nel loro insieme, «avrebbero ampiamente giustificato la concessione delle circostanze attenuanti richieste».
2.9. Con il nono motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 133 cod, pen., la violazione di legge e il «difetto assoluto» della motivazione con riguardo alla determinazione della misura della pena “base” per il più grave reato di cui al capo 1) dell’imputazione.
Dopo avere stigmatizzato che il G.u.p. del Tribunale di Noia avrebbe motivato la determinazione di tale pena “base” nella misura di tre anni di reclusione mediante il mero rinvio ai «criteri enunciati nell’art. 133 c.p.», il ricorrente lamen che la Corte d’appello di Napoli avrebbe «sbrigativamente liquidato» la denuncia di tale motivazione che era stata avanzata nel proprio atto di appello, atteso che la stessa Corte: a) da un lato, si sarebbe limitata a enunciare «la gravità della condotta tenuta dall’imputato», nonostante questa «non presenta alcuna peculiarità distintiva rispetto a quelle tipicamente integranti il reato di usura»; dall’altro lato, con riguardo alla gravità del danno cagionato alla persona offesa, non aveva considerato che lo stesso non poteva che essere ritenuto di «particolare, assolutamente inusuale, lievità», atteso che la COGNOME aveva ricevuto dall’imputato C 60.000,00 e gliene aveva restituiti C 30.200,00, sicché «aveva lucrato il “profitto” di euro 29.800,00».
Da ciò i denunciati vizi della sentenza impugnata sia in quanto priva di una reale motivazione sia in quanto avrebbe trascurato di considerare quest’ultima circostanza.
2.10. Con il decimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 187, comma 3, dello stesso codice, e agli artt. 2043 e 2697 cod. civ., la violazione di legge e i «difetto assoluto» della motivazione con riguardo alla conferma della condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile NOME COGNOME
Dopo avere esposto che, ai sensi delle invocate norme di legge, sarebbe stato onere della parte civile NOME COGNOME fornire la prova che il reato le aveva provocato un danno risarcibile, il ricorrente deduce che la COGNOME non avrebbe fornito alcun elemento valutabile ai fini della prova dell’esistenza di un tale danno.
Il ricorrente rappresenta altresì : a) l’impossibilità di provare l’esistenza di u danno patrimoniale, atteso che era «pacifico» come la COGNOME, «in conseguenza del reato, avesse ottenuto un profitto netto a suo favore, di euro 29.800,00»; b) non sarebbe stato allegato alcun elemento a sostegno di un eventuale danno morale, «peraltro difficile, anche solo da immaginarsi a carico di chi aveva ricevuto e trattenuto, senza averne né titolo né diritto, circa 30.000,00 euro di proprietà altrui».
Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, da parte della Corte d’appello di Napoli, dell’asserita «esistenza di garanzie reali date dalla vittima e di titoli credito emessi in favore dell’imputato». Dopo avere ribadito che la COGNOME avrebbe negato di avere sottoscritto le 36 cambiali e di avere consegnato al NOME l’atto di proprietà del proprio immobile, il ricorrente deduce che, pertanto: a) non sarebbe mai stata data al NOME alcuna garanzia reale; b) i «titoli di credito emessi in favore dell’imputato» sarebbero costituiti solo dagli assegni dell’importo
complessivo di C 60.000,00 che la COGNOME aveva consegnato al NOME in garanzia, i quali assegni, tuttavia, non solo «non erano stati mai azionati», ma non avrebbero potuto recare alcun danno alla persona offesa neppure in futuro, atteso che erano stati sottoposti a sequestro preventivo con provvedimento del G.i.p., circostanza, quest’ultima, che non era stata considerata dalla Corte d’appello di Napoli.
Il ricorrente contesta anche l’affermazione della Corte d’appello di Napoli secondo cui «la difesa si limita a negare apoditticamente la sussistenza del danno morale», rappresentando, in proposito, che egli non aveva negato l’esistenza del danno morale ma aveva denunciato che la parte civile non aveva adempiuto all’onere di dimostrarne la sussistenza.
2.11. Con l’undicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 79 dello stesso codice, la mancata rilevazione della tardività della costituzione della parte civile RAGIONE_SOCIALE e la conseguente mancata esclusione di tale parte civile.
Il ricorrente deduce che la Corte d’appello di Napoli avrebbe ignorato la propria doglianza con la quale aveva denunciato la tardività della costituzione della parte civile RAGIONE_SOCIALE, in quanto «avvenuta ben dopo l’ammissione dell’imputato al giudizio abbreviato e, dunque, al completamento delle formalità di costituzione delle parti processuali».
La Corte d’appello di Napoli si sarebbe infatti limitata ad affrontare la diversa questione della legittimazione attiva della suddetta RAGIONE_SOCIALE.
Il ricorrente ha proposto, per il tramite del proprio altro difensore, due motivi nuovi.
3.1. Con il primo di essi, proposto in relazione al primo e al secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 644 cod. pen. e l’«ornessa valutazione in relazione agli artt. 187 e 192 c.p.p.», con riguardo alla valutazione della prova costituita dalle dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME.
Il ricorrente deduce che l’omessa valutazione dell’attendibilità di tale persona offesa discenderebbe anche «dalla erronea applicazione dei parametri di valutazione della prova del reato di usura». Il NOME lamenta che la Corte d’appello di Napoli avrebbe immotivatamente disatteso le doglianze difensive, che erano state avanzate nel proprio atto di appello, là dove esse «avevano enucleato e documentato le incongruenze del racconto della p.o., sul versante del tasso di interessi praticato, e la irrilevanza dei pretesi elementi di riscontro», vizio ch sarebbe il frutto «dell’errata interpretazione delle norme in materia di prova, sia in astratto che nello specifico della dichiarazione resa dalla p.o. del reato di usura».
Il ricorrente rappresenta che gli elementi di prova attenenti esclusivamente all’esistenza di un prestito che era stato concesso dal COGNOME alla COGNOME non potrebbero costituire prova del reato di usura se non siano corredati da elementi di natura quanto meno indiziaria che attestino che il NOME aveva praticato un tasso di interessi superiore al tasso soglia che era stato stabilito per lo specific anno in considerazione.
Dopo avere richiamato gli elementi «indiziari» dell’inattendibilità del narrato della NOME che aveva già evidenziato nel ricorso, il ricorrente deduce che, a fronte di essi, l’asseritamente anapodittica affermazione della Corte d’appello di Napoli «circa la sproporzione tra le somme ricevute in prestito dalla NOME e quanto promesso al NOME in restituzione, mediante titoli, tra i quali il titolo di proprie dell’immobile, tale da giustificare anche una condanna sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa, si palesa del tutto immotivata e ingiustificata», oltre che in contrasto con i principi, affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, in tema di valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa e, in specie, della persona offesa dal reato di usura (è citata, in particolare, a quest’ultimo proposito: Sez. 2, n. 19119 del 22/03/2023, COGNOME).
Il ricorrente evidenzia ancora come la necessità dell’accertamento della natura usuraria del prestito assuma rilievo decisivo anche ai fini della valutazione della richiesta di riqualificazione del fatto di cui al capo 2) dell’imputazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, reato improcedibile per mancanza della querela.
Pertanto, la natura usuraria del prestito non potrebbe essere provata sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa, in assenza di riscontri rinvenibili aliunde, i quali, come già evidenziato nel ricorso, sarebbero mancanti. A tale proposito, il ricorrente evidenzia, in particolare, come nel proprio atto di appello e, poi, nel proprio ricorso, avesse segnalato come dal manoscritto del NOME sarebbe risultato un tasso di interesse del 13%, ben al di sotto del tasso soglia che, per il 2018, era del 16,81%.
3.2. Con il secondo motivo nuovo, proposto in relazione al terzo motivo di ricorso, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’omessa motivazione «in tema di valutazione della prova costituita dalle dichiarazioni della persona offesa dal reato, COGNOME COGNOME».
Il ricorrente lamenta che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe affidata «ad una generica prognosi di attendibilità del teste sulla base del tempo trascorso dai fatti narrati al momento delle dichiarazioni, senza considerare le numerose incongruenze del suo narrato». Il ricorrente ribadisce che la Corte d’appello di Napoli avrebbe eluso «il profilo, pur segnalato dalla difesa con i motivi di appello, relativo alla attendibilità della sua dichiarazione», tenuto conto: a) dell
tardività dell’accusa, formulata «dopo aver mentito esplicitamente agli inquirenti , essendosi rivelato reticente sia con riferimento al rapporto (presuntamente) usurario del COGNOME con la COGNOME che con se stesso»; b) dell’«inconciliabilità del suo narrato con i dati oggettivi, segnatamente la detenzione del NOME (dal 2008 al 2016) , sulla base di un accertamento svolto dalla Pg sussistente in atti, benché la circostanza sia stata ritenuta non documentata dalla Corte di Appello»; c) della «totale incredibilità della ricostruzione accusatoria sui tassi d interesse, oscillanti tra il 4428% ed il 145,60%»; d) della «totale inattendibilità ed inconsistenza quale riscontro delle dichiarazioni della sorella della vittima, NOME».
Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe del tutto priva di motivazione in ordine a tutti tali aspetti, i quali atterrebbero anch all’individuazione del fondamentale elemento del tasso di interesse praticato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo e il primo motivo nuovo, nella parte di questo che si riferisce all’affermazione di responsabilità per il reato di usura continuata e pluriaggravata di cui al capo 1 dell’imputazione – i quali motivi, concernendo entrambi tale affermazione di responsabilità, possono essere esaminati concliuntamente – sono manifestamente infondati.
La sentenza impugnata, aderendo alle valutazioni del primo giudice, ha applicato il principio, affermato anche dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale occorre effettuare un rigoroso riscontro della credibilità soggettiva e oggettiva della persona offesa, specie se costituita parte civile, accertando l’assenza di elementi che facciano dubitare della sua obiettività, senza la necessità, però, della presenza di riscontri esterni, stabilita dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., per il dichiarante coinvolto nel fatto (ex plurimis: Se2:. U, n. 41461 del 19/07/2012, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 253214-01; Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, COGNOME, Rv. 279070-01; Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312-01; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018, COGNOME, Rv. 274489-01; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 265104-01; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 261730-01).
Le Sezioni Unite hanno anche statuito che «la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, cit.; più di recente: Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01).
Quest’ultima circostanza appare del tutto assente nel caso di specie, mentre le doglianze del ricorrente, lungi dall’evidenziare manifeste contraddizioni nelle quali sarebbero incorsi i giudici di merito nel valutare come credibili le dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME, si traducono piuttosto nella sollecitazione di una nuova valutazione della stessa credibilità, per giungere alla diversa conclusione dell’inattendibilità della stessa COGNOME, il che non è consentito fare in sede d legittimità.
La Corte d’appello di Napoli ha anche evidenziato come le dichiarazioni della COGNOME, oltre a essere state sottoposte a un rigoroso vaglio di attendibilità, avessero trovato anche riscontro in ulteriori elementi di prova (quali: i messaggi scambiati tra la COGNOME e il COGNOME; le annotazioni di polizia giudiziaria a seguito dell’attività di osservazione dell’incontro che si era svolto tra il COGNOME e la COGNOME la quale aveva registrato la conversazione tra i due; il manoscritto redatto di pugno del NOME con indicati gli importi che la COGNOME avrebbe dovuto corrispondergli; le intercettazioni telefoniche e ambientali; le matrici degli assegni che la COGNOME aveva rilasciato in garanzia).
Ciò posto con riguardo all’attendibilità dellle dichiarazioni della persona offesa, quanto alla manifesta infondatezza delle ulteriori doglianze del ricorrente, si deve osservare quanto segue.
Quanto alla prima fase del rapporto tra il NOME e la COGNOME, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, dalle dichiarazioni della persona offesa (pagg. 6-8 della sentenza di primo grado) risulta che l’importo di C 7.500,00 che essa doveva corrispondere mensilmente, a fronte del prestito di C 60.000,00 che le era stato erogato dal NOME, fino alla restituzione di tale sorte capitale, era stato pattuito a titolo di interessi e che la somma che la stessa persona offesa aveva effettivamente corrisposto al COGNOME fino al mese di giugno 2.018 (C 30.200,00) era da imputare, appunto, a titolo di interessi (come il COGNOME aveva ribadito alla COGNOME in occasione della rinegoziazione dell’accordo tra i due; pag. 8 della sentenza di primo grado e pag. 4 della sentenza impugnata), con un tasso usurario del 150% su base annua e del 12,5% su base mensile. La Corte d’appello di Napoli ha peraltro esattamente rilevato come, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 644 cod. pen., sia sufficiente la promessa di corresponsione di interessi usurari, senza che occorra l’effettiva dazione degli stessi (tra le tante: Sez. 2, n. 23919 del 15/07/2020, Basilicata, Rv. 279487-01).
Quanto alla seconda fase, della rinegoziazione del rapporto tra il NOME e la COGNOME, la Corte d’appello di Napoli ha evidenziato come le nuove condizioni di restituzione del capitale e degli interessi, con applicazione di interessi ulteriori, dovessero ritenere essere state unilateralmente imposte dal NOME alla persona
offesa, e prevedessero interessi sul capitale anch’essi usurari (quantificati, nella sentenza di primo grado, nel 40,67% su base annua).
A fronte di ciò, le doglianze del ricorrente, lungi dall’evidenziare de travisamenti delle prove – e, tra queste, in particolare, delle dichiarazioni dell persona offesa – si traducono nella sollecitazione di una mera lettura alternativa delle stesse prove (tra le quali anche l’appunto manoscritto che era stato prodotto dalla COGNOME alla RAGIONE_SOCIALE di finanza e che essa aveva affermato provenire dal NOME), il che non è possibile fare in sede di legittimità.
Il secondo motivo e il primo motivo nuovo, nella parte di questo che si riferisce all’affermazione di responsabilità per il reato di tentata estorsion continuata e aggravata di cui al capo 2 dell’imputazione – i quali motivi, concernendo entrambi tale affermazione di responsabilità, possono essere esaminati congiuntamente – sono manifestamente infondati.
La Corte di cassazione ha chiarito che è configurabile il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, nei confronti del creditor che, a fronte di un’iniziale pattuizione usuraria, contraddistinta da prestiti gravat da interessi illeciti, si rivolga al debitore con violenza o minaccia per ottenerne l restituzione, a meno che risulti inequivocabilmente accertato l’intervento, prima dell’esercizio della violenza o della minaccia, di una totale novazione del rapporto tra le parti, con sostituzione, rispetto al credito originario, della pretesa della so somma capitale ovvero di altra somma gravata da interessi legittimi (Sez. 2, n. 26235 del 12/05/2017, Nicosia, Rv. 269968-01).
Nel caso in esame, poiché, sulla base ch quanto si è detto con riguardo al primo motivo di ricorso, risulta la pattuizione di interessi illeciti, in quanto usura sia iniziale sia in sede di rinegoziazione del rapporto tra la persona offesa e l’imputato – senza, quindi, una novazione dello stesso rapporto che prevedesse la pretesa, da parte del NOME, della sola somma capitale (o di altra somma gravata da interessi legittimi) – ne consegue che del tutto correttamente, in conformità con la citata giurisprudenza della Corte di cassazione, i giudici di merito hanno ritenuto integrato il reato di tentata estorsione e non quello di tentato esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Il terzo motivo e il secondo motivo nuovo – i quali motivi, concernendo entrambi l’affermazione di responsabilità per il reato di usura continuata e pluriaggravata di cui al capo 3) dell’imputazione, possono essere esaminati congiuntamente – sono manifestamente infondati.
Tali motivi sono manifestamente infondati, anzitutto, là dove contestano l’utilizzabilità delle dichiarazioni che erano state rese dalla persona offesa NOME COGNOME, atteso che: a) come è stato esattamente evidenziato dalla Corte d’appello di Napoli, nessuna reticenza dello COGNOME poteva essere ritenuta per il fatto che
questi, il 21/09/2020, non aveva dichiarato nulla in ordine all’usura che aveva subito da parte del NOME, atteso che, in tale occasione, lo COGNOME era stato chiamato a riferire in ordine al diverso reato di usura di cui era stata vittima la su compagna NOME COGNOME e non lui stesso; b) nessuna deliberata reticenza dello COGNOME può essere parimenti ritenuta per il mero fatto che egli, sempre il 21/09/2020, non avesse riferito il solo episodio di essere stato avvicinato da tale “COGNOME“, atteso anche che, come appare emergere dall’atto di appello del NOME (pag. 24), il «pentimento» manifestato dallo COGNOME il successivo 25/09/2020 appare significare non tanto il riconoscimento di una sua deliberata reticenza per non avere riferito il suddetto episodio quanto un suo mutamento di opinione nel senso di riferire anche i fatti di usura di cui egli stesso era stato vittim da parte del COGNOME; c) la tesi del ricorrente secondo cui, a carico dello COGNOME, sarebbero emersi indizi di reità per concorso nell’usura ai danni della NOME o per favoreggiamento reale risulta evidentemente smentita dal fatto che, dalle sentenze impugnate, non risulta che alcun procedimento penale sia mai stato iscritto a carico dello COGNOME per tali reati.
Quanto all’attendibilità delle dichiarazioni rese dallo COGNOME il 25/09/2020 con riguardo ai fatti di cui al capo 3) dell’imputazione, le conformi sentenze dei giudici di merito hanno ritenuto l’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, anche in quanto esse avevano trovato riscontro nelle dichiarazioni della sorella NOME COGNOME (che aveva aiutato il fratello a fare fronte ai propri debiti che, aveva appreso, egli aveva nei confronti proprio del COGNOME) e del fratello NOME COGNOME (che aveva confermato quanto era stato dichiarato dal fratello e dalla sorella e che aveva anche riferito di essersi recato, insieme alla persona offesa, dal AVV_NOTAIO per chiedergli una dilazione dei pagamenti e che l’imputato aveva chiesto minacciosamente la restituzione del denaro; pag. 24 della sentenza di primo grado).
A fronte di ciò, la Corte d’appello di Napoli ha ritenuto che alcune incongruenze nel racconto della persona offesa in ordine al periodo dell’usura da lui subita, anche in relazione al fatto che il NOME era stato sottoposto a un periodo di detenzione, non fossero tali da elidere la credibilità del racconto della persona offesa nel suo complesso, anche in quanto, come si è detto, confermato dalla testimonianza dei due fratelli.
Tale motivazione dell’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa appare priva di manifeste contraddizioni, sicché essa sfugge a censure in questa sede di legittimità.
Quanto alla doglianza relativa alla determinazione della misura del tasso di interesse praticato, si deve osservare che, a fronte di una motivazione del Tribunale di Noia che, tenuto conto della cadenza mensile degli incontri, degli
importi degli assegni dati dallo COGNOME al NOME e della somme da questi corrisposte al primo, aveva considerato un periodo di restituzione di un mese, così pervenendo a un tasso applicato del 145,60%, il COGNOME, nel proprio atto di appello (pagg. 23-38), aveva omesso qualsiasi contestazione al riguardo, con le conseguenze che legittimamente la Corte di appello di Napoli non ha motivato in proposito e che la doglianza si appalesa come nuova, in quanto prospettata per la prima volta davanti a questa Corte e, perciò, non ammissibile.
Il quarto motivo è manifestamente infondato.
La Corte di cassazione ha chiarito che la disciplina della prescrizione più favorevole in riferimento ai reati di usura commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, la quale ha contestualmente modificato i termini di prescrizione dei reati in generale e ha aumentato la pena detentiva edittale massima per il reato di usura portandola da sei a dieci anni, è quella contenuta nell’indicata novella. La Corte ha escluso in motivazione che l’applicazione del nuovo più breve termine prescrizionale pararnetrato alla pregressa più lieve pena si risolva nell’indebita creazione di una tertia lex (Sez. 2, n. 26312 del 22/06/2010, COGNOME, Rv. 247743-01).
Posto tale principio, al fine di determinare il tempo necessario a prescrivere il reato di usura in considerazione, si ha: sei anni (massimo della pena edittale stabilita dalla legge); aumentati della metà per la circostanza aggravante di cui al quinto comma dell’art. 644 cod. pen. e, quindi, a nove anni; aumentati di due terzi per la recidiva reiterata specifica e, quindi, a quindici anni.
Pertanto, assumendo come data di consumazione del reato, come indicato dalla sentenza impugnata e accettato dal ricorrente, il 01/12/2005, il reato si sarebbe prescritto il 01/12/2020. Tale prescrizione è stata peraltro interrotta, prima di tale data, dalla richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero contenente l’enunciazione del fatto di reato e delle circostanze aggravanti.
Il quinto motivo è fondato.
Pur avendo dato atto, nel riassunto dei motivi di appello (pag. 2 della sentenza impugnata) del motivo di appello con il quale il NOME aveva chiesto l’esclusione delle circostanze aggravanti di cui al n. 3) e al n. 4) del quinto comma dell’art. 644 cod. pen. con riferimento a entrambi i reati di usura di cui ai capi 1) e 3) dell’imputazione (motivo di appello che figura alle pagg. 41-42 dell’atto di appello del NOME), la Corte d’appello di Napoli, come è stato esattamente rilevato dal ricorrente, ha motivato la sussistenza delle suddette due circostanze aggravanti con riferimento soltanto al reato di usura di cui al capo 3) dell’imputazione, senza assolutamente nulla dire in ordine alla sussistenza delle medesime circostanze aggravanti con riferimento al reato di usura di cui al capo 1) dell’imputazione;
circostanze aggravanti che avevano determinato un aumento, rispetto alla pena base di tale reato, di un anno e sei mesi di reclusione ed C 3.000,00 di multa.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al riconoscimento delle suddette circostanze aggravanti con riferimento al reato di cui al capo 1) dell’imputazione e al conseguente trattamento sanzionatorio, con rinvio a un’altra sezione della Corte d’appello di Napoli per un nuovo giudizio sul punto.
6. Il sesto motivo è manifestamente infondato.
Quanto all’applicazione della recidiva, la Corte di cassazione ha affermato il principio che è richiesta al giudice una specifica motivazione sia che egli affermi sia che escluda la sussistenza della stessa (Sez. 6, n. 56972 del 20/06/2018, COGNOME, Rv. 274782-01). In motivazione, la Corte ha chiarito che tale dovere risulta adempiuto nel caso in cui, con argomentazione succinta, si dia conto del fatto che la condotta costituisce significativa prosecuzione di un processo delinquenziale già avviato.
In senso sostanzialmente analogo, è stato affermato che l’applicazione dell’aumento di pena per effetto della recidiva facoltativa attiene all’esercizio di un potere discrezionale del giudice, del quale deve essere fornita adeguata motivazione, con particolare riguardo all’apprezzamento dell’idoneità della nuova condotta criminosa in contestazione a rivelare la maggior capacità a delinquere del reo (Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dei:. 2015, Gordyusheva, Rv. 26346401).
Più diffusamente, la stessa Corte di cassazione ha precisato che, ai fini della rilevazione della recidiva, intesa quale elemento sintomatico di un’accentuata pericolosità sociale del prevenuto, e non come fattore meramente descrittivo dell’esistenza di precedenti penali per delitto a carico dell’imputato, la valutazione del giudice non può fondarsi esclusivamente sulla gravità dei fatti e sull’arco temporale in cui questi risultano consumati, essendo egli tenuto a esaminare in concreto, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., il rapporto esistente tr fatto per cui si procede e le precedenti condanne, verificando se e in quale misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto che abbia influito quale fattore criminogeno per la commissione del reato sub iudice (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, Del Chicca, Rv. 270419-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Napoli ha applicato la recidiva ritenendo che i reati di usura continuata e pluriaggravata ai danni di NOME COGNOME, tentata estorsione continuata e aggravata sempre ai danni della NOME e usura continuata e pluriaggravata ai danni d NOME COGNOME, posti in relazione con le plurime precedenti condanne riportate dal NOME, fossero dimostrativi della negatività della personalità dell’imputato, la quale era evidenziata da una
«condotta di vita» dello stesso connotata dalia sistematica violazione delle norme di convivenza e dall’approfittare delle condizioni di difficoltà degli altri, ricorren quando le vittime incorrevano in difficoltà ulteriori, anche a condotte insidiose e violente.
Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un discrezionale giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità.
Il settimo motivo è inammissibile, attesa l’inammissibilità, per difetto di specificità, del motivo di appello del ricorrente relativo alla richiesta concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, n. 6), cod. pen.
Con tale motivo di appello, il NOME, dopo avere premesso che la COGNOME non avrebbe subito alcun danno materiale – e che, quindi, l’unhco danno risarcibile sarebbe stato quello morale – deduceva che «il NOME ha provveduto ad effettuare tempestivamente il deposito reale, a favore della COGNOME, di una somma largamente sufficiente a compensarlo, ammesso che fosse stato prodotto» (pag. 42 dell’atto di appello del NOME).
Tale motivo appare del tutto privo della necessaria specificità, atteso che, a fronte di una sentenza di primo grado che aveva rilevato come non fossero stati offerti elementi per la quantificazione del danno, non indicava né la somma che sarebbe stata offerta né i tempi della stessa offerta (tenuto conto che questa, nel giudizio abbreviato, deve intervenire prima che sia pronunciata l’ordinanza di ammissione al rito; ex plurimis: Sez. 5, n. 223 del 27/09/2022, dep. 2023, Casagrande, Rv. 284043-01).
Il Collegio ritiene perciò di dovere dichiarare l’inammissibilità del motivo di appello per difetto di specificità, ancorché non rilevata dalla Corte d’appello di Napoli, ai sensi del comma 4 dell’art. 591 cod, proc. pen. Si deve infatti ribadire il principio secondo cui l’inammissibilità dell’appello per difetto di specificità de motivi rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata è rilevabile anche nel giudizio di cassazione, a norma dell’art. 591, comma 4, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, COGNOME, Rv. 270799-01; Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., Rv. 271193-01).
Dalla dichiarata inammissibilità del motivo di appello per difetto di specificità discende la conseguente inammissibilità del corrispondente motivo di ricorso per cassazione.
L’ottavo motivo è manifestamente infondato.
In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o
dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269-01; nella specie, la Corte di cassazione ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’esclusione delle attenuanti generiche, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell’imputato).
Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli fac riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altr disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, COGNOME, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244-01).
Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare allo scopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549-01; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, COGNOME, Rv. 249163-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Napoli ha confermato il diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenendo decisivi e prevalenti, a tale fine, gli elementi della gravità della condotta dell’imputato e della sua negativa personalità, anche alla luce dei suoi precedenti penali che avevano comportato la contestazione della recidiva reiterata, così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli dedot dall’imputato.
Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità.
9. Il nono motivo è manifestamente infondato.
La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tante, Se 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283-01).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri
di cui all’art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243-01).
Nel caso di specie, la pena base irrogata di tre anni di reclusione ed C 6.000,00 è al di sotto della media edittale della pena per il delitto di cui all’art. 644 (pa ratione temporis, a tre anni e sei mesi di reclusione ed C 9.225,00 di multa), con la conseguenza che l’obbligo di motivazione ben può ritenersi assolto dalla Corte d’appello di Napoli mediante il riferimento alla gravità della condotta dell’imputato e alla sua negativa personalità, quale risultava anche dai suoi precedenti penali.
10. Il decimo motivo è manifestamente infondato.
La Corte d’appello di Napoli ha ritenuto che, dalla commissione dei reati di usura e di tentata estorsione ai danni di NOME, fosse derivato alla stessa NOME un danno sia patrimoniale sia morale.
Tale conclusione, in particolare per quanto riguarda il danno morale – la cui valutazione è affidata a un apprezzamento discrezionale ed equitativo del giudice di merito -, in quanto frutto di un giudizio di fatto non manifestamente illogico, si sottrae al sindacato in questa sede di legittimità.
11. L’undicesimo motivo è manifestamente infondato.
La Corte di cassazione ha chiarito che, nel giudizio abbreviato, è tempestiva la costituzione di parte civile intervenuta in epoca successiva alla conoscenza dell’ordinanza che dispone il giudizio ex art. 441, comma 2, cod. proc. pen., purché antecedentemente alla dichiarazione di apertura della discussione ai sensi dell’art. 421, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 40923 del 30/05/2018, I., Rv. 27392701, la quale, in applicazione di tale principio, ha ritenuto legittima la decisione de giudice di merito che, verificata la regolare costituzione delle parti e ammesso l’imputato al giudizio abbreviato condizionato, senza dichiarare l’apertura della discussione, aveva ammesso la costituzione della parte civile all’udienza successiva fissata per la convocazione dei penti. Nello stesso senso: Sez. 3, n. 27274 del 15/06/2010, F., Rv. 247923-01).
Pertanto, diversamente da quanto mostra di ritenere il ricorrente, la costituzione di parte civile di RAGIONE_SOCIALE non può essere ritenuta tardiva per il solo fatto di essere intervenuta «dopo l’ammissione dell’imputato al giudizio abbreviato».
12. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al riconoscimento delle aggravanti contestate al capo 1) dell’imputazione e al conseguente trattamento sanzionatorio, con rinvio, per un
nuovo giudizio sul punto, a un’altra sezione della Corte d’appello di Napoli. Il ricorso deve, invece, essere dichiarato inammissibile nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al riconoscimento delle aggravanti contestate al capo 1 ed al conseguente trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso il 12/01/2024.