Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 25209 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 25209 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a Pompei il 06/12/1997 COGNOME nato a Torre Annunziata il 27/11/1998
avverso la sentenza del 27/03/2024 della Corte di appello di Napoli
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso per la posizione di COGNOME e l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per la posizione di COGNOME;
uditi i difensori:
L’avv. COGNOME COGNOME si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.
L’avv. COGNOME NOME chiede l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
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RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in data 27 marzo 2024 la Corte di appello di Napoli, riformando la sentenza emessa in data 23 ottobre 2018 dal Tribunale di Torre Annunziata, ha condannato NOME COGNOME alla pena di anni tredici di reclusione e NOME COGNOME alla pena di anni quattordici di reclusione, con le relative pene accessorie, per i delitti di cui agli artt. 56-575, 577, comma 1, n. 3, cod. pen., 10, 12 e 14 legge n. 497/1974, commessi il 27 gennaio 2017.
Il Tribunale di Torre Annunziata aveva ritenuto insufficienti le prove a carico dei due imputati, accusati di avere compiuto atti idonei e non equivoci diretti ad uccidere NOME COGNOME trasportato su un’auto in marcia, esplodendo contro questa numerosi colpi di almeno una pistola portata illegalmente in pubblico, non realizzando l’evento perché i colpi non raggiungevano la vittima designata, ma il conducente del veicolo NOME COGNOME che rimaneva gravemente ferito.
La Corte di appello ha, invece, ritenuto «granitico» il compendio probatorio a carico dei due imputati, costituito essenzialmente dalle intercettazioni telefoniche e ambientali a carico dei componenti della famiglia COGNOME, i quali, nel commentare tra loro l’attentato a carico di NOME COGNOME, ne attribuivano la responsabilità ai due imputati, mentre quando erano stati ascoltati come testimoni, anche durante la rinnovazione dell’istruttoria disposta ai sensi dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., essi avevano smentito quelle affermazioni, come fatto già in primo grado, venendo però ritenuti inattendibili.
Secondo la Corte di appello l’attentato è stato motivato da dissidi familiari, in particolare dalla decisione di NOME COGNOME, moglie di NOME COGNOME, reggente del clan camorristico Gallo-Cavalieri, di lasciare il marito e di intrattenere una relazione con tale NOME COGNOME, esponente di spicco del clan COGNOME, storicamente ostile al clan COGNOME-Cavalieri. I due figli della donna e di NOME COGNOME, NOME e NOME, avevano vissuto tale scelta come un affronto gravissimo, e non avevano gradito l’atteggiamento della famiglia COGNOME, che aveva mantenuto i rapporti con la loro madre nonostante la sua condotta; NOME COGNOME, perciò, aveva maturato il proposito di punire i parenti materni, in particolare attentando alla vita dello zio NOME COGNOME. La Corte ha ricavato una conferma di tale movente da una conversazione intercettata tra NOME COGNOME e la sorella NOME in data 08/03/2017, in cui quest’ultima riferiva alla prima di avere rimproverato il nipote NOME che, dopo l’agguato, aveva avuto la sfrontatezza di presentarsi a casa della nonna materna in compagnia di NOME COGNOME, detto “il gemello”, per ribadire la sua contrarietà al mantenimento dei rapporti, da parte loro, con sua madre NOME. Ulteriori conversazioni sono state interpretate come confermative di tale movente e della tyt ji responsabilità di NOME COGNOME di cui i vari membri della famiglia COGNOME
temevano ulteriori azioni violente nei loro confronti. COGNOME Al contrario la pista alternativa, di un agguato determinato da contrasti con NOME COGNOME in relazione ad un traffico di stupefacenti, è stata ritenuta del tutto sfornita di riscontri, nonostante le indagini svolte, derivando tale ipotesi, peraltro, da una fonte confidenziale mai identificata e perciò inutilizzabile.
Le medesime intercettazioni, secondo la sentenza impugnata, dimostrano che la vittima designata era NOME COGNOME e non NOME COGNOME e che gli autori dell’agguato sono i due imputati, avendo il tribunale errato nell’affermare che dette intercettazioni non sono concordanti con gli altri elementi raccolti e sono prive di riscontri da cui comprendere quale sia la fonte informativa dei familiari di NOME COGNOME in merito alla responsabilità di questi e di NOME COGNOME dal momento che esse costituiscono delle prove, non necessitanti di riscontro. La sentenza ripercorre il contenuto delle conversazioni dalle quali ritiene che emerga con certezza l’indicazione dei due imputati quali responsabili dell’agguato, in particolare di NOME COGNOME, nipote della vittima designata, ma anche di NOME COGNOME, indicato nelle conversazioni come “il gemello” e, in un caso, con il nome di battesimo.
La sentenza ha altresì ritenuto corretta la qualificazione giuridica del reato di tentato omicidio, per l’astratta univocità e idoneità degli atti ad uccidere, e la presenza negli autori dell’animus necandi. Ha ritenuto sussistente l’aggravante della premeditazione, essendo la persistenza nel tempo del progetto originario dimostrata dall’avere gli agenti acquisito la disponibilità delle armi, dall’avere studiato le abitudini della vittima, dall’avere organizzato l’agguato operando in – quattro complici riuniti, nonché dimostrata dalla condotta tenuta da NOME COGNOME prima e dopo il fatto; l’aggravante è stata ritenuta applicabile anche al COGNOME stante la sua continua frequentazione del COGNOME e il comportamento tenuto, unitamente a lui, subito dopo l’agguato. Altrettanto provata è stata valutata la sussistenza dei delitti di detenzione e di porto illecito di almeno una pistola, ritenuti in concorso formale tra loro.
Quanto al trattamento sanzionatorio, la Corte di appello ha ritenuto non concedibili le attenuanti generiche, per l’assenza di elementi favorevoli, i già gravi precedenti penali del Gallo e i carichi pendenti del Falanga.
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso NOME COGNOME per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando quattro motivi, e NOME COGNOME per mezzo del difensore avv. NOME COGNOME articolando tre motivi.
Con il primo motivo il ricorrente COGNOME deduce la violazione di legge L…… processuale e il vizio di motivazione in merito alla propria affermazione di responsabilità.
La sentenza fonda la condanna sui medesimi dialoghi che il Tribunale aveva già valutato ritenendoli insufficienti quale prova della colpevolezza, senza offrire una motivazione più convincente. Essa attribuisce alle conversazioni un significato ulteriore, che esse non hanno, e non individua la fonte di conoscenza degli interlocutori, così da poterne valutare criticamente l’attendibilità. E’ irrilevante il richiamo alle conversazioni in cui emerge l’astio tra i figli NOME COGNOME e la famiglia COGNOME per non avere i suoi membri allontanato la loro madre, a causa del suo abbandono della casa familiare, perché da esse non emerge alcun elemento che indichi NOME COGNOME come autore dell’agguato. E’ naturale che, in caso di un attentato, i familiari si convincano della responsabilità di un certo soggetto, ma tale convincimento non può costituire una prova, bensì solo un riscontro ad un’ipotesi investigativa, che deve essere poi supportata da altre prove.
Il ricorso esamina le varie conversazioni utilizzate dalla sentenza impugnata, sottonneando che in esse non vi è un riferimento esplicito a NOME COGNOME quale autore dell’agguato, e l’interpretazione della Corte di appello, che spesso ricollega singoli riferimenti al delitto commesso, è illogica e in contraddizione con gli atti processuali. In tali conversazioni non è mai indicato in modo chiaro e certo a quale episodio, o a quale condotta del ricorrente, si riferiscano i vari interlocutori, oltre a non essere mai esplicitata la fonte delle loro conoscenze. La sentenza, invero, spesso aggiunge ad esse delle frasi in realtà non dette, al fine di darne una interpretazione coerente con la tesi accusatoria. Le intercettazioni in cui alcuni membri della famiglia COGNOME fanno riferimento alle conoscenze che avrebbero i Carabinieri vengono erroneamente interpretate come confermative della conoscenza dei predetti familiari, mentre questi ultimi potrebbero semplicemente commentare che i Carabinieri hanno mostrato di avere elementi di prova a carico di soggetti già identificati. Anche l’intercettazione del 06/04/2017, in cui la nonna attribuisce a NOME COGNOME la frase “se lo volevo uccidere lo uccidevo”, viene erroneamente interpretata come avente un contenuto confessorio, mentre il giovane potrebbe avere, con quelle parole, negato la propria responsabilità, dicendo che, se avesse compiuto lui l’agguato, lo avrebbe portato a termine. Peraltro anche l’attribuzione di detta frase al ricorrente è un. forzatura compiuta dalla Corte di appello, non risultando mai indicato il soggetto che l’avrebbe pronunciata, né in quale contesto e a chi sarebbe stata rivolta. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il ricorso sottolinea, in conclusione, di non voler proporre una diversa interpretazione delle intercettazioni, ma solo di voler evidenziare, con la loro disamina, la manifesta illogicità della sentenza impugnata, nell’avere attribuito valore probante a frasi che possono, al più, essere definite compatibili con l’ipotesi accusatoria, la quale rimane, però, priva di supporto probatorio.
necessità di individuare e valutare la fonte della conoscenza di quei dichiaranti deriva non dalla necessità di un riscontro alle loro affermazioni, ma dalla necessità di sottoporre tale loro conoscenza ad un attento vaglio di veridicità: il tribunale, infatti, aveva ritenuto insufficiente la prova a carico del ricorrente proprio perché non aveva rinvenuto, nel compendio probatorio, elementi che consentissero di valutare se la convinzione della famiglia COGNOME circa l’esistenza di un movente familiare per l’agguato, fosse fondata o meno. La Corte di appello, limitandosi a ribadire la valenza delle intercettazioni quale fonte di prova, non ha affrontato tale questione, obliterandola del tutto oppure facendo riferimento ad informazioni provenienti dallo stesso imputato, senza però poter fondare tale affermazione su alcun elemento concreto, non essendo mai stato quest’ultimo il diretto interlocutore intercettato. Sul punto, pertanto, l sentenza impugnata non offre una motivazione rafforzata e più convincente, rispetto alla sentenza di primo grado, ed ha ribaltato quest’ultima non attraverso una migliore valutazione dei medesimi mezzi di prova, ma dimenticando del tutto di verificare la fonte della conoscenza degli interlocutori intercettati, utilizzando invece le loro conversazioni come prove dirette della responsabilità del ricorrente.
Anche la fondatezza del movente familiare viene ricavata dalle intercettazioni a carico degli COGNOME, senza mai accertare la fonte di tale loro conoscenza. Il diverso movente ipotizzato, quello di uno scontro tra il ferito COGNOME e tale COGNOME, marito di una delle sorelle COGNOME, per una questione di traffico di stupefacenti, è stato ritenuto insussistente solo per avere il COGNOME negato di intrattenere rapporti con il COGNOME, senza valutare l’attendibilità del COGNOME e senza tenere conto del suo evidente interesse a negare di essere coinvolto in simili fatti di reato.
3.1. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente Gallo deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in merito alla qualificazione del delitto di tentato omicidio.
La valutazione della sentenza impugnata è apodittica, manifestamente illogica e contraddittoria, perché gli indicatori evidenziati, in particolare l potenzialità dell’arma usata, il numero e la distanza ravvicinata degli spari, la zona del corpo attinta, sono, in realtà, compatibili anche con un’azione meramente intimidatoria. Proprio il fatto che gli spari sono avvenuti a breve distanza dal veicolo su cui si trovavano le vittime, ma solo uno dei colpi sia andato a segno, dimostra che non vi era la volontà di uccidere, ma solo quella di spaventare, potendo l’unico colpo che ha ferito il COGNOME derivare da un errore di mira o dal rimbalzo di uno dei proiettili. Anche l’individuazione del movente in questioni interne alla famiglia COGNOME depone in tal senso, perché il bersaglio dei colpi avrebbe dovuto essere NOME COGNOME e non NOME COGNOME, ed è illogico
affermare, come fa la sentenza impugnata, che il ferimento del COGNOME sia conseguenza di un errore perché alla guida del veicolo doveva esserci lo COGNOME, in quanto, dalla modalità dell’agguato, risulta evidente che gli attentatori hanno potuto vedere molto chiaramente il guidatore, ed avrebbero perciò dovuto indirizzare i colpi verso il passeggero, essendosi resi conto di dove fosse seduto lo COGNOME. La sentenza non tiene conto, poi, della frase che attribuisce al COGNOME, il quale avrebbe detto alla nonna che, se avesse voluto, uccidere lo zio, lo avrebbe fatto: essa, qualora si ritenga certa la sua provenienza dal ricorrente, dimostra che egli non ha sparato con l’intento di uccidere.
3.2. Con il terzo motivo del suo ricorso, il ricorrente Gallo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in merito al riconoscimento dell’aggravante della premeditazione.
La sentenza è apodittica, illogica e in contrasto con i fatti. E’ errata la deduzione di tale aggravante dall’acquisizione delle armi da sparo, non essendo provata in alcun modo l’anteriorità di tale azione, così come è errata l’affermazione di avere il ricorrente mantenuto il proposito criminoso per un ampio lasso di tempo, mancando qualunque prova di un’attività di preparazione dell’agguato, di studio dei luoghi e delle abitudini della vittima, di un lasso di tempo trascorso tra ideazione ed esecuzione dello stesso. Anche l’affermazione di una approfondita pianificazione dell’azione, perché compiuta da quattro complici, è apodittica, essendo stata compiuta semplicemente da quattro persone che si sono appostate fuori dall’abitazione della vittima, a bordo di due scooter, una delle quali ha sparato verso l’auto che usciva dal cancello, senza che sia neppure provato alcun pedinannento. Nessuna prova di premeditazione di un tentativo di omicidio, poi, può essere dedotta dal comportamento del ricorrente antecedente e successivo al fatto.
3.3. Con il quarto motivo il ricorrente NOME deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in merito al trattamento sanzionatorio.
Le attenuanti generiche sono state negate con una motivazione illogica e contraddittoria. I precedenti penali del ricorrente sono modesti e irrilevanti, e non vi è la certezza che egli sia intraneo a cartelli camorristici o altri contesti criminali. Non è veritiera l’affermazione dell’assenza di elementi valutabili positivamente, in quanto la Corte di appello avrebbe potuto valutare la sua giovane età al momento del fatto, la condotta irreprensibile tenuta negli anni successivi, l’avvenuta ricomposizione dei contrasti familiari, tanto che il tribunale del riesame, annullando il 10 maggio 2024 l’ordinanza cautelare emessa dalla Corte di appello, ha sottolineato che, dopo l’agguato, il ricorrente non ha tenuto altre condotte negative, non si è avvicinato al clan gestito dal padre, e ha adottato uno stile di vita regolare, sposandosi e procreando due figli.
4. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente COGNOME deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in merito alla propria affermazione di responsabilità, con argomentazione analoga a quella del primo motivo del ricorso del coimputato COGNOME
La sentenza fonda la condanna sui medesimi dialoghi che il Tribunale aveva già valutato, ritenendoli insufficienti quale prova della colpevolezza, senza offrire una motivazione più convincente. Essa attribuisce alle conversazioni un significato ulteriore, che non hanno, e non ricostruisce in alcun modo la fonte di conoscenza degli interlocutori, così da poterne valutare criticamente l’attendibilità. Tali conversazioni, in ogni caso, non contengono alcun riferimento all’avere questo ricorrente commesso il tentato omicidio.
Pertanto, la motivazione della condanna del ricorrente COGNOME è illogica, perché non individua su quale elemento si fondi la convinzione della famiglia COGNOME di una responsabilità di NOME COGNOME e non indica da dove derivi la certezza che il soprannome “il gemello” si riferisca al COGNOME, che non ha alcun fratello gemello mentre la madre del COGNOME ha detto che il figlio frequentava un giovane così soprannominato, indicandolo però in tale COGNOME. Le conclusioni della Corte di appello, quanto all’affermazione di responsabilità del COGNOME, sono pertanto illogiche, e non assolvono all’onere di fornire una motivazione rafforzata, a fronte della diversa valutazione raggiunta dai giudici di primo grado esaminando il medesimo compendio probatorio.
Anche questo ricorso esamina, poi, le varie conversazioni utilizzate dalla sentenza impugnata, sottolineando che in esse non vi è un riferimento esplicito neppure a NOME COGNOME, e tanto meno al COGNOME. Anche nella conversazione in cui due membri della famiglia COGNOME recriminano sul fatto che il COGNOME si sia presentato da loro, dopo l’attentato, insieme ad un altro soggetto chiamato “il gemello”, già il tribunale aveva ritenuto irrilevante la mera presunzione di una partecipazione del COGNOME all’agguato, dedotta dal fatto di essersi egli presentato a casa COGNOME insieme al COGNOME. Quindi, anche laddove si volesse ritenere certo che “il gemello” sia il ricorrente, non è possibile inferire, da tal circostanza, alcuna prova della sua partecipazione ai delitti contestati, né la sentenza spiega quale sia il collegamento tra la sua mera presenza a casa COGNOME e la sua partecipazione al delitto. Anche nella conversazione del 12/04/2017, in cui la nonna di COGNOME lamenta che il nipote gli avrebbe portato in casa chi ha sparato a suo figlio, manca qualsiasi riferimento al COGNOME, e quindi non si può da essa arguire che ella si riferisca a quest’ultimo, specialmente considerando che all’agguato hanno partecipato quattro soggetti e che il Gallo, pertanto, potrebbe essersi recato a casa della nonna con un altro complice. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Anche l’individuazione del movente dell’agguato in dissidi interni alle famiglie COGNOME e COGNOME deriva solo dalle conversazioni di questi ultimi, senza che
la Corte di appello indichi la fonte delle loro conoscenze. La sentenza, inoltre, non tiene conto del fatto che tale movente, se provato, renderebbe evidente la estraneità del COGNOME al delitto. L’esclusione dell’altra ipotesi investigativa, di un movente legato ad uno scontro tra il ferito COGNOME e il COGNOME per un traffico di stupefacenti, è motivata solo con la negatoria del COGNOME, senza che sia stata valutata l’attendibilità di quest’ultimo.
4.1. Con il secondo motivo il ricorrente COGNOME deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in merito alla qualificazione del fatto come tentato omicidio, anche in questo caso con argomenti analoghi a quello contenuti nel secondo motivo di ricorso del coimputato.
La valutazione della sentenza impugnata si fonda su alcuni indicatori, quali la potenzialità dell’arma usata, il numero e la distanza ravvicinata degli spari, la zona del corpo attinta, che sono compatibili anche con un’azione meramente intimidatoria. Il fatto che gli spari siano avvenuti a breve distanza dal veicolo su cui si trovavano le vittime, ma solo uno dei colpi sia andato a segno, dimostra che non vi era la volontà di uccidere, ma solo quella di spaventare, potendo l’unico colpo che ha raggiunto il Nappi derivare da un errore di mira o dal rimbalzo di uno dei proiettili. La motivazione, pertanto, è apodittica, manifestamente illogica e contraddittoria.
Anche l’individuazione del movente in questioni interne alla famiglia COGNOME dimostra l’insussistenza della volontà omicidiaria. Secondo tale ricostruzione il bersaglio dei colpi avrebbe dovuto essere NOME COGNOME e non NOME COGNOME ed è illogico affermare, come fa la sentenza impugnata, che il ferimento del COGNOME sia conseguenza di un errore perché alla guida del veicolo doveva essersi lo COGNOME, in quanto, dalle modalità dell’agguato, risulta evidente che gli attentatori hanno potuto vedere molto chiaramente che egli non era alla guida dell’auto, ed avrebbero perciò dovuto indirizzare i colpi verso il passeggero. La sentenza non tiene conto, poi, del contenuto della intercettazione del 06/04/2017 e della frase che il Gallo avrebbe rivolto alla nonna.
4.2. Con il terzo motivo il ricorrente COGNOME deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in merito al trattamento sanzionatorio.
Le attenuanti generiche sono state a lui negate con una motivazione illogica e contraddittoria, basandosi su un’accusa formulata in un processo ancora non giunto ad una sentenza definitiva, e relativo a fatti commessi in data successiva a quelli qui contestati, mentre la valutazione della concedibilità del beneficio deve collocarsi nell’alveo del momento temporale della verificazione della condotta contestata. La sentenza non tiene conto della condotta collaborativa del COGNOME, che ha subito chiarito di non avere un fratello gemello, e al contrario gli attribuisce un inserimento, insieme al COGNOME, in contesti criminali di rilevante spessore, che non sono dimostrati da alcun provvedimento giudiziario né da
elementi probatori. COGNOME Il diniego delle attenuanti generiche e l’omesso contenimento della pena nel minimo edittale sono motivati, pertanto, in modo carente, illogico e contraddittorio.
Il Procuratore generale, nella requisitoria orale, ha chiesto il rigetto del ricorso di Gallo, e l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, quanto al ricorso di COGNOME.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono infondati, e devono essere rigettati. GLYPH L’analogia delle argomentazioni dei primi due motivi di ciascuno di essi ne consente un esame unitario.
E’ un principio ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità che la sentenza di secondo grado, che condanni l’imputato ribaltando il giudizio assolutorio del giudice di primo grado, deve fornire una motivazione ‘rafforzata’: tale onere motivazionale è stato delineato a partire dalla sentenza delle Sezioni unite n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231679, secondo cui: «In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato». La motivazione rafforzata, poi, «consiste nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché in un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore» (Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, Rv. 278056).
La sentenza impugnata risponde ai predetti criteri. A fronte di una sentenza di primo grado che ha escluso la sufficienza delle intercettazioni tra terzi quale prova, definendole dei meri indizi privi di riscontro e privi della individuazione della fonte della conoscenza da parte dei soggetti intercettati, tutti familiari dell’imputato COGNOME, la sentenza di appello le ha esaminate nella loro interezza, ne ha affermato la rilevanza probatoria e la non necessità di riscontri, facendo corretta applicazione del principio stabilito da Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263714, e ha sottolineato la piena attendibilità delle persone intercettate, la convergenza e univocità di tutte le loro conversazioni nell’indicare
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i due imputati quali autori dall’attentato, e la certezza della loro conoscenza perché confermata, di fatto, dall’imputato COGNOME così colmando l’asserita lacuna probatoria rilevata dai giudici di primo grado, derivante, a loro parere, dall’impossibilità di valutare l’attendibilità della fonte di tale loro conoscenza.
La sentenza impugnata, pertanto, risulta più compiutamente e logicamente motivata, nonché aderente ai principi giurisprudenziali che regolano la valutazione delle prove e degli indizi, e dotata di una maggiore forza persuasiva, avendo i giudici esaminato tutti gli elementi acquisiti, singolarmente e nel loro complesso, nonché esaminato le possibili piste alternative e le tesi difensive, evidenziandone l’insussistenza o l’infondatezza.
Il primo motivo dei ricorsi presentati dai due imputati è infondato e deve essere rigettato. Tali motivi hanno ad oggetto la valutazione e la rilevanza probatoria delle intercettazioni effettuate a carico dei familiari del ricorrente Gallo, e stante l’analogia del loro contenuto possono essere esaminati e valutati in modo unitario.
3.1. La sentenza impugnata, come già esposto nel paragrafo precedente, si è conformata ai principi giurisprudenziali, secondo cui «In tema di prove, il contenuto di intercettazioni telefoniche captate fra terzi, da cui emergano elementi di accusa nei confronti dell’indagato, può costituire fonte probatoria diretta della sua colpevolezza, senza necessità di riscontro ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., fatto salvo l’obbligo del giudice di valutare il significato delle conversazioni intercettate secondo criteri di linearità logica» (Sez. 3, n. 10683 del 07/11/2023, dep. 2024, Rv. 286150). Simili intercettazioni possono costituire anche solo degli indizi, a seconda del loro contenuto, risultando allora soggette ai normali criteri valutativi della loro gravità, precisione e concordanza (Sez. 5, n. 40061 del 12/07/2019, Rv. 278314, tra le molte). La sentenza ha esaminato nel dettaglio e in modo completo le intercettazioni, riportate anche nella sentenza di primo grado, rilevandone l’assoluta chiarezza terminologica, che non lascia incertezze circa la loro interpretazione, nonché la loro univocità nell’indicare il ricorrente COGNOME e “il gemello” quali autori dell’attentato e nell’indicare il movente di questo, evidenziando tutti gli interlocutori una conoscenza di tale loro responsabilità non dubitativa, bensì certa e scevra da qualunque dubbio. Essa ha, quindi, valutato dette intercettazioni «nel loro complesso ed in successione logica e cronologica», concludendo che, attraverso tale attenta valutazione, esse «raggiungono in taluni casi l’assoluta evidenza nel senso prospettato dall’accusa».
3.2. I ricorrenti sostengono l’insufficienza di tali intercettazioni, quale prova, ripetendo la rilevanza del mancato accertamento della fonte dell’asserita conoscenza dei fatti da parte degli interlocutori, ma la sentenza individua
chiaramente tale fonte nello stesso imputato NOME COGNOME di cui i soggetti intercettati riportano, talvolta per esteso, le parole pronunciate in loro presenza e le reazioni alle loro accuse: alla pag. 22 la sentenza afferma con precisione che i soggetti intercettati non fanno riferimento a notizie apprese da fonti sconosciute o a voci correnti, bensì «a notizie ed informazioni apprese dallo stesso imputato», e per tale motivo attribuisce alle loro conversazioni una rilevante valenza probatoria, con argomentazione logica e conforme al contenuto delle intercettazioni a cui fa riferimento. Secondo quanto riportato nella motivazione, nell’intercettazione del giorno 08/03/2017 NOME COGNOME riferisce alla sorella NOME, in modo ampio e dettagliato, il pesante rimprovero da lei mosso al nipote, chiaramente identificabile in quanto indicato con il nomignolo “NOME” e quale figlio di NOME, il quale aveva avuto la sfacciataggine di presentarsi a casa della nonna materna, in quanto lo aveva accusato apertamente dell’attentato compiuto senza ricevere da lui una smentita, come sarebbe logico aspettarsi da una persona del tutto estranea alla vicenda. Inoltre NOME COGNOME altra sorella di NOME, in una intercettazione dello stesso giorno riferisce di una sorta di giustificazione dell’attentato fornita dal giovane che accompagnava “NOME“, cioè “il gemello”, anch’egli identificabile senza alcun dubbio nel coimputato COGNOME in quanto chiamato anche con il nome di battesimo “NOME“, il quale avrebbe detto che “NOME” era pieno di bile perché abbandonato dalla madre; ella riferisce anche la reazione del fratello NOME, scampato all’attentato, che alla vista del nipote sarebbe diventato più bianco del latte, “per la bile e per la paura”, reazione logicamente attribuita, nella sentenza, alla certezza della responsabilità di questi nel tentativo di omicidio. La sentenza cita altresì, quale «conferma più rilevante della partecipazione di NOME al fatto di sangue», l’intercettazione ambientale del 06/04/2017 in cui la nonna del giovane riferiva alla figlia NOME una frase da lui pronunciata, “Io poi se lo volevo uccidere mi giravo e lo uccidevo … tornavo indietro”, frase da lei interpretata come una confessione, tanto da usare, contro il nipote, le espressioni “quel cornuto … quel bastardo”. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
3.3. Queste intercettazioni sono state interpretate e valutate come dimostrative della colpevolezza dei due imputati perché la convinzione mostrata dai vari interlocutori, circa la loro responsabilità, risulta confermata dal loro atteggiamento, non avendo essi mai negato tale responsabilità ed avendo addirittura cercato di giustificare il gesto compiuto come una reazione alla condotta tenuta da NOME COGNOME: tale valutazione appare logica, ed effettivamente fondata sul chiaro significato delle varie intercettazioni che, se lette nel loro complesso, formano un quadro probatorio certo, e tale da escludere ,A qualunque ipotesi alternativa sia circa l’identità degli autori dell’agguato, sia quanto al movente di questo.
In particolare, quanto al movente dell’attentato, la sentenza lo ha individuato nell’astio tra le famiglie COGNOME e COGNOME, a causa dell’abbandono del tetto familiare da parte di NOME COGNOME ritenendo che esso emerga con evidenza dalla telefonata del giorno 08/03/2017 tra questa e la sorella NOME. Tale interpretazione di quella conversazione è logica e conforme al suo Ve 0E02 01 contenuto; enzg si fa riferimento alla volontà di NOME COGNOME di “aggiustare la casa di tuo padre” e all’abbandono dei figli da parte della loro madre, , contenuto delle ulteriori intercettazioni del 13/03/2017, del 06/04/2017 e del 18/04/12017, dalle quali emerge sempre, ed in modo esclusivo, il rancore di NOME COGNOME verso tutta la famiglia COGNOME, il suo importunarne i vari membri, ed il collegamento di tali condotte con la scelta di vita della madre di lui, NOMECOGNOME Una ulteriore conferma del movente è data dalla certezza della famiglia COGNOME circa l’identità del vero bersaglio dell’agguato, valutata dalla sentenza attraverso un attento esame delle molte conversazioni, specialmente quelle della nonna del giovane NOME COGNOME in cui si fa un chiaro riferimento all’avere questi sparato allo zio NOME e all’essere stato il COGNOME colpito per errore, e attraverso la reazione avuta da NOME all’incontro con il nipote, come raccontato dalla sorella NOME.
Inoltre la sentenza, alle pagine 17-18, valuta l’erroneità della motivazione di quella di primo grado, che non ha tenuto conto delle predette intercettazioni quale prova del movente familiare, ed esclude che vi sia stato un deficit investigativo per il mancato approfondimento dell’ipotesi alternativa di un agguato diretto specificamente contro la vittima COGNOME come affermato nella sentenza di primo grado, in quanto riporta le dichiarazioni del teste mar. COGNOME secondo cui tale pista fu investigata, ma non solo non trovò alcun riscontro, bensì trovò plurime smentite, rimanendo solo una segnalazione anonima o confidenziale, non utilizzabile processualmente. I motivi di ricorso qui esaminati, pertanto, devono essere rigettati anche nella parte in cui lamentano l’omesso approfondimento, da parte della Corte di appello, di tale possibile movente alternativo: la sentenza ha dato atto di avere verificato la plausibile esistenza di tale movente, ed ha motivato in modo logico la sua conclusione negativa, spiegando che esso non è stato mai accertato, nonostante le indagini svolte, non essendo emerso alcun elemento di conferma di quella che era stata, all’inizio; solo una notizia confidenziale. Non è corretta, pertanto, l’affermazione dei ricorrenti, secondo cui tale ipotesi alternativa sarebbe stata esclusa, dalla sentenza impugnata, basandosi solo sulla negatoria del COGNOME circa il proprio coinvolgimento in un traffico di stupefacenti, perché l’esclusione di tale movente si fonda, come detto, sull’assenza di elementi a sostegno dello stesso, nonostante le indagini svolte. Inoltre per la stessa famiglia COGNOME vi è la certezza che l’obiettivo dell’agguato fosse NOME COGNOME al punto che, in una
intercettazione del 21/04/2017, la nonna del COGNOME afferma con chiarezza che il COGNOME è stato colpito per errore.
3.4. I motivi dei due ricorsi qui esaminati sono infondati anche nella parte in cui i ricorrenti sostengono la mancanza, nelle intercettazioni, di elementi probatori certi circa la loro individuazione come gli autori dell’attentato e, quanto al COGNOME, anche circa la sua identità, non essendo certa la riferibilità a lui stesso del soprannome “il gemello”.
I ricorrenti affermano di non voler proporre una diversa interpretazione delle intercettazioni, ma di voler evidenziare la mancanza, in esse, della valenza probatoria loro attribuita dalla sentenza impugnata, che le avrebbe interpretate in modo non oggettivo e talvolta anche creativo, attribuendo cioè a singole frasi un significato diverso da quello emergente.
Costituisce un principio consolidato quello secondo cui «In tema di ricorso per cassazione, quando la sentenza impugnata abbia interpretato fatti comunicativi, l’individuazione del contesto in cui si è svolto il colloquio e dei riferimenti personali in esso contenuti, onde ricostruire il significato di un’affermazione e identificare le persone alle quali abbiano fatto riferimento i colloquianti, costituisce attività propria del giudizio di merito, censurabile in sede di legittimità solo quando si sia fondata su criteri inaccettabili o abbia applicato tali criteri in modo scorretto» (Sez. 1, n. 25939 del 29/04/2024, Rv. 286599), con la conseguenza che «In materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite» (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Rv. 282337). La sentenza impugnata ha interpretato e valutato in modo approfondito e logico le varie conversazioni intercettate, con una motivazione che si sottrae, perciò, al sindacato di legittimità, e le ha ritenute idonee e sufficienti per provare, attraverso il loro esame complessivo e congiunto, la responsabilità dei due imputati. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
I ricorsi contestano le conclusioni della sentenza impugnata riportando solo brevi stralci di singole intercettazioni e proponendone una interpretazione parcellizzata, per affermare che in nessuna di esse emerge un riferimento certo ai ricorrenti, o alla loro partecipazione all’attentato. Tale modo di procedere non è corretto: il riferimento all’identità dei due ricorrenti e alla loro condotta emerge con chiarezza in alcune conversazioni, e collegando queste a quelle successive risulta evidente che tutte parlano dei medesimi soggetti e delle medesime vicende, questioni che sono ben note ai vari conversanti, i quali perciò non hanno necessità di dare indicazioni esplicite per farsi capire. L’identità dei A ,
soggetti che si sono presentati sfacciatamente a casa degli COGNOME è riferita in modo esplicito nelle intercettazioni del giorno 08/03/2017, come sopra già indicato, dal momento che NOME COGNOME parla alla sorella NOME di “tuo figlio” e di “NOME“, e l’altra sorella NOME parla del “gemello NOME“. Che essi vengano indicati come gli autori dell’attentato è stato ritenuto provato dalle molte conversazioni in cui le COGNOME fanno riferimento al fatto accaduto al fratello NOME oppure alla grave sparatoria, non essendo emersa alcuna altra vicenda di pari gravità che abbia coinvolto l’uomo in quel periodo, né essa è stata indicata dai ricorrenti. La frase riferita dalla nonna di NOME COGNOME in una intercettazione ambientale del 06/04/2017, secondo cui egli le avrebbe detto che, se voleva uccidere lo zio, sarebbe tornato indietro e lo avrebbe fatto, è stata logicamente interpretata, dalla sentenza impugnata, come relativa a tale vicenda nonché pronunciata dal nipote, stante il contesto in cui si colloca l’intercettazione: la donna era stata appena sentita dai Carabinieri in ordine all’agguato al Nappi e allo Iovene, e parlava alla figlia NOME delle modalità del fatto e del suo dubbio se denunciare o meno il nipote, chiaramente identificato con il riferimento alla sua disabilità fisica. Il dubbio le derivava dal fatto che ell si diceva combattuta tra l’amore per il nipote e l’amore per il figlio, al quale egli però aveva sparato, e si sentiva spinta alla denuncia per l’atteggiamento del primo, definito “cornuto” e “bastardo”, perché aveva avuto l’ardire di dirle che, se avesse voluto, avrebbe potuto uccidere lo zio. Nel contesto in cui quest’ultima frase si colloca, e viene riferita dalla donna, è evidente che essa è stata pronunciata dal Gallo come confessione e rivendicazione dell’agguato, e come espressione di una specifica volontà di ledere lo zio: la sua interpretazione in questo senso, da parte della sentenza impugnata, è perciò logica e conforme al significato dell’intera conversazione, mentre quella fornita dal ricorrente COGNOME, secondo cui essa potrebbe significare un diniego di responsabilità, è del tutto illogica e in contrasto anche con tutte le intercettazioni precedenti, dalle quali non emerge mai un diniego, da parte di NOME COGNOME rispetto all’accusa di tentato omicidio che l’intera famiglia COGNOME gli ha rivolto continuamente. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
3.5. Anche l’identificazione del ricorrente COGNOME e la sua individuazione come autore dell’attentato, insieme al COGNOME, emergono con certezza dalle varie conversazioni citate nella sentenza impugnata, che, anche in questo caso, sono state lette e valutate nel loro complesso, traendo logicamente da quelle più esplicite gli elementi idonei a consentire una chiara interpretazione anche delle altre. L’attribuzione del soprannome “gemello” a questo imputato è resa certa ed evidente già dalla intercettazione del giorno 08/03/2017, in cui NOME COGNOME indica l’amico presentatosi a casa insieme al nipote come “il gemello NOME“. L’identificazione è confermata dalle conversazioni relative alle convocazioni presso i Carabinieri, che hanno riguardato anche il COGNOME, in relazione alle quali
gli COGNOME parlano del soggetto convocato come “il gemello”. La sentenza di primo grado aveva messo in dubbio le risultanze di queste intercettazioni perché il COGNOME non ha un fratello gemello e perché la madre del Gallo, NOME COGNOME, aveva parlato, nelle sommarie informazioni, di un amico del figlio di nome COGNOME, avente quel soprannome, ma tali dubbi sono palesemente infondati. Il COGNOME, pur non avendo un fratello gemello, ha un fratello ed è figlio e nipote di fratelli gemelli, circostanza logicamente ritenuta idonea per giustificare l’attribuzione di quel soprannome, e la testimonianza di NOME COGNOME, come quella di tutti i suoi familiari, è stata motivatamente valutata inattendibile dagli stessi giudici di primo grado, perché del tutto in contrasto con le frasi da lei pronunciate nelle intercettazioni, delle quali ella, come gli altr familiari, non ha saputo dare una spiegazione logica, giungendo talvolta a negare di averle pronunciate. Il fatto che ella abbia mentito nell’attribuire quel soprannome ad un’altra persona è stato dedotto, dai giudici di merito, dal fatto che quando le sorelle, nelle intercettazioni, lo usano per riferirsi al COGNOME, ovvero lo collegano al nome NOME, ella risulta capire bene a chi si riferiscono. Inoltre, già la sentenza di primo grado riferiva la testimonianza del COGNOME, secondo cui il ricorrente COGNOME e suo fratello sono soprannominati “i gemelli”, e quella di secondo grado riporta la dichiarazione del teste mar. COGNOME il quale ha confermato che, nell’ambiente delinquenziale, essi sono conosciuti con tale soprannome.
Quanto all’attribuzione al medesimo della partecipazione all’attentato, la sentenza impugnata, dalla pag. 27, richiama le molte conversazioni dalle quali emerge il forte risentimento della famiglia COGNOME contro di lui, per avere avuto il coraggio di presentarsi da loro, insieme al COGNOME, «dopo quello che è successo»: così nelle intercettazioni del giorno 08/03/2017, e soprattutto in quella del 12/04/2017, in cui la nonna di COGNOME si lamenta della pessima condotta del nipote anche per avergli portato in casa «chi ha sparato a mio figlio». L’affermazione del ricorrente, secondo cui la donna potrebbe riferirsi ad altre persone e ad altre visite fatte dal nipote, prospetta una lettura alternativa del dato comunicativo preclusa al giudice di legittimità, e peraltro non supportata da alcun elemento oggettivo: stante l’effetto che la visita del COGNOME e dell’amico compiuta il giorno 08/03/2017 ha avuto sull’intera famiglia COGNOME, tanto da essere riferita ripetutamente nelle conversazioni, anche nei giorni successivi, è logico ritenere che, se vi fosse stata un’altra visita, compiuta addirittura in compagnia di uno degli attentatori, essa avrebbe avuto altrettanta eco nelle intercettazioni successive, mentre non vi è traccia di altre condotte del Gallo che abbiano suscitato così tanta rabbia e ostilità. E’ quindi logica, e fondata sugli elementi raccolti, la valutazione dei giudici di appello, che hanno escluso con certezza che vi siano state altre visite.
Il coinvolgimento del COGNOME nell’attentato, poi, è reso evidente, secondo la sentenza, anche dal comportamento da lui tenuto in quella occasione: egli non ha preso le distanze dal fatto, ed anzi lo ha giustificato, come sopra già ricordato, dicendo che il Gallo era pieno di rabbia perché era stato abbandonato alla madre. Logicamente questa frase è stata valutata come dimostrativa della piena conoscenza, da parte del ricorrente, del movente dell’agguato, cioè la forte ostilità del Gallo verso la madre e verso l’intera famiglia di lei, e della sua adesione ad esso, non avendo peraltro neppure lui, come il COGNOME, mai respinto l’accusa di un suo coinvolgimento nella vicenda, formulata dagli COGNOME.
La prova della sua responsabilità è, quindi, di natura logica, ma è fondata su indizi certi e univoci, non suscettibili di una interpretazione alternativa plausibile. Secondo la giurisprudenza di legittimità, «la prova logica, raggiunta all’esito di un corretto procedimento valutativo degli indizi connotato da una valutazione sia unitaria che globale dei dati raccolti, tale da superare l’ambiguità di ciascun elemento informativo considerato nella sua individualità, non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto a quella diretta o storica» (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, Rv. 271228; Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, COGNOME, Rv. 191230). La sentenza impugnata ha valutato i vari indizi, consistenti, come detto, nelle molte conversazioni intercettate, tutte chiare e ritenute veritiere stante la qualità di familiari dell’imputato Gallo di tutti i soggetti intercettat l’assenza in loro di ragioni per mentire, sia singolarmente sia, soprattutto, nella loro concatenazione logica, compiendo così il processo interpretativo che, ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., consente di risalire alla prova del fatto incerto attraverso l’esame dei singoli fatti certi, tra loro univocamente concordanti (Sez. 2, n. 45851 del 15/09/2013, Rv. 285441; Sez. 1, n. 1718 del 21/12/1999, dep. 2000, Rv. 215343).
Il secondo motivo dei ricorsi presentati dai due ricorrenti attiene alla qualificazione del fatto come delitto di tentato omicidio. Le argomentazioni con le quali tale qualificazione viene contestata sono analoghi, e i due motivi possono, perciò, essere esaminati unitariamente.
I ricorrenti sostengono che la sentenza, che deduce l’esistenza dell’animus necandi negli attentatori dalle modalità del fatto, è illogica e contraddittoria perché gli indicatori presi in esame sono compatibili anche con un’azione solamente intimidatoria; perché il fatto che, nonostante tali modalità pericolose, il COGNOME sia stato colpito da un solo proiettile denota l’assenza della volontà di uccidere, potendo il ferimento essere stato causato da un errore o da un rimbalzo del proiettile; infine perché il movente ritenuto sussistente, essendo riferito allo COGNOME, esclude che gli attentatori abbiano tentato di uccidere
quest’ultimo, avendo sparato contro il conducente dell’auto benché avessero potuto vedere chiaramente che lo Iovene occupava il sedile del passeggero.
Tale censura è infondata. La sentenza, conforme su questo punto a quella di primo grado, applica correttamente i principi di questa Corte in merito alla valutazione della qualificazione del fatto come tentato omicidio, avendo avuto riguardo, per distinguerlo da una condotta animata da volontà solo lesiva o intimidatoria, «sia al diverso atteggiamento psicologico dell’agente sia alla differente potenzialità dell’azione lesiva, desumibili dalla sede corporea attinta, dall’idoneità dell’arma impiegata, nonché dalle modalità dell’atto lesivo» (Sez. 1, n. 24173 del 05/04/2022, Rv. 283390). Essa ha valutato, infatti, che: l’arma usata appartiene al novero di quelle dotate di maggiore potenzialità offensiva, trattandosi di una o forse due pistole; i colpi, numerosi ed esplosi a distanza ravvicinata, sono stati indirizzati verso il veicolo, colpendo in particolare il lunott posteriore e il deflettore destro, risultando quindi astrattamente idonei a raggiungere entrambi gli occupanti dei due sedili anteriori ed in particolare quello sul lato del passeggero; i colpi sono stati palesemente sparati all’altezza dei busto dei due occupanti del veicolo, essendo stato il COGNOME colpito all’emitorace sinistro, ricevendo una ferita potenzialmente mortale, dal momento che tale evento è stato evitato solo grazie al pronto intervento medico. La conclusione che l’azione era diretta ad uccidere uno o entrambi gli occupanti del veicolo, pertanto, è logica e fondata su elementi certi: gli assalitori non hanno sparato in aria o contro parti del veicolo non occupate da persone, bensì indirizzando i colpi al busto degli occupanti, e data l’arma o le armi usate, la direzione dei colpi e la loro pluralità, è fondata l’affermazione che l’azione era diretta ad uccidere e non a cagionare mere lesioni.
La tesi difensiva, per la quale il ferimento del COGNOME sarebbe stato causato da un errore di mira o da un rimbalzo del proiettile, non trova riscontri nei dati acquisiti nel giudizio se, come risulta dagli apprezzamenti dei giudici di merito, i colpi erano specificamente indirizzati verso gli occupanti dell’auto. Non è rilevante neppure il movente, che denoterebbe l’assenza di una volontà di uccidere il COGNOME: la direzione e il numero degli spari sono stati valutati come indicativi del fatto che l’intenzione degli autori era di uccidere entrambi gli occupanti, e non è comunque illogica neppure l’ipotesi di un errore di persona, in quanto la rapidità dell’azione e la scarsa visibilità, riferita da NOME COGNOME potrebbero avere impedito agli aggressori di notare che il soggetto alla guida non era quest’ultimo, ma il suo amico COGNOME senza peraltro che tale errore possa escludere la responsabilità degli autori del gesto aggressivo.
Deve infine escludersi che la frase che NOME COGNOME avrebbe rivolto alla nonna, da lei riferita alla figlia NOME in data 06/04/2017, “Io poi se lo volevo uccidere mi giravo e lo uccidevo … tornavo indietro”, possa dimostrare la
mancanza di una volontà omicida: come si è sopra già valutato, tale frase, nel contesto in cui è stata pronunciata, è stata logicamente intesa non come una giustificazione o un tentativo di negare o sminuire la propria responsabilità, ma quale confessione di una precisa volontà omicida, che solo per un caso non era stata realizzata, al punto che, come già sottolineato, la nonna ne aveva tratto la convinzione di una particolare e persistente aggressività del nipote, che potrebbe spingerla addirittura a riferire ai Carabinieri la sua responsabilità. Quella frase, secondo il giudizio fattuale non manifestamente illogico espresso dalla Corte di appello, dimostra innanzi tutto che il COGNOME conosceva con esattezza le modalità del fatto, essendo i quattro attentatori fuggiti, a bordo dei due ciclomotori su cui viaggiavano, subito dopo avere sparato, e poi che l’azione si era conclusa con detta fuga e con il rapido allontanamento dell’auto, avendo lo Iovene affermato di essersi subito posto alla guida per portare il COGNOME in ospedale con lo stesso veicolo colpito, per cui il COGNOME avrebbe dovuto tornare indietro per sparare di nuovo, ovviamente rischiando così di essere individuato.
L’idoneità dell’azione a cagionare la morte deve essere valutata con un giudizio di prognosi postuma formulato ex ante, fondato sugli elementi correttamente evidenziati dalla Corte di appello, e la conclusione affermativa raggiunta è logica e non contraddittoria, avendo i fatti evidenziato che l’azione avrebbe potuto cagionare la morte quanto meno del COGNOME, morte che è stata evitata solo per il rapido ed efficace intervento medico.
Il secondo motivo dei due ricorsi deve, perciò, essere dichiarato infondato, e rigettato.
5. Il terzo motivo del ricorso proposto dall’imputato COGNOME è infondato.
Anche la sussistenza dell’aggravante della premeditazione è stata valutata, dalla sentenza impugnata, attraverso un approfondito esame delle modalità del fatto, e ritenuta provata dal complesso degli indizi, con motivazione logica e non contraddittoria. Secondo questa Corte, anche tale aggravante «può essere dimostrata anche con il ricorso alla prova logica, sulla scorta degli indizi ricavabili dalle modalità del fatto, dalle circostanze di tempo e luogo, dal concorso di più persone con ripartizione dei ruoli e dalla natura del movente; non è, invece, necessario stabilire con assoluta precisione il momento in cui è sorto il proposito criminoso o quello in cui l’accordo è stato raggiunto, essendo sufficiente che gli elementi indiziari suddetti siano gravi, precisi e concordanti e che, globalmente valutati, consentano di risalire, in termini di certezza processuale, al requisito di natura cronologica e a quello di natura ideologica, in cui si sostanzia la premeditazione» (Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep. 2019, Rv. 275415).
La sentenza impugnata ha effettuato tale valutazione, ricavando la prova di una premeditazione dalle modalità dell’agguato, dal momento che esso ha reso
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necessaria l’individuazione di quattro complici e l’organizzazione dei loro movimenti, che risultano palesemente concordati e provati in precedenza; ha reso necessario procurarsi l’arma o le armi, di cui i due imputati non risultano avere mai avuto una immediata disponibilità; ha reso necessario uno studio delle abitudini della vittima designata, in quanto se è vero che essa venne attesa all’uscita dal cancello della sua abitazione, l’orario di tale uscita non era però prevedibile senza una previa conoscenza dei suoi movimenti, e un appostamento degli assalitori per ore in quel luogo, oltre a non essere provato, non è neppure plausibile, dal momento che essi sarebbero stati facilmente notati e segnalati. Tale valutazione è completa, logica e approfondita, in quanto le indicate caratteristiche dell’azione evidenziano che essa deve essere stata programmata e organizzata nel tempo, non potendo essere realizzata d’impeto o in modo occasionale; logicamente, pertanto, la sentenza ne ha tratto la certezza che la risoluzione criminosa sia stata mantenuta ferma, in particolare dal COGNOME, quanto meno per il tempo necessario per predisporre l’azione delittuosa in tutti i suoi particolari. La condotta dell’imputato antecedente e successiva all’azione, pur non essendo in sé idonea a provare la premeditazione, conferma però la persistenza della predetta risoluzione criminosa, essendo accertato che il Gallo ha maturato nel tempo un profondo astio verso la madre e i familiari di lei, ed anche dopo l’aggressione ha mantenuto tale risentimento, presentandosi a costoro con tracotanza e strafottenza, e senza mostrare alcuna resipiscenza, condotta che logicamente la sentenza impugnata ha interpretato come dimostrativa dell’assenza di un dolo d’impeto e, al contrario, di una insorgenza remota del proposito delittuoso.
Anche l’estensione al Falanga dell’aggravante in questione è correttamente motivata, alla pag. 37, e peraltro la relativa decisione non è stata oggetto di ricorso da parte di questo imputato.
Infine il quarto motivo del ricorso proposto dall’imputato COGNOME e il terzo motivo del ricorso dell’imputato COGNOME relativi al trattamento sanzionatorio, sono infondati e devono essere respinti.
Il diniego delle attenuanti generiche, per entrambi gli imputati, è motivato in modo logico e non contraddittorio. La sentenza ha escluso la sussistenza di elementi valutabili positivamente, risultando il Gallo già attinto da precedenti penali e il Falanga da procedimenti pendenti, anche per un recente arresto per il porto illecito di un mitra, elementi da cui i giudici hanno tratto la convinzione della inclinazione a delinquere di entrambi. Le modalità e il movente del fatto, poi, sono stati valutati come dimostrativi di un loro inserimento in contesti camorristici, avendo essi ritenuto di dover lavare con il sangue il tradimento da parte della madre del COGNOME che, oltre ad avere abbandonato la famiglia, aveva
iniziato una relazione sentimentale con un esponente del clan avverso a quello del marito. Gli elementi positivi indicati dal ricorrente COGNOME non sono stati ritenuti significativi, alla luce dell’estrema gravità del fatto, da lui commesso contro i propri familiari, dai quali era stato cresciuto e accudito per molti anni, alla luce dei suoi precedenti penali che, per quanto risalenti nel tempo, non sono stati negati, ed anche alla luce della modalità del delitto e della sua motivazione, che evidenziano una vicinanza ad una mentalità camorrista, nonché la capacità di procurarsi armi e di reperire sicari con i quali organizzare un agguato in stile mafioso. La valutazione del tribunale del riesame circa l’insussistenza, nel 2024, di esigenze cautelari che imponessero l’applicazione di una misura custodiale è irrilevante, trattandosi di un giudizio sul pericolo di reiterazione del reato e i pericolo di fuga, pericoli ritenuti non attuali e che non si collegano agli elementi che, ai sensi dell’art. 133 cod. pen., concorrono a formare il giudizio sulla concedibilità delle attenuanti generiche.
Gli elementi positivi indicati dal COGNOME, poi, sono privi di riscontri e non valutabili in sede di legittimità, dal momento che egli non ha tenuto, nel processo, una condotta collaborativa, che la sua vicinanza a contesti criminali è stata ritenuta dimostrata dai medesimi elementi indicati a carico del COGNOME, e che la condotta tenuta nel 2023, quando è stato arrestato e processato per il porto e la ricettazione di un’arma clandestina, è fortemente indicativa di una sua persistente inclinazione a commettere gravi delitti in materia di armi, e quindi di una sua pericolosità, che osta alla concessione di benefici.
Il diniego delle attenuanti generiche, pertanto, è stato motivato, per entrambi gli imputati, in modo non illogico né contraddittorio; la decisione si sottrae quindi al sindacato di legittimità, in base alla statuizione di questa Corte, secondo cui «In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione» (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269).
La censura del solo Falanga circa l’omessa concessione del minimo della pena, poi, è manifestamente infondata, essendogli stata applicata, per il delitto di omicidio tentato aggravato dalla premeditazione, una pena pari al minimo stabilito dall’art. 56 cod. pen.
Sulla base delle considerazioni che precedono i due ricorsi devono, pertanto, essere respinti, e i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 11 aprile 2025
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Il Consigliere estensore
Il Presiden