Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 9996 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 5 Num. 9996 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 13/02/2025
ORDINANZA
sui ricorsi proposti da
COGNOME SalvatoreCOGNOME nato a Capizzi il 29/01/1976,
COGNOME NOME nata a Capizzi il 10/01/1967
NOMECOGNOME nata a Capizzi il 29/01/1976
COGNOME NOMECOGNOME nata a Capizzi il 06/06/1943
avverso il decreto del 08/08/2024 della Corte di appello di Catania visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per la rimessione dei ricorsi alle Sezioni Unite e, in subordine, per il rigetto dei ricorsi;
lette le richieste dei difensori dei ricorrenti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME che hanno concluso per l’accoglimento dei ricorsi, previa rimessione alle Sezioni Unite della questione relativa alla nozione di prova nuova ai fini della revoca della misura di prevenzione patrimoniale ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1423 del 1956;
lette le richieste del difensore del ricorrente NOME COGNOME, avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. Con il decreto indicato in epigrafe la Corte di appello di Catania ha confermato il decreto del 16 novembre 2022 del Tribunale di Catania che aveva dichiarato inammissibile l’istanza, avanzata da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, quali eredi di NOME COGNOME, nato a Capizzi il 20 marzo 1938 e deceduto in data 11 ottobre 2021, di revoca della misura di prevenzione disposta in data 27 ottobre 2014 a carico del de cuius.
Con quest’ultimo decreto NOME COGNOME era stato sottoposto alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per anni due con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza ed era stata disposta la confisca di vari beni intestati al predetto ed ai suoi congiunti, in quanto indiziato di appartenere all’associazione di tipo mafioso denominata Cosa Nostra. Il decreto applicativo era stato confermato in appello con provvedimento del 10 maggio 2019 ed era poi divenuto definitivo a seguito della sentenza di questa Corte di cassazione n. 34523 del 5 ottobre 2020, che aveva dichiarato inammissibili i ricorsi proposti da NOME COGNOME e dai terzi interessati NOME COGNOME NOME COGNOME ed NOME COGNOME e dalla RAGIONE_SOCIALE
Con l’istanza suddetta gli eredi di NOME COGNOME hanno chiesto la revoca del decreto applicativo delle predette misure di prevenzione, sostenendo che doveva applicarsi, ratione temporis, l’art. 7 della legge n. 1423 del 27 dicembre 1956, che essi, in qualità di eredi, potevano esperire il mezzo straordinario di impugnazione riservato al de cuius e che con la loro istanza intendevano dimostrare, sia sulla base di prove sopravvenute, sia sulla base di prove non dedotte o comunque non valutate in seno al procedimento applicativo, il difetto originario dei presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione, ossia la pericolosità di NOME COGNOME e comunque l’origine lecita della risorse impiegate per acquistare i beni di cui era stata disposta la confisca.
Quanto al profilo della pericolosità di NOME COGNOME, nell’istanza di revoca si è segnalato che con decreto del 29 giugno 2015 la Corte di appello di Palermo aveva escluso la pericolosità qualificata di NOME COGNOME, imprenditore nel settore dell’energia eolica, indiziato di avere legami con Cosa Nostra e che proprio sui rapporti di NOME COGNOME con NOME COGNOME poggiava il giudizio di pericolosità qualificata del de cuius.
Con riguardo all’origine delle risorse impiegate per gli acquisti dei beni confiscati, è stata prodotta ampia documentazione «scoperta» solo dopo la morte di NOME COGNOME in quanto riposta all’interno di una borsa e di una valigetta che si trovavano in una stanza di un immobile oggetto di sequestro eseguito nel 2014 e poi restituite ai ricorrenti solo dopo la morte di NOME COGNOME.
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Il Tribunale ha dichiarato inammissibile l’istanza ritenendo che le prove poste a suo sostegno non fossero sopravvenute alla conclusione del procedimento applicativo delle misure di prevenzione e la loro omessa allegazione in seno a quest’ultimo fosse addebitabile all’inerzia di NOME COGNOME
La Corte di appello, nel confermare il decreto del Tribunale di Catania del 16 novembre 2022, che aveva dichiarato inammissibile l’istanza di revoca, ha affermato che, come già motivato dal Tribunale, doveva applicarsi l’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 e che ciononostante erano ad essa estensibili i principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza «COGNOME» (Sez. U, n. 43668 del 26/05/2022, COGNOME, Rv. 283707) in relazione alla revocazione della confisca di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, cosicché, non essendo state poste prove nuove o comunque decisive a sostegno dell’istanza di revoca, questa doveva ritenersi inammissibile.
Avverso detto decreto ha proposto ricorso NOME COGNOME a mezzo del suo difensore, chiedendone l’annullamento ed articolando un unico e complesso motivo con il quale lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la violazione dell’art. 7 della legge n. 1423 del 1956.
2.1. Sostiene che i principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza sopra citata si riferiscono esclusivamente alla revocazione della confisca disposta ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, da ricondurre alla revocazione della sentenza civile ex art. 395 cod. proc. civ. stante il carattere non punitivo della confisca, ma meramente ripristinatorio della situazione precedente all’illecita acquisizione del bene, e non sono applicabili alla revoca prevista dal citato art. 7, che, secondo le sentenze delle Sezioni Unite «COGNOME» (Sez. U, n. 18 del 10/12/1997, dep. 1998, COGNOME, Rv. 210041) e «COGNOME» (Sez. U, n. 57 del 19/12/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 234955), è volta ad attuare in relazione alla misura di prevenzione una forma di revisione quale quella di cui all’art. 629 cod. proc. pen.
Sul concetto di prova nuova, le sentenze delle Sezioni Unite «COGNOME» (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, dep. 2002, COGNOME, Rv. 220443) e «Auddino» hanno accolto una interpretazione estensiva, includendo tra le «prove nuove» anche le prove non acquisite nel precedente giudizio, oppure acquisite ma non valutate, neppure implicitamente.
Riconducendo, invece, la revocazione di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011 alla revocazione della sentenza civile ex art. 395 cod. proc. civ., incidente su interessi esclusivamente patrimoniali, si perviene ad una nozione di prova nuova molto più restrittiva, per cui è prova sopravvenuta solo quella formatasi dopo la conclusione del procedimento di prevenzione o quella preesistente ma incolpevolmente scoperta solo dopo che la misura sia divenuta definitiva, con
esclusione di quella deducibile e non dedotta nell’ambito del suddetto procedimento, in assenza di forza maggiore o caso fortuito.
Non è quindi possibile assimilare tra loro le due forme di revocazione, altrimenti si verrebbero ad applicare retroattivamente alla revocazione ex art. 7 della legge n. 1423 del 1956 le norme più rigorose e restrittive introdotte dal d.lgs. n. 159 del 2011; una simile interpretazione non trova alcun riscontro nella sentenza delle Sezioni Unite «Lo Duca» che, invece, pone in risalto la diversità sostanziale delle due forme di revocazione; il ricorrente invoca a sostegno di tale assunto anche una recente sentenza della Sesta Sezione penale (Sez. 6, n. 7009 del 08/11/2023, dep. 2024, COGNOME, non massimata).
Dovendo accogliersi, ai fini del citato art. 7, una nozione di «prova nuova» più estesa di quella fissata dalle Sezioni Unite per l’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, la Corte di appello avrebbe dovuto valutare la documentazione bancaria relativa agli anni ’70 e ’80 riferita ai coniugi COGNOME i contributi RAGIONE_SOCIALE percepiti tra il 1988 ed il 2010, le consulenze tecniche di parte e i verbali delle indagini difensive.
L’omessa tenuta della documentazione attestante l’erogazione di contributi percepiti in tempi remoti non sarebbe addebitabile al ricorrente, che agisce nella qualità di erede di NOME COGNOME e nemmeno a quest’ultimo, non essendo possibile prevedere l’applicazione della misura patrimoniale e quindi attivarsi per conservare la documentazione contabile.
Negare la possibilità di far valere elementi esistenti, ma mai valutati in quanto non nella disponibilità del proposto e dei suoi eredi, rappresenterebbe un’ingiustificata limitazione del diritto di difesa e del diritto di proprietà, lesiva de artt. 6 CEDU e 1 Protocollo addizionale CEDU, nonché degli artt. 24 e 42 Cost.
2.2. Aggiunge il ricorrente che in ogni caso la tardiva produzione documentale è giustificata dalla circostanza che solo nel 2023 era stato possibile ottenere dall’AGEA la documentazione, relativa ai contributi percepiti da NOME COGNOME e NOME COGNOME dal 1998 al 2010; inoltre, solo dopo la morte di NOME COGNOME era stata ritrovata – in data 3 giugno 2021, a seguito di convocazione degli eredi del proposto ad opera dell’amministratore giudiziario onde recuperare effetti personali rinvenuti nell’abitazione di NOME COGNOME, oggetto di sgombero nel 2014 – una borsa contenente documentazione contabile relativa ai contributi percepiti dal 1980 al 2000.
Solo grazie a tale ritrovamento era stata poi estesa la ricerca della documentazione, inoltrando apposita richiesta alla AGEA.
Acquisita la documentazione era stato poi possibile, tramite i consulenti di parte, ricostruire i flussi contabili sin dal 1973 e dimostrare che i due coniugi avevano sempre avuto risorse sufficienti per poter procedere agli investimenti
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effettuati nel corso degli anni.
Non poteva definirsi doloso o colposo il comportamento di NOME COGNOME e dei suoi eredi, avendo questi dimostrato di avere ritrovato la documentazione in data certa e di essersi poi attivati per acquisire l’ulteriore documentazione mancante, anche chiedendo alla Corte di appello di ordinare all’AGEA il rilascio dei documenti necessari. Neppure poteva pretendersi che NOME COGNOME conservasse documentazione contabile per un periodo superiore ai dieci anni.
2.3. Il ricorrente afferma anche che erroneamente la Corte di appello ha ritenuto «nuovo» e quindi inammissibile il motivo volto a dimostrare che NOME COGNOME gestiva autonomamente una ditta individuale e disponeva di redditi adeguati derivati dall’erogazione dei contributi comunitari in favore delle aziende agricole, atteso che nel procedimento diretto all’applicazione della misura di prevenzione i due coniugi erano stati considerati un unico nucleo familiare ai fini della valutazione della congruità dei redditi rispetto agli acquisti.
2.4. Quanto poi alla irrilevanza della documentazione, motivata dalla Corte di appello osservando che i contributi non erano idonei a generare ricchezza, dovendo essi essere investiti nell’azienda, il ricorrente osserva che, seguendo siffatto ragionamento, non si sarebbe dovuto tenere conto, al fine di valutare la congruità del patrimonio con gli investimenti, anche delle spese sostenute per la prosecuzione dell’attività aziendale. Nell’effettuare tale valutazione non era corretto considerare solo i costi sostenuti e non anche i ricavi conseguiti, anche sotto forma di contributi.
Avverso detto decreto hanno proposto ricorso anche NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME quali eredi di NOME COGNOME a mezzo dei loro difensori, chiedendone l’annullamento ed articolando quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo lamentano la violazione dell’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 quanto alla nozione di prova nuova da utilizzare nelle ipotesi di «revoca in funzione di revisione» della confisca.
Il motivo è sostanzialmente coincidente con la principale censura del ricorso di NOME COGNOME.
Sostengono che ai fini della citata disposizione non possa trovare applicazione il concetto di «prova nuova» indicato dalle Sezioni Unite con la sentenza «Lo Duca» sopra citata per l’ipotesi di revocazione della confisca di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici del merito, non vi sarebbe identità sostanziale tra la revoca in funzione di revisione prevista dall’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 e la revocazione di cui al citato art. 28.
Tale assimilazione sarebbe smentita dalla motivazione della sentenza «Lo Duca» delle Sezioni Unite, non ancora pubblicata quando il Tribunale aveva
depositato il decreto di inammissibilità dell’istanza di revoca, e dalla dottrina e dalla giurisprudenza che, successivamente a detta sentenza, avevano sostenuto che detto concetto di prova nuova non fosse estensibile al rimedio della revoca di cui al citato art. 7.
La Corte di appello ha affermato che poiché, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, l’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011 tende a recepire e formalizzare l’operazione ermeneutica realizzata in relazione all’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 per colmare un vuoto normativo che aveva determinato rilevanti problemi e quindi la ratio delle due disposizioni sarebbe la medesima, dovrebbe concludersi per l’assimilabilità dei due istituti e quindi la necessità di adottare per entrambi il medesimo concetto di prova nuova fissato dalle Sezioni Unite con la sentenza «Lo Duca».
Sostengono i ricorrenti che, invece, la motivazione della sentenza delle Sezioni Unite sarebbe ben diversa, poiché nel ricostruire l’evoluzione giurisprudenziale della revoca di prevenzione sarebbe stata evidenziata l’autonomia dei due istituti. In particolare, nella sentenza «Lo Duca» viene richiamata la sentenza delle Sezioni Unite «Pisco» per segnalare che, secondo quest’ultima, quanto alla definizione dei presupposti operativi del meccanismo revocatorio, «emergevano, in particolare, due direttrici argomentative utilizzate al fine di legittimare l’attivazione dell’istanza di revoca: la novità degli elementi prospettati a sostegno della richiesta e, qualora fosse stato invocato il difetto genetico dei presupposti applicativi della misura di prevenzione personale, la non necessità che quegli elementi si riferissero ad eventi sopravvenuti alla sua adozione, purché si trattasse, in ogni caso, di circostanze non valutate nel corso del relativo giudizio».
La sentenza «Lo Duca» ha richiamato anche i principi della sentenza «Auddino» che aveva «ulteriormente ampliato gli effetti della richiamata linea interpretativa anche nel settore delle misure di prevenzione patrimoniali, sottolineando che, in caso contrario, sarebbe perdurata nel sistema una inaccettabile carenza di strumenti normativi in grado di dare attuazione al disposto di cui all’art. 24, terzo comma, Cost., là dove si impone di determinare con la legge le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».
La sentenza «RAGIONE_SOCIALE» ha posto in evidenza che in relazione alla revoca di cui all’art. 7 citato vi è un orientamento secondo il quale la revoca della confisca di prevenzione per difetto genetico dei presupposti può essere disposta sia in presenza di prove sopravvenute alla conclusione del procedimento di applicazione della misura di prevenzione, sia in presenza di prove già esistenti, ma mai valutate nel corso del procedimento; nella sentenza è stato segnalato anche un orientamento più restrittivo e tuttavia l’indirizzo più estensivo è stato ribadito e
sviluppato in una serie di pronunce relative all’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 anche successive all’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011, nelle quali si evidenzia che la revoca di cui al citato art. 7 ricalca il meccanismo della revisione ex art. 629 cod. proc. pen. con conseguente adozione del concetto di prova nuova già elaborato in sede giurisprudenziale per la revisione.
Quanto, invece, alla revocazione di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, le Sezioni Unite hanno dapprima posto in evidenza che tale istituto è il risultato di una innovazione normativa volta ad introdurre uno strumento differente dalla revoca ex art. 7 cit. ed assimilabile alla revocazione civilistica di cui all’art. 395 cod. proc. civ. e poi hanno segnalato che proprio nella diversa nozione di prova nuova risiede la principale differenza tra i due istituti.
I ricorrenti concludono, quindi, che il decreto impugnato ha illegittimamente esteso alla revoca ex art. 7 legge n. 1243 del 1956 la nozione di prova nuova fissata dall’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, trattandosi di due istitut diversamente disciplinati dal legislatore.
Né potrebbe sostenersi che la giurisprudenza formatasi in relazione al citato art. 28 sia una mera evoluzione interpretativa di quella elaborata in merito all’art. 7 della legge n. 1423 del 1956, come riconosciuto anche da autorevole dottrina.
In ogni caso, aggiungono i ricorrenti, le Sezioni Unite, con la sentenza «Lo Duca», si sono pronunciate esclusivamente in relazione alla revocazione di cui all’art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011, che è la sola disposizione citata nel principio di diritto espresso con detta sentenza.
La circostanza che con il citato art. 28 il legislatore abbia inteso colmare un vuoto normativo che in precedenza la giurisprudenza aveva coperto con le sentenze delle Sezioni Unite «Pisco» e «Auddino» non varrebbe da sola a far concludere che vi sia stata un’assimilazione tra i due istituti.
Peraltro, anche la giurisprudenza e la dottrina successive alla sentenza «RAGIONE_SOCIALE» hanno ritenuto che i principi in essa affermati possano trovare applicazione solo in relazione alla revocazione disciplinata dall’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011.
Pure i ricorrenti richiamano la sentenza di questa Corte di cassazione n. 7009 del 8 novembre 2023, depositata nel 2024, già citata nel ricorso di NOME COGNOME la quale, dopo avere affermato che deve trovare applicazione, in virtù della disciplina transitoria di cui all’art. 117 del d.lgs. n. 159 del 2011, l’art. 7 de legge n. 1423 del 1956, richiama i principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite «Auddino» in relazione alla nozione di «prova nuova», che comprende anche le prove non valutate neppure implicitamente nel procedimento applicativo della misura di prevenzione, secondo il criterio che regola l’istituto della revisione, per poi affermare che tale orientamento estensivo è stato parzialmente rivisto, ma solo per la definizione di «prova nuova» rilevante ai fini dell’istituto della
revocazione della misura ablatoria ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011. Ne deriva che ai fini di cui al citato art. 7 tale orientamento giurisprudenziale più estensivo resta pienamente applicabile.
In ogni caso, la sentenza della Sesta Sezione penale appena citata riconosce che vi sono due diversi istituti in relazione ai quali operano due concetti di prova nuova anch’essi differenti.
3.2. Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 in relazione alla nozione di «prova nuova» impiegata con riguardo alla revoca della misura di prevenzione personale e la violazione dell’art. 666 cod. proc. pen. in riferimento alla valutazione degli elementi di prova addotti dalla difesa.
Segnalano che nell’istanza di revoca della misura personale era stata dedotta l’insussistenza della pericolosità qualificata di NOME COGNOME la quale era alla base delle misure di prevenzione personali e patrimoniali disposte a suo carico.
Il principale elemento che aveva condotto a ritenere che NOME COGNOME «appartenesse» ad un’associazione mafiosa era il suo rapporto con NOME COGNOME, identificato come referente della famiglia mafiosa dei COGNOME nel settore delle energie rinnovabili. In particolare, la vendita della società RAGIONE_SOCIALE da parte di NOME COGNOME e dei suoi familiari ad una società del gruppo COGNOME era stata ritenuta volta a favorire l’infiltrazione mafiosa nel settore dell’energia eolica e tale conclusione si basava sulla ritenuta appartenenza del COGNOME al clan mafioso dei COGNOME, che a sua volta si fondava sul decreto con il quale nel 2021 il Tribunale di Trapani aveva disposto a carico del COGNOME la confisca della RAGIONE_SOCIALE. L’appartenenza del COGNOME al clan COGNOME era stata sconfessata nel giudizio di impugnazione di detto decreto, in quanto la Corte di appello l’aveva esclusa ed aveva mantenuto ferma la confisca fondandola sulla mera pericolosità generica del COGNOME; inoltre, NOME COGNOME era stato anche prosciolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa dalla Corte di appello di Palermo con sentenza datata 8 aprile 2023.
Pertanto, sostengono i ricorrenti, non si può affermare che la cessione della società COGNOME da parte di NOME COGNOME in favore di una società del Nicastri fosse diretta a favorire il progetto di infiltrazione di Cosa Nostra nel settore delle energie rinnovabili, né i proventi in tal modo conseguiti possono ritenersi illeciti e tanto porta a ritenere che la sentenza di assoluzione costituisca prova nuova.
Alla luce della sentenza della Corte EDU «COGNOME», la nozione di appartenenza va circoscritta alle sole ipotesi in cui il proposto abbia effettivamente reso un contributo fattivo e funzionale agli interessi della struttura criminale.
I ricorrenti passano in rassegna gli elementi diversi dal rapporto con il Nicastri presi in considerazione per applicare la misura di prevenzione per evidenziare
come dagli stessi non emerga un siffatto contributo.
Segnalano poi che la Corte territoriale, con il decreto qui impugnato, ha affermato che il decreto della Corte di appello pronunciato nei confronti del Nicastri, con il quale era stata esclusa la pericolosità qualificata di quest’ultimo, non è una prova nuova, perché avrebbe potuto essere depositato nel giudizio di secondo grado del procedimento a carico di NOME COGNOME; la Corte di merito aveva affermato che in ogni caso, anche laddove il provvedimento pronunciato nei confronti del Nicastri fosse ritenuto una prova nuova, i rapporti con il COGNOME erano solo uno degli elementi dai quali era stata desunta la pericolosità qualificata di NOME COGNOME e che, nel ritenere tale elemento decisivo, la difesa pretendeva una rivalutazione del giudizio di pericolosità, rimettendo in discussione quanto già accertato con carattere di definitività.
La Corte di appello ha, invece, reputato prova nuova la sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti del Nicastri, ma l’ha comunque considerata non idonea a fornire elementi di rivalutazione, poiché con essa si mirava ad un riesame della pericolosità dello Scinardo alla luce della circostanza che il Nicastri, con il quale aveva avuto rapporti, non era da ritenersi soggetto pericoloso. In ogni caso si trattava di sentenza non definitiva e come tale non utilizzabile.
Inoltre, la Corte di appello ha comunque richiamato la sentenza della Corte di cassazione che aveva reso definitiva la misura di prevenzione e che aveva affermato che dai perduranti rapporti di NOME COGNOME con plurimi esponenti di associazioni mafiose con ruoli apicali emergeva la continuativa disponibilità del proposto ad agevolare il raggiungimento delle finalità illecite del sodalizio mafioso.
I ricorrenti sostengono che le conclusioni cui è pervenuta la Corte di appello con il provvedimento qui impugnato non possono essere condivise, poiché, anche laddove si ipotizzasse una continuità tra la disciplina dell’art. 7 della legge n. 1243 del 1956 e quella dell’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, dovrebbe considerarsi che il citato d.lgs. prevede per le misure di prevenzione personali un differente e specifico strumento revocatorio disciplinato dal comma 2 dell’art. 11.
Vi è continuità normativa tra il citato art. 7 e l’art. 11 d.lgs. n. 159 del 2011, atteso che le due disposizioni sono caratterizzate dal medesimo testo e ancorano la revocabilità delle misure di prevenzione alla cessazione o al mutamento delle cause che ne hanno determinato l’applicazione.
L’esclusiva operatività dell’art. 11 in ordine alla revoca delle misure di prevenzione personali è stata anche confermata dalla sentenza «Lo Duca» che a sua volta ha richiamato la sentenza «Fiorentino» (Sez. U, n. 3513 del 16/12/2021, dep. 2022, Fiorentino, Rv. 282474).
Pertanto, al fine di valutare l’ammissibilità delle prove nuove volte alla revoca della misura di prevenzione personale occorre fare esclusivo riferimento alla
elaborazione giurisprudenziale relativa all’art. 11 d.lgs. n. 159 del 2011.
Il decreto emesso dalla Corte di appello nel procedimento di prevenzione a carico del Nicastri integra, quindi, una prova nuova sia laddove si applichi l’art. 7 della legge n. 1423 del 1956, sia qualora si applichi l’art. 11 del d.lgs. n. 159 del 2011.
In ogni caso, anche laddove si applicasse l’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, la nozione di prova nuova applicata dalla Corte territoriale risulta eccessivamente restrittiva, atteso che la sentenza delle Sezioni Unite «Lo Duca» fa rientrare in tale nozione anche la prova preesistente, ma incolpevolmente scoperta dopo che la misura è divenuta definitiva.
NOME COGNOME, anche in virtù del suo livello culturale, soprattutto in ambito giuridico, non aveva avuto la possibilità di seguire l’andamento del procedimento volto all’applicazione della misura di prevenzione a carico di NOME COGNOME mentre la Corte di merito aveva ritenuto che la mancata produzione del decreto pronunciato in secondo grado in detto procedimento fosse ascrivibile a negligenza di NOME COGNOME e del suo difensore. In contrario i ricorrenti osservano che non si poteva pretendere da NOME COGNOME e dal suo difensore il costante monitoraggio di tutti i procedimenti pendenti in altri distretti a carico di altri soggetti.
I ricorrenti sostengono che gli argomenti sopra esposti devono a maggior forza valere in relazione alla sentenza di proscioglimento dalla imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa pronunciata nei confronti del Nicastri.
La motivazione della Corte di appello, che ha sostenuto l’inutilizzabilità di una sentenza non ancora divenuta irrevocabile, si pone in contrasto con il pacifico orientamento giurisprudenziale che attribuisce rilievo probatorio anche alle sentenze non definitive ed integra, quindi, una violazione dell’art. 666 cod. proc. pen.
Quanto a quello che la Corte di merito definisce il «merito della questione», nell’atto di appello si erano indicate le ragioni per le quali dai residui elementi non emergeva alcun «contributo fattivo» al sodalizio mafioso, mentre il decreto qui impugnato si limita a fare riferimento ad una pluralità di elementi di cui non viene spiegata l’incidenza e la rilevanza, per poi giungere ad affermare che proprio la vicenda relativa al Nicastri è emblematica della partecipazione al sodalizio mafioso.
3.3. Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 24 del d.lgs. n. 159 del 2011 quanto alla confisca del fondo sito in INDIRIZZO
Dovendo, per quanto esposto al terzo motivo, escludersi la rilevanza dei rapporti con il Nicastri e l’appartenenza di quest’ultimo a Cosa Nostra, dovevano anche ritenersi lecite le somme conseguite dalla vendita alla società RAGIONE_SOCIALE, quasi interamente partecipata dal Nicastri, della società RAGIONE_SOCIALE da parte della famiglia
COGNOME per il prezzo di euro 3.614.000,00.
Una parte delle somme in tal modo percepite da NOME COGNOME erano state investite nel Fondo Nicchiara. Il fondo era stato acquistato con risorse ritenute lecite dal Tribunale, come affermato nel provvedimento di primo grado; tuttavia, dopo l’acquisto del fondo, lo COGNOME aveva investito in esso somme provenienti dalla predetta operazione ritenuta illecita in quanto agevolatrice del sodalizio mafioso.
Con l’istanza di revoca e poi nel giudizio di appello la difesa aveva prodotto prove nuove, scoperte successivamente, che dimostravano l’estraneità del COGNOME al sodalizio mafioso sia nel procedimento a carico di quest’ultimo e volto all’applicazione di misure di prevenzione, sia nel processo penale a carico del COGNOME per concorso in associazione mafiosa.
L’esclusione dell’appartenenza del COGNOME al sodalizio mafioso portava ad escludere l’illiceità delle somme investite nel fondo Nicchiara, di cui era stata chiesta la restituzione.
Con riguardo a questo profilo nessuna risposta è stata fornita dalla Corte territoriale nel provvedimento qui impugnato, mentre, con riguardo ai residui elementi, i ricorrenti richiamano quanto già dedotto con il secondo motivo.
3.4. Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano che, anche laddove si ritenessero operanti i principi affermati dalle Sezioni Unite in tema di «prova nuova» con la sentenza «Lo Duca», gli stessi sarebbero stati applicati dalla Corte di appello in modo eccessivamente rigoroso, con conseguente violazione dell’art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011.
Il Tribunale, decidendo sull’istanza di revoca, ha ritenuto che la mancata produzione della documentazione contabile nel corso del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione fosse imputabile a NOME COGNOME
Con l’atto di appello si era dedotto che la mancata produzione non era imputabile al proposto in quanto la documentazione era stata rinvenuta dai suoi eredi solo nel giugno 2021, essendo rimasta chiusa in alcune stanze sigillate dell’azienda sita in INDIRIZZO oggetto di confisca, durante la pendenza del procedimento di prevenzione.
La circostanza emergeva dal verbale di accesso nell’immobile al fine di recuperare i beni personali di NOME COGNOME rimasti all’interno di quelle stanze fin dal 2014.
Poiché tali documenti non erano nel possesso di NOME COGNOME e dei suoi eredi fin dal 2014, si può affermare che essi integrano una prova nuova anche alla luce dei criteri fissati dalle Sezioni Unite con la sentenza «Lo Duca».
La Corte di appello ha sostenuto che NOME COGNOME avrebbe potuto tempestivamente attivarsi per richiedere la documentazione e poi produrla nel
corso del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione. In realtà, tenuto conto del livello socio-culturale del proposto, non appare a lui imputabile la mancata produzione della documentazione.
4. Il Procuratore generale, per quanto rileva in questa sede, ha evidenziato che la questione centrale posta dai ricorrenti attiene alla nozione di «prova nuova» valutabile ai fini della revoca ex tunc della confisca per difetto dei suoi presupposti originari, pacificamente regolata, nel caso di specie, ai sensi della previsione transitoria di cui all’art. 117 d.lgs. n. 159 del 2011 e trattandosi di proposta di prevenzione presentata il 23.12.2009, dall’art. 7 della I. n. 1423 del 1956, così come interpretata dalle sentenze della Sezioni Unite n. 18 del 1998, COGNOME, rv. 210041 in tema di prevenzione personale e n. 57 del 2007, COGNOME, Rv. 234955 – 01, in tema di prevenzione reale.
Segnala che su tale nozione si sono formati due orientamenti giurisprudenziali.
L’orientamento più estensivo trae spunto dalla sentenza «Pisano» richiamata dalla sentenza COGNOME, e in particolare dal passaggio della motivazione nel quale si afferma che rientrano tra le «prove nuove rilevanti a norma dell’art. 630, lett. c), cod. proc. pen.» non solo quelle « sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice»: ciò, « indipendentemente dalla circostanza che l’omessa conoscenza da parte di quest’ultimo sia imputabile a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario».
Il Procuratore generale indica come espressione di detto orientamento le sentenze Sez. 1, n. 10343 del 2020, COGNOME, rv. 280856 – per la quale «In tema di confisca di prevenzione, costituiscono prove nuove deducibili a fondamento tanto della domanda di revoca ex tunc, ai sensi dell’art. 7 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, quanto della domanda di revocazione, ai sensi dell’art. 28, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, elementi di prova preesistenti alla definizione del giudizio che, sebbene astrattamente deducibili in tale sede, non siano però stati concretamente dedotti e perciò mai valutati» – e Sez. 6, n. 7009, D’Ardes del 2024 che, dopo la sentenza delle Sezioni Unite «Lo Duca», nello scrutinare una richiesta di revoca ex art. 7 della legge n. 1423 del 1956, richiamando la sentenza delle Sezioni Unite «Pisani», sembra ammettere la potenziale rilevanza di una prova noviter reperta «indipendentemente dalla circostanza che l’omessa conoscenza da parte dell’interessato sia imputabile a comportamento processuale
negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario» e di una prova dedotta ma nemmeno implicitamente valutata, salvo poi dichiarare inammissibile il ricorso per carenza del requisito di decisività della prova, declinato secondo il principio per il quale «la valutazione preliminare circa l’ammissibilità della richiesta proposta sulla base dell’asserita esistenza di una prova nuova deve avere ad oggetto, oltre che l’affidabilità, anche la persuasività e la congruenza della stessa nel contesto già acquisito in sede di cognizione e deve articolarsi in termini realistici sulla comparazione, tra la prova nuova e quelle esaminate, ancorata alla realtà processuale svolta».
L’orientamento restrittivo e maggioritario afferma, invece, che «la prova nuova, rilevante ai fini della revoca ex tunc della misura, è sia quella preesistente e scoperta dopo che la misura è divenuta definitiva, sia quella sopravvenuta rispetto alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendosi formata dopo di essa, ma non anche quella deducibile e non dedotta nell’ambito del suddetto procedimento, salvo che si adduca l’impossibilità di tempestiva deduzione per la riscontrata sussistenza di ragioni di forza maggiore (Sez. 1, n. 1649 del 2022, Rv. 282485-01; conf. Sez. 6, n. 27689 del 2021, Rv. 281692-01; Sez. 1, n. 21537 del 2021, Rv. 281226-01; Sez. 5, n. 28628 del 2017, Rv. 270238-01).
Per questo secondo orientamento, l’assimilazione della disciplina della revoca ex tunc ai sensi dell’art. 7 legge n. 1423 del 1956 a quello della revisione del giudicato penale non è completa, come dimostrerebbe il testo dell’art. 28 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che ha recepito gli esiti dell’elaborazione giurisprudenziale in tema di revoca della confisca di prevenzione e che rimanda, alle sole «forme previste dagli articoli 630 e seguenti del codice di procedura penale» ed indica, tra i casi di revocazione, quello di «scoperta di prove nuove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento», diversamente dall’art. 630 cod. proc. pen. che, alla lett. c), ammette la richiesta «se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto …», così assegnando rilevanza, diversamente da quanto avviene nel procedimento di prevenzione, anche a prove non sopravvenute e, quindi, preesistenti.
La soluzione restrittiva coglie una sorta di continuità interpretativa tra la revoca ex art. 7 I. cit. e l’art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011, configurando quest’ultimo come una tipizzazione normativa del precedente rimedio di conformazione giurisprudenziale (Sez. 1, n. 1649 del 2022, Rv. 282485-01).
Il Procuratore generale mette anche in risalto che all’orientamento restrittivo ha aderito anche Sez. 6, n. 3610 del 2021, emessa, in un procedimento collegato a quello per cui si procede in questa sede, nei confronti di NOME COGNOME
COGNOME, (figlio di NOME COGNOME), con la quale è stato annullato con rinvio il decreto di revoca della confisca emesso dalla Corte d’appello di Catania, per non essersi questa confrontata con l’argomentazione del Tribunale che «aveva escluso il carattere della novità proprio sulla base del rilievo che tale documentazione poteva e doveva essere allegata dagli interessati in quanto essa era già, o avrebbe dovuto essere, nella disponibilità degli istanti».
Sulla base di detto contrasto, il Procuratore generale ha chiesto che i ricorsi vengano rimessi alle Sezioni Unite, sia per la risoluzione del contrasto in relazione alla nozione di prova nuova ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1423 del 1956, sia, eventualmente, laddove si aderisca all’orientamento più restrittivo, per stabilire se, nel caso di istanza di revoca proposta dagli eredi del soggetto sottoposto a misura di prevenzione, la verifica di incolpevolezza della mancata deduzione debba riferirsi alla condotta degli istanti ovvero a quella tenuta dal de cuius durante il procedimento di prevenzione.
I difensori di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME nel replicare alla requisitoria del Procuratore generale, si sono associati alle richieste di rimessione dei ricorsi alle Sezioni Unite, insistendo in ogni caso per il loro accoglimento. Anche il difensore di NOME COGNOME ha fatto pervenire una memoria difensiva con la quale ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi vanno rimessi alle Sezioni Unite stante il contrasto giurisprudenziale insorto tra le Sezioni di questa Corte in merito al concetto di «prova nuova» rilevante ai fini della revoca della confisca di prevenzione ai sensi dell’art. 7, comma 2, legge 27 dicembre 1956, n. 1423, questione questa costituente oggetto della principale doglianza del ricorso di NOME COGNOME e del primo motivo dei ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Va premesso che il secondo motivo dei ricorsi di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME – che hanno proposto impugnazione quali eredi del proposto NOME COGNOME – volto ad ottenere la revoca della confisca sulla base dell’originaria insussistenza della pericolosità sociale di NOME COGNOME appare manifestamente infondato non essendo decisive le argomentazioni svolte.
I ricorrenti sostengono che l’affermazione della pericolosità sociale di NOME COGNOME poggerebbe essenzialmente sui suoi rapporti con NOME COGNOME che era stato originariamente ritenuto un concorrente esterno all’associazione mafiosa e più precisamente il soggetto di cui il sodalizio mafioso si avvaleva per penetrare nel settore imprenditoriale della produzione di energia eolica.
Poiché, successivamente alla applicazione della misura di prevenzione a carico di NOME COGNOME, la Corte di appello, decidendo all’esito del giudizio di appello, ha revocato la misura di prevenzione applicata a NOME COGNOME con decreto del Tribunale di Trapani del 2012 e ancor dopo la Corte di appello, in altro procedimento, decidendo quale Giudice del rinvio, ha prosciolto NOME COGNOME dall’imputazione di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, dovrebbe ritenersi originariamente insussistente la pericolosità sociale di NOME COGNOME.
In contrario deve osservarsi che la Corte di appello, con il provvedimento qui impugnato, ha evidenziato che i rapporti di NOME COGNOME con NOME COGNOME hanno avuto un ruolo marginale ai fini del riconoscimento della pericolosità qualificata del primo. A tal fine la Corte di merito ha anche richiamato la sentenza di questa Corte di cassazione n. 34523 del 2 ottobre 2020, pronunciata all’esito del procedimento volto all’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti di NOME COGNOME; in essa si afferma che «…il decreto impugnato ha diffusamente esaminato il punto, sottolineando la valenza dei rapporti con plurimi esponenti di associazioni mafiose con ruoli apicali nell’ambito delle stesse (quali NOME COGNOME e NOME COGNOME), rapporti perduranti nel tempo, sintomatici di assoluta fiducia e, dunque, espressivi di indubbia condivisione di logiche criminali e di finalità illecite: di qui il rilievo che il coinvolgimento proposto nelle attività del sodalizio mafioso ha avuto caratteri niente affatto episodici o risalenti nel tempo, essendosi, al contrario, manifestato attraverso «una pluralità di condotte, variegate dal punto di vista tipologico (dall’ausilio ai latitanti, alla messa a disposizione degli immobili di pertinenza, alla reiterata frequentazione, alla comunanza di interessi economici) e reiterate per una lasso temporale esteso che denotano dunque continuativa disponibilità ad agevolare il raggiungimento dei fini illeciti del sodalizio criminale (emblematica sul punto la cessione da parte dei coniugi COGNOME di terreni alla società RAGIONE_SOCIALE con atto notarile del 2009)». Ben lungi, quindi, dall’assumere connotazioni di apparenza, la motivazione resa sul punto dalla Corte distrettuale risulta saldamente ancorata ai dati conoscitivi acquisiti, valorizzati, nella proiezione temporale, sulla base del rilievo dei caratteri continuativi e “qualitativi” dei rapporti del proposto con esponenti di vertice di gruppi mafiosi». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Pur essendo stata definita «emblematica» la cessione di alcuni terreni alla società RAGIONE_SOCIALE con atto del 2009, tale vicenda è solo uno dei tanti episodi dai quali è stata desunta la pericolosità sociale di NOME COGNOME che si fonda, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, sui rapporti diretti del proposto, non intermediati dal COGNOME, con diversi esponenti di vertice del sodalizio mafioso.
Le «prove nuove» dedotte dai ricorrenti, pertanto, anche nel caso in cui fossero ritenute tali, non sarebbero decisive, in quanto inidonee ad incrinare il
quadro probatorio posto a giustificazione del provvedimento applicativo della misura di prevenzione, come già osservato dalla Corte di appello.
I ricorrenti hanno obiettato che con l’atto di appello si era segnalato che i residui elementi di prova sarebbero inidonei da soli a sorreggere la misura di prevenzione illustrando le ragioni per le quali essi avrebbero dovuto essere valutati in modo diverso rispetto a quanto già ritenuto nel provvedimento applicativo della misura, ma in tal modo essi pretendono di rimettere in discussione la valutazione del materiale probatorio già esaminato nel corso del procedimento applicativo della misura di prevenzione ormai divenuta definitiva, mentre tale operazione è impedita dal passaggio in giudicato.
2. Ferma restando, quindi, la pericolosità qualificata di NOME COGNOME, tutti i ricorrenti – che agiscono in qualità di eredi di NOME COGNOME sostengono anche che sono emerse «nuove prove» che dimostrerebbero la originaria insussistenza della sproporzione tra i redditi del nucleo familiare di NOME COGNOME e dei suoi familiari e il valore dei beni acquistati ed oggetto di confisca.
A tal fine essi affermano che solo nel 2021, dopo la morte di NOME COGNOME, sarebbero stati loro restituiti, in qualità di eredi, gli effetti personali altri beni appartenenti al defunto che si trovavano in alcune stanze dell’immobile insistente sul fondo Nicchiara che era stato colpito da sequestro preventivo e poi confiscato; dette stanze erano state chiuse e sigillate dall’amministratore giudiziario nel 2014 quando l’immobile era stato rilasciato per effetto della sua confisca.
Tra tali beni vi erano una borsa ed una valigetta contenenti documentazione relativa ai contributi corrisposti dall’AIMA (ora AGEA) sin dal 1980.
Detta documentazione, unita a quella relativa ai contributi percepiti dal 1988 al 2010, che gli eredi avevano provveduto a richiedere all’AGEA solo dopo la morte di NOME COGNOME, secondo l’assunto dei ricorrenti, dimostrerebbe la insussistenza della sproporzione tra i redditi del nucleo familiare di NOME COGNOME e gli acquisti dei beni oggetto di confisca.
La Corte di appello ha confermato il provvedimento di inammissibilità dell’istanza di revoca avanzata ex art. 7 della legge n. 1423 del 1956.
Pur riconoscendo che, come sostenuto dai ricorrenti, sulla base della disciplina transitoria fissata dall’art. 117 del d.lgs. n. 159 del 2011, alla istanza di revoca della confisca deve applicarsi, nel caso di specie l’art. 7, della legge n. 1423 del 1956, trattandosi di misura di prevenzione applicata a seguito di proposta formulata in data anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011, ha affermato che anche in relazione alla revoca disciplinata dal citato art. 7 devono
applicarsi i principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza COGNOME in relazione alla revocazione di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, atteso che con riguardo ad entrambi i rimedi ricorre l’eadem ratio, ossia la necessità di porre rimedio all’errore giudiziario occorso nell’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali ormai definitive.
Ha quindi ritenuto che pure ai fini della revoca della confisca ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 la «prova nuova» è sia quella sopravvenuta alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendosi formata dopo di essa, sia quella preesistente ma incolpevolmente scoperta dopo che la misura è divenuta definitiva, mentre non lo è quella deducibile e non dedotta nell’ambito del suddetto procedimento, salvo che l’interessato dimostri l’impossibilità di tempestiva deduzione per forza maggiore.
Ha, pure, osservato che la predetta documentazione era ben conosciuta dal proposto che avrebbe potuto produrla nel corso del procedimento teso all’applicazione delle misure di prevenzione nei suoi confronti o comunque attivarsi per richiederla alle autorità competenti e poi produrla nel procedimento a suo carico.
Ha quindi escluso che la natura incolpevole dell’omessa allegazione delle prove documentali potesse essere valutata facendo riferimento non alla posizione del proposto, ma alla posizione degli eredi ed al momento in cui questi erano succeduti al de cuius.
I ricorrenti hanno sostenuto nei loro ricorsi che, invece, la nozione di «prova nuova» indicata dalle Sezioni Unite nella sentenza COGNOME in relazione all’istituto della revocazione disciplinato dall’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011 non possa essere estesa alla revoca della confisca ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 e che, in ogni caso, anche laddove si aderisse alla nozione più restrittiva indicata dalle Sezioni Unite, la natura incolpevole della mancata produzione della prova nel procedimento applicativo della misura di prevenzione andrebbe valutata non in relazione alla persona del proposto, ma facendo riferimento alla posizione dei ricorrenti.
Deve in questa sede osservarsi che, ove quest’ultimo argomento formulato dai ricorrenti a sostegno della loro impugnazione fosse fondato, perderebbe rilievo la questione sulla estensibilità alla revoca di cui al citato art. 7 della nozione di «prova nuova» fissata dalle Sezioni Unite con la sentenza COGNOME in relazione alla revocazione disciplinata dall’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011. Difatti, se la natura colpevole o meno dell’omessa produzione della documentazione dovesse essere valutata facendo riferimento non alla posizione del defunto, ma a quella degli eredi, questi ultimi, essendo venuti a conoscenza dell’esistenza delle prove solo dopo la morte di NOME COGNOME non verserebbero in colpa e la
documentazione dovrebbe essere considerata quale «prova nuova», sia che si aderisca alla posizione più estensiva, sia che si accolga la nozione più restrittiva.
Questo a Collegio, tuttavia, ritiene che la tesi sostenuta dai ricorrenti presenti indubbi profili di problematicità, avendo essi proposto l’istanza di revoca della confisca nella qualità di eredi di NOME COGNOME.
L’erede, infatti, dovrebbe ritenersi subentrante nella medesima posizione giuridica del defunto e poiché il suo diritto a proporre l’istanza di revoca gli perviene per successione dal defunto, egli non potrebbe esercitare poteri che non consentiti al suo dante causa; se a costui è rimasto precluso, per scadenza del termine o per altro motivo, l’esercizio della azione, la medesima preclusione vale anche per il successore.
Ove si aderisse alla tesi più restrittiva in ordine alla nozione di «prova nuova» e il defunto avesse colpevolmente omesso di allegare talune prove nel corso del procedimento applicativo della misura di prevenzione- sicché non potrebbero tali prove essere poste a sostegno della istanza di revoca ai sensi del citato art. 7identica preclusione dovrebbe ritenersi operante per i suoi eredi.
Questo Collegio ritiene, in ogni caso, che ai fini della decisione del ricorso sia rilevante stabilire quale sia la nozione di «prova nuova» ai fini della decisione sull’istanza di revoca ex art. 7 della legge n. 1423 del 1956 ed in particolare se essa coincida con la nozione di prova accolta dalle Sezioni Unite con la sentenza COGNOME in relazione all’istituto della revocazione disciplinato dall’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011, ovvero se la nozione di «prova nuova» includa anche le prove preesistenti alla definizione del procedimento di prevenzione, che, sebbene astrattamente deducibili in tale sede, non siano state dedotte e valutate ex art. 630 cod. proc. pen., in conformità alla nozione di «prova nuova» elaborata ai fini della revisione.
3. Anteriormente al d.lgs. n. 159 del 2011, l’ordinamento non prevedeva alcuno specifico strumento che consentisse la riparazione dell’errore giudiziario in relazione all’applicazione delle misure di prevenzione e, anche al fine di rendere la disciplina delle misure di prevenzione conforme al disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., le Sezioni Unite con la sentenza COGNOME (Sez. U, n. 18 del 10/10/1997, dep. 1998, COGNOME, Rv. 210041) affermarono che tale lacuna poteva essere colmata non applicando analogicamente le disposizioni di cui agli artt. 629 e ss. cod. proc. pen., ma attraverso lo strumento della revoca disciplinato dall’art. 7 della legge n. 1423 del 1956.
Questo strumento poteva valere a consentire anche la revoca ex tunc della misura di prevenzione personale se fosse stato invocato il difetto originario dei suoi presupposti e se gli elementi prospettati a sostegno della istanza fossero
nuovi; non era necessario che questi fossero sopravvenuti alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendo sufficiente che si trattasse di circostanze non valutate nel corso di quel procedimento.
Per effetto della sentenza «COGNOME» la revoca della misura di prevenzione disciplinata dall’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 veniva in tal modo a comprendere sia la revoca con efficacia ex nunc, dovuta alla sopravvenuta cessazione di pericolosità del prevenuto, sia quella con efficacia ex tunc, resa nei casi di accertamento dell’insussistenza originaria della pericolosità anche per motivi emersi dopo l’applicazione della misura.
In tal modo, un istituto inizialmente creato per adeguare la misura di prevenzione personale ai mutamenti di «pericolosità» del prevenuto (alla possibilità di revoca è infatti affiancata quella di modifica della misura) è stato modificato dalla giurisprudenza che ha ad esso assegnato anche la funzione di rimedio volto a determinare la rimozione ex tunc della misura, sulla falsariga di una «revisione» del relativo «giudicato».
Successivamente le Sezioni Unite (Sez. U, n. 57 del 19/12/2006, dep. 2007, Auddino, Rv. 234955) hanno esteso alle misure di prevenzione patrimoniali la possibilità di utilizzare la revoca di cui al cit. art. 7 per porre rimedio a quell situazioni in cui la confisca fosse stata disposta in difetto originario dei suoi presupposti, affermando che «la richiesta di rimozione del provvedimento definitivo deve muoversi nello stesso ambito della rivedibilità del giudicato di cui agli artt. 630 e ss. c.p.p., con postulazione dunque di prove nuove sopravvenute alla conclusione del procedimento (e sono tali anche quelle non valutate nemmeno implicitamente: S.U., 26 settembre 2001, Pisano), ovvero di inconciliabilità di provvedimenti giudiziari, ovvero di procedimento di prevenzione fondato su atti falsi o su un altro reato».
La sentenza «Auddino», richiamando la sentenza delle Sezioni Unite «Pisano» sembra, quindi, accogliere una nozione molto estesa di «prova nuova» che abbraccia tutte le prove che non siano state valutate nel procedimento di prevenzione.
La sentenza delle Sezioni Unite «COGNOME» (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, dep. 2002, COGNOME, Rv. 220443) ha affermato che «prove nuove», rilevanti a norma dell’art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., ai fini dell’ammissibilità della relativa istanza, devono intendersi sia le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna, sia quelle formatesi antecedentemente ma scoperte successivamente ad essa, sia quelle non acquisite nel precedente giudizio, sia quelle acquisite nel precedente giudizio, ma non valutate neppure implicitamente (purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudicante).
4. Deve, tuttavia, osservarsi in questa sede che, in relazione alla revoca della confisca in funzione di revisione disciplinata dall’art. 7 della legge n. 1423 del 1956, è sorto, già prima dell’entrata in vigore dei d.igs. n. 159 del 2011, un contrasto in ordine ai limiti entro i quali era possibile dedurre «prove nuove» allo scopo di ottenere la restituzione dei beni oggetto di una confisca ormai divenuta definitiva ed in particolare in ordine alla possibilità di chiedere la revoca della confisca sulla base di prove deducibili, ma per qualunque causa non dedotte nel procedimento di prevenzione.
4.1. Sulla scia delle due sentenze delle Sezioni Unite sopra citate si è formato un primo orientamento che, in virtù dell’assimilazione dello strumento disciplinato dal citato art. 7 all’istituto della revisione, ha affermato, anche in epoca recente, che la revoca della confisca di prevenzione per difetto genetico dei suoi presupposti di adozione può disporsi in presenza di «elementi nuovi», non necessariamente sopravvenuti, purché mai valutati, neppure implicitamente, nel corso del relativo procedimento, stante il carattere di rimedio straordinario dell’istituto, che non può, di conseguenza, trasformarsi in un anomalo strumento di impugnazione.
Rientrano tra le sentenze che già prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011 avevano aderito a tale orientamento Sez. 1, n. 21369 del 14/05/2008, COGNOME, Rv. 240094 e Sez. 6, n. 46449 del 17/09/2004, Cerchia, Rv. 230646.
La prima ha osservato che «il provvedimento di confisca deliberato ai sensi della L. 31 maggio 1975, n. 575, art. 2 ter, comma 3, (disposizioni contro la mafia) è suscettibile di revoca ex tunc, a norma della L. 27 dicembre 1956, n.1423, art. 7, comma 2, (misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), allorché sia affetto da invalidità genetica e debba, conseguentemente, essere rimosso per rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell’errore giudiziario, non ostando al relativo riconoscimento l’irreversibilità dell’ablazione determinatasi, che non esclude la possibilità della restituzione del bene confiscato all’avente diritto o forme comunque riparatorie della perdita patrimoniale da lui ingiustificatamente subita (Cass., Sez. Un. 19 dicembre 2006, n. 57, Auddino, rv. 234955). La richiesta di rimozione del provvedimento definitivo deve muoversi nello stesso ambito della rivedibilità del giudicato di cui all’art. 630 c.p.p. e segg. e postula, dunque, l’acquisizione di prove nuove sopravvenute alla conclusione del procedimento (per tali dovendosi intendere anche quelle non valutate nemmeno implicitamente: Cass., Sez. Un., 26 settembre 2001, Pisano), ovvero l’inconciliabilità di diversi provvedimenti giudiziali, oppure che il procedimento di prevenzione sia fondato su atti falsi o su un altro reato. In questo contesto gli elementi dedotti devono essere diretti a dimostrare l’insussistenza di uno o più dei
presupposti del provvedimento reale e pertanto, in primo luogo, la pericolosità del proposto, ma anche, unitamente o separatamente, la disponibilità diretta o indiretta del bene in capo al proposto medesimo, il valore sproporzionato della cosa al reddito dichiarato o all’attività economica svolta, il frutto di attività illec o il reimpiego di profitti illeciti».
La seconda ha affermato che il rimedio della revoca previsto dall’art. 7, secondo comma, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 può essere applicato anche alle misure di prevenzione patrimoniali, ove si tenda a dimostrare l’insussistenza ab origine delle condizioni legittimanti l’emissione del provvedimento, precisando che in tale ipotesi la revoca svolge una funzione assimilabile a quella della revisione, sicché la rimozione del giudicato va condotta nell’ambito dei parametri tracciati dall’art. 630 cod. proc. pen.
Successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011 altre sentenze di questa Corte di cassazione si sono espresse nello stesso senso.
Sez. 5, n. 148 del 04/11/2015, COGNOME, Rv. 265922 ha stabilito che la revoca per difetto genetico dei presupposti di adozione può disporsi in presenza di «elementi nuovi», non necessariamente sopravvenuti purché mai valutati nel corso del procedimento di prevenzione, stante il carattere di rimedio straordinario dell’istituto che non può, pertanto, trasformarsi in un anomalo strumento di impugnazione.
Anche per Sez. 2, n. 17335 del 27/03/2013, Perfetto, la richiesta di rimozione del provvedimento definitivo deve muoversi nello stesso ambito della rivedibilità del giudicato di cui agli artt. 630 e ss. cod. proc. pen., con postulazione dunque di prove nuove sopravvenute alla conclusione del procedimento – e tali sono anche quelle non valutate nemmeno implicitamente secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza COGNOME – ovvero di inconciliabilità di provvedimenti giudiziari, ovvero di procedimento di prevenzione fondato su atti falsi o su un altro reato.
Per Sez. 3, n. 13037 del 18/12/2013, dep. 2014, Segreto, Rv. 259739, nel giudizio di revisione, la richiesta è ammissibile anche se fondata su prove preesistenti o addirittura colpevolmente non indicate nel giudizio di cognizione di cui si invoca la rilettura, purché le stesse non siano state oggetto, nemmeno implicitamente, di pregressa valutazione.
Anche Sez. 6, n. 3943 del 15/01/2016, COGNOME, Rv. 267016, in relazione alla nozione di prova nuova, richiama la sentenza delle Sezioni Unite Pisano per affermare che per prove nuove rilevanti a norma dell’art. 630, lett. e), cod. proc. pen., ai fini dell’ammissibilità della relativa istanza devono intendersi non solo le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio
ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice, e indipendentemente dalla circostanza che l’omessa conoscenza da parte di quest’ultimo sia imputabile a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario.
Più recentemente questa Corte di cassazione ha pure affermato che costituiscono prove nuove deducibili a fondamento tanto della domanda di revoca ex tunc, ai sensi dell’art. 7 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, quanto della domanda di revocazione, ai sensi dell’art. 28, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, elementi di prova preesistenti alla definizione del giudizio che, sebbene astrattamente deducibili in tale sede, non siano però stati concretamente dedotti e perciò mai valutati; si è osservato che tale conclusione è conforme alla nozione di prova nuova elaborata ai fini della revisione nel procedimento penale, cui deve aversi riguardo nell’interpretazione di entrambe le citate disposizioni di legge (Sez. 1, n. 10343 del 05/11/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280856).
Quest’ultimo precedente può ormai ritenersi superato, a seguito della sentenza delle Sezioni Unite «Lo Duca», con riferimento alla revocazione ex art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011, ma non già con riguardo alla revoca di cui al citato art. 7, atteso che in relazione a questa il principio di diritto da essa affermato trova conforto nella sentenza delle Sezioni Unite «Auddino».
Le Sezioni Unite, con la sentenza «Lo Duca», hanno affermato che, ai fini della revocazione della misura ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 159, la prova nuova è sia quella sopravvenuta alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendosi formata dopo di essa, sia quella preesistente ma incolpevolmente scoperta dopo che la misura è divenuta definitiva, mentre non lo è quella deducibile e non dedotta nell’ambito del suddetto procedimento, salvo che l’interessato dimostri l’impossibilità di tempestiva deduzione per forza maggiore (Sez. U, n. 43668 del 26/05/2022, COGNOME, Rv. 283707).
Tali principi sono stati espressi dalle Sezioni Unite con esclusivo riferimento all’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011 e la decisione poggia in buona parte su argomenti che fanno leva sul tenore letterale della nuova disposizione.
Innanzitutto, hanno osservato che è possibile chiedere la revocazione della confisca, ai sensi dell’art. 28, comma 1, lett. a), solo in caso di «prove nuove, sopravvenute alla conclusione del procedimento» di prevenzione, precisando, tuttavia, che il termine «sopravvenute» abbraccia anche le prove preesistenti alla conclusione del procedimento e di cui la parte sia incolpevolmente venuta a conoscenza solo successivamente.
Le Sezioni Unite hanno pure segnalato che la nuova disciplina introdotta dal
d.lgs. n. 159 del 2011, a differenza di quella anteriore, è rivolta ad assicurare una maggiore stabilità al c.d. «giudicato di prevenzione». La revocazione disciplinata dall’art. 28, pur essendo un mezzo straordinario di impugnazione, teso alla riparazione dell’errore giudiziario, non si presenta come un’azione di annullamento, atteso che il comma 4 prevede che, in caso di suo accoglimento, sorga in favore dell’interessato il diritto alla restituzione, che tuttavia può avvenire anche per equivalente.
Le Sezioni Unite hanno poi attribuito rilievo alla circostanza che, al fine di assicurare maggiore stabilità al giudicato di prevenzione, il comma 3 dell’art. 28 fissa un termine di decadenza per l’istanza di revocazione, proponibile entro sei mesi dalla data in cui si verifica una delle ipotesi previste dal comma 1, osservando che la «previsione di uno stretto termine decadenziale è strutturalmente incompatibile con il caso di una prova introdotta nel procedimento, ma, in ipotesi, neppure implicitamente valutata, dal momento che, in siffatta evenienza, sarebbe impossibile individuare il dies ad quem da cui far scattare l’operatività del termine», citando in proposito Sez. 6, n. 26341 del 09/05/2019, COGNOME, Rv. 276075.
Le Sezioni Unite hanno pure evidenziato come «la posizione del proposto o del terzo interessato che siano stati erroneamente attinti da una misura ablativa sia considerata, anche da questa Corte, maggiormente affine a quella del soggetto leso da una decisione erroneamente assunta all’esito di una controversia civile, piuttosto che a quella del soggetto che ha subito una condanna penale», in tal modo avallando quelle sentenze di questa Corte di cassazione che avevano evidenziato che il termine «revocazione della confisca» utilizzato dalla citata disposizione evocava un’affinità con la revocazione delle sentenze civili di cui all’art. 395, primo comma, nn. 2 e 3, cod. proc. civ. e veniva pure richiamato nella rubrica dell’art. 62 d.lgs. cit., sia pure in relazione alla possibilità – riservata pubblico ministero, all’amministratore giudiziario e all’Agenzia nazionale dei beni confiscati – di chiedere in ogni tempo la revocazione del provvedimento di ammissione del credito al passivo, quando emerga che esso è stato determinato da falsità, dolo, errore essenziale di fatto o dalla mancata conoscenza di documenti decisivi che non sono stati prodotti tempestivamente per causa non imputabile al ricorrente; poiché la revocazione ex art. 395 cod. proc. civ e il citato art. 62 hanno in comune la possibilità per la parte di porre a fondamento della sua istanza documenti decisivi non tempestivamente prodotti per causa ad essa non imputabile, identico criterio deve ritenersi applicabile pure alla revocazione prevista dal citato art. 28.
Ai fini che rilevano in questa sede, occorre in definitiva evidenziare che le Sezioni Unite, con la sentenza «Lo Duca» espressamente attribuiscono rilievo
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decisivo alla previsione di un termine perentorio per la proposizione dell’ istanza per affermare di conseguenza che la revocazione della confisca «si discosta sia dall’istituto, pur affine, della revisione della condanna penale, sia dall’antecedente storico rappresentato dall’introduzione per via giurisprudenziale della revoca in funzione di revisione» di cui all’art. 7 della legge n. 1423 del 1956.
Sulla base di tali conclusioni non pare che la revoca della confisca in funzione di revisione possa mutuare estensivamente tout court dai principi affermati dalle Sezioni Unite Lo Duca – riguardante specificamente la revocazione disciplinata dall’art. 28 del d.lgs. n. 159 2011 – la soluzione della questione oggetto dei ricorsi in esame, come pare ricavarsi dalla diversità degli istituti della «revisione» e della «revocazione».
Sulla scia delle precedenti sentenze, peraltro, si pone anche Sez. 6, n. 7009 del 08/11/2023, dep. 2024, D’Ardes, non massimata, segnalata dai ricorrenti.
Come rilevato dal Procuratore generale, questa decisione, richiamando la sentenza delle Sezioni Unite «Pisani», sembra ritenere «nuova» anche la prova non dedotta nel procedimento di prevenzione pur se l’omissione sia imputabile a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del proposto.
4.2 A tale orientamento se ne contrappone un altro, che, facendo leva sulla natura di mezzo di impugnazione straordinario della revoca della confisca per difetto originario dei presupposti, perviene ad una nozione più restrittiva di «prova nuova», che comprenderebbe solo le prove sopravvenute alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludendo quelle ivi deducibili ma, per qualsiasi motivo, non dedotte.
Già prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011 questa Corte di cassazione ha affermato che non è «consentito rimettere in discussione atti od elementi già considerati nel procedimento di prevenzione ovvero in esso deducibili», dichiarando per tale motivo inammissibile l’impugnazione con la quale i ricorrenti si dolevano della dichiarazione di improcedibilità dell’istanza di revoca della confisca che poggiava su documenti che non sono stati considerati sopravvenuti alla conclusione del procedimento applicativo della confisca, in quanto già noti ai ricorrenti durante il procedimento di prevenzione e quindi producibili all’epoca, ma non dedotti (Sez. 1, n. 20318 del 30/03/2010, Buda, non massimata).
Ulteriori sentenze hanno in seguito rafforzato questo secondo orientamento, anche traendo spunti dalla nuova disciplina introdotta dal d.lgs. n. 159 del 2011, affermando che «prova nuova», rilevante ai fini della revoca ex tunc della misura di prevenzione della confisca, è solo quella sopravvenuta rispetto alla conclusione del procedimento di prevenzione, non anche quella deducibile, ma non dedotta, nell’ambito di esso (Sez. 2, n. 11818 del 07/12/2012, dep. 2013, Ercolano, Rv.
255530).
Aderisce a detto orientamento anche Sez. 6, n. 44609 dei 06/10/2015, COGNOME, Rv. 265081, (richiamata pure da Sez. 5, n. 3031 del 30/11/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272104), che, partendo dal rilievo che la revoca delle misure di prevenzione disposte con provvedimenti che abbiano acquisito la forza di cosa giudicata costituisce misura straordinaria, che postula l’emergere di una prova nuova e sconosciuta nel corso del procedimento di prevenzione, suscettibile di mutare radicalmente i termini della valutazione a suo tempo operata, arriva a concludere che la prova nuova non può consistere in un qualsiasi elemento favorevole, poiché altrimenti si trasformerebbe un istituto che ha natura di mezzo straordinario di impugnazione in una non consentita forma di impugnazione tardiva, ribadendo il principio già affermato dalla sentenza «Ercolano» sopra citata.
Anche Sez. 1, n. 12762 del 16/02/2021, Roberto, Rv. 280800 (richiamando anche Sez. 6, n. 31937 del 06/06/2019, Rv. 276472, che riguarda il diverso istituto della revocazione ex art. 28 d.lgs. n. 159 del 2011) afferma che ai fini della revoca ex tunc della confisca ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1423 del 1956 assume rilevanza solo la prova scoperta (anche se preesistente) dopo che la misura è divenuta definitiva o quella sopravvenuta rispetto alla conclusione del procedimento di prevenzione, essendosi formata dopo di essa, mentre non è prova nuova quella, preesistente, deducibile, ma non dedotta, nell’ambito del suddetto procedimento.
In termini corrispondenti si sono pronunciate anche Sez. 6, n. 27689 del 18/05/2021, COGNOME, Rv. 281692 (ove pure viene segnalato il già esistente contrasto giurisprudenziale), Sez. 2, n. 28305 del 25/06/2021, Bellinvia, Rv. 281803 (che richiama il principio di diritto affermato dalla sentenza «Esposito» in relazione al diverso istituto della revocazione disciplinata dall’art. 28 del d.lgs. n. 159 del 2011), Sez. 1, n. 1649 del 28/09/2021, dep. 2022, Esposto, Rv. 282485 e Sez. 5, n. 38365 del 11/07/2023, NOMECOGNOME non massimata.
5. Poiché, sulla base di quanto sopra esposto, la risoluzione di detto contrasto – tuttora persistente, tra due orientamenti che poggiano anche su decisioni assunte dal più autorevole consesso di legittimità – è decisivo presupposto per la definizione del presente procedimento, i ricorsi, anche su richiesta delle parti, devono essere rimessi alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen., affinché le stesse si esprimano sulla seguente questione: «Se, ai fini della revoca della confisca ai sensi dell’art. 7, comma 2, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (nei procedimenti di prevenzione ai quali non si applica ratione temporis l’art. 28 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), la nozione di “prova nuova” includa anche le
prove preesistenti alla definizione del procedimento che, sebbene astrattamente deducibili in tale sede, non siano però state dedotte e valutate, in conformità alla nozione di “prova nuova” come elaborata ai fini della revisione ex art. 630 cod. proc. pen.».
P.Q.M.
rimette i ricorsi alle Sezioni Unite. Così deciso il 13/02/2025.