Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 6208 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 6208 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 29/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CHIAVENNA il 28/11/1973
avverso la sentenza del 17/06/2024 della CORTE APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso; udito il difensore, Avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Milano, parzialmente riformando, solo in relazione al trattamento sanzionatorio, la sentenza del Tribunale di Como, emessa il 12 ottobre 2023, ha confermato la responsabilità del ricorrente per i reati di rapina pluriaggravata e detenzione abusiva di armi. Secondo i giudici di merito, il ricorrente, travisato da un passamontagna ed impugnando un coltello di grosse dimensioni, si era introdotto all’interno
dell’abitazione di due anziani coniugi (di 88 e 91 anni) e, con minaccia e violenza fisica, si era impossessato di una somma di denaro di circa 700 euro.
In esito a perquisizione, l’imputato era stato trovato in possesso delle munizioni e dei coltelli descritti al capo 2 della rubrica.
2. Ricorre per cassazione NOME COGNOME deducendo:
vizio della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità.
Dopo aver riepilogato, nelle prime 56 pagine del ricorso, il contenuto della sentenza di primo grado, dell’atto di appello e della sentenza impugnata, il ricorrente censura la decisione della Corte di appello che avrebbe travisato la prova costituita dalle dichiarazioni della persona offesa NOME
La donna – che aveva denunciato il fatto il giorno successivo ed era stata escussa in sede di incidente probatorio circa sei mesi dopo – in quest’ultima occasione, nella quale non aveva mostrato incertezze o cattiva memoria dovuta all’età, aveva reso dichiarazioni diverse dalle prime ed incompatibili con una serie di dati acquisiti al processo in ordine all’orario della rapina, all’altezza del rapinatore ed all’abbigliamento da lui indossato, rendendo non sufficientemente supportato il giudizio di responsabilità.
In particolare, l’orario della rapina, come specificato dalla persona offesa che aveva potuto scorgere la direzione di fuga del rapinatore, doveva essere collocato intorno alle 19 del 9 ottobre 2021, quando ancora non era calata del tutto l’oscurità, sicché non sarebbe significativa la circostanza che il ricorrente fosse passato con una motocicletta nei pressi dell’abitazione delle vittime intorno alle ore 20, secondo quanto accertato attraverso telecamere poste nella zona del delitto.
Alle ore 19, l’imputato sarebbe stato a casa sua, come emergeva dalla celle di aggancio del suo telefono cellulare, particolare precisato dal consulente difensivo COGNOME e non oggetto di valutazione da parte della Corte.
La persona offesa aveva, inoltre, riferito che il rapinatore aveva la sua stessa altezza – circa un metro e 60 centimetri, mentre l’imputato è alto un metro e 89/90 centimetri – e non aveva usato alcun coltello per minacciare lei ed il marito, circostanza, la prima, confermata dal fatto che la donna aveva tentato di alzare il passamontagna del rapinatore, cosa che le sarebbe stata impossibile se avesse avuto al cospetto un soggetto dell’altezza dell’imputato;
2 e 3) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità, per quanto attiene agli accertamenti genetici.
Il ricorrente, con due motivi, rileva una contraddizione nell’esame del consulente tecnico del Pubblico ministero, dottor COGNOME a proposito del profilo genetico contenuto in un maglione (pile) ritrovato all’imputato, laddove, oltre al DNA
riconducibile a quest’ultimo, vi sarebbe stato altro profilo non a lui riferibile e neanche alle persone offese, dunque da attribuire a soggetto ignoto.
Si contesta, inoltre, la circostanza che le analisi siano state fatte con una metodica non specifica e non siano state replicate, “con il forte rischio analitico che fossero affette da artefatti stocastici che possono rendere difficoltosa e fuorviante l’interpretazione dei dati genetici” (così, a fg. 72 del ricorso).
Ancora, la presenza del DNA del ricorrente sul colletto del pile, non chiarisce quando questa traccia si era depositata e, ciò, in relazione al tempo del commesso reato ed alla presenza di altra traccia sull’indumento, nella zona pettorale, appartenente ad ignoto e frammista con quella riconducibile ad una delle due persone offese (Albini) ma non all’imputato.
In definitiva, anche in relazione alla pessima qualità dei reperti, con particolare riguardo alla bassa quantità di DNA umano presente, l’indagine genetica non avrebbe dato risultati certi.
vizio della motivazione in merito alla ritenuta non attendibilità delle dichiarazioni rese dalla vittima in sede di incidente probatorio, rispetto a quanto precisato in denuncia, a proposito dell’altezza dell’aggressore e della percezione dei colori.
La Corte avrebbe fatto riferimento, in questo giudizio, a mere massime di esperienza non suffragate da alcunché e smentite da dati processuali di segno opposto;
violazione di legge e vizio di motivazione per la mancata assunzione di una prova decisiva, costituita dalle osservazioni tecniche redatte dal dottor NOME COGNOME, genetista forense, contenute nella consulenza difensiva del dottor COGNOME che si era avvalso dell’ausilio del dottor COGNOME per la parte relativa agli accertamenti genetici.
Ne conseguirebbe che le osservazioni del dottor COGNOME non avrebbero potuto essere estromesse facendo riferimento al fatto che questi non fosse stato citato in lista testi e, in ogni caso, erano rilevanti ai fini della decisione – tenuto conto di tutte le incertezze profilatesi dalla consulenza del Pubblico ministero – e il dottor COGNOME doveva comunque essere escusso ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen.;
violazione di legge e vizio di motivazione per avere la Corte ritenuto, contrariamente all’andamento processuale della escussione del consulente del Pubblico ministero, dottor COGNOME, che le censure tecniche della difesa fossero state esplicitate senza contradditorio e per questo non andassero prese in considerazione, quando, invece, il consulente del Pubblico ministero ne aveva tenuto conto;
7) vizio della motivazione in ordine alla valutazione delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME.
La Corte avrebbe valorizzato le prime dichiarazioni rese dal teste in sede di sommarie informazioni, siccome ritenute corroborate da una intercettazione richiamata in sentenza, senza tenere conto delle affermazioni rese in udienza a proposito della sua conoscenza del luogo di nascondimento degli abiti utilizzati dal ricorrente per commettere la rapina;
violazione di legge e vizio della motivazione per essere la Corte giunta alla condanna dell’imputato senza rispettare il canone valutativo dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Non sarebbe stata valutata adeguatamente la prova d’alibi siccome riscontrata da elementi esterni non considerati a proposito dei movimenti del ricorrente il giorno della rapina.
In particolare, nel ricorso si sottolinea la mancata valutazione dei risultati dei tabulati telefonici dell’utenza in uso all’imputato, come analizzati dal consulente difensivo COGNOME, in uno alla ricostruzione dei suoi spostamenti anche rispetto alle immagini delle telecamere, a dimostrazione del fatto che l’imputato non era presente sul luogo del delitto in quelle circostanze di tempo e di luogo ma si trovava a casa propria;
9) violazione di legge in ordine alla richiesta di escussione ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. del dottor NOME COGNOME per le ragioni esplicitate con il quinto motivo e per la mancanza di motivazione su tale richiesta.
Si dà atto che nell’interesse del ricorrente è stata depositata una memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi manifestamente infondati.
Deve premettersi che il ricorrente articola nove motivi che ruotano attorno al giudizio di responsabilità per il reato di rapina di cui al capo 1; non vi sono motivi inerenti al reato di detenzione di armi e munizioni di cui al capo 2 e neanche in ordine al trattamento sanzionatorio.
L’imputato è stato condannato nei due gradi di giudizio con conforme decisione.
La pacifica giurisprudenza di legittimità, ritiene che, in tal caso, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrino a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello, come nel caso in esame, abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti
riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass. pen., sez. 2^, n. 1309 del 22 novembre 1993, dep. 4 febbraio 1994, COGNOME ed altri, rv. 197250; sez. 3″, n. 13926 del 1 dicembre 2011, dep. 12 aprile 2012, COGNOME, rv. 252615).
Si osserva, ancora, che la doppia conformità della decisione di condanna dell’imputato, ha decisivo rilievo con riguardo ai limiti della deducibilità in cassazione del vizio di travisamento della prova a più riprese lamentato dal ricorrente.
E’ indiscusso, infatti, nella giurisprudenza di legittimità, che tale vizio può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta doppia conforme, sia nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (cosa non verificatasi nella specie), sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, COGNOME; Sez.4, n. 44765 del 22/10/2013, COGNOME).
La premessa si è resa necessaria al fine di giustificare tutti i richiami alla sentenza di primo grado che si evidenzieranno nella disamina che segue.
L’esame delle censure non può seguire la scansione contenuta in ricorso, dal momento che il ricorrente, nella sua ricostruzione, tende ad offuscare il peso decisivo prevalente che deve attribuirsi ad alcuni specifici dati processuali.
3.1. Sia nella denuncia resa il giorno dopo il delitto, avvenuto la sera del 9 ottobre 2021, sia nell’incidente probatorio cui era stata sottoposta circa sei mesi dopo (in data 21 aprile 2022), la persona offesa NOME COGNOME di 88 anni all’epoca del fatto, aveva dichiarato che il rapinatore introdottosi presso la sua abitazione (condivisa con il coniuge NOME COGNOME di anni 91, deceduto prima che venisse effettuato l’incidente probatorio), impugnava un grosso coltello, utilizzato per minacciare i due anziani.
Al di là dei rilievi difensivi che tendono a mettere in dubbio tale circostanza, essa emerge dal resoconto dei fatti offerto, più dettagliatamente, dal Tribunale, anche trasfondendo alcune parole testuali della vittima (cfr. fgg. 5-7 della sentenza di primo grado).
Tale arma – si trattava di una mannaia che la COGNOME aveva saputo descrivere dettagliatamente e la cui fotografia è contenuta a fg. 80 dell’atto di appello era stata abbandonata dal rapinatore sul luogo del delitto, avvolta negli
strofinacci che il malvivente aveva utilizzato introducendoli nella bocca delle vittime per zittirle.
Nella mannaia, a seguito di accertamenti tecnici disposti dal Pubblico ministero in fase di indagini, erano state ritrovate tracce del DNA dell’imputato.
Insieme ad esse, come aveva precisato il Tribunale a fg. 21 della sentenza di primo grado, vi erano altre due tracce, riconducibili non a soggetti ignoti (come sembra voler sostenere il ricorrente), ma alle due vittime.
Con il che, era rimasto acclarato che la mannaia era stata usata dal rapinatore nelle fasi salienti del delitto ed il suo autore aveva lasciato sull’arma tracce del suo DNA, ricondotto al profilo genetico dell’imputato.
3.2. I risultati di questo primo esame genetico sono stati considerati certi da entrambe le sentenze di merito, attraverso una dettagliata indicazione dei dati tecnici rilevanti e delle modalità seguite dal consulente del Pubblico ministero, dottor COGNOME
L’accertamento era stato effettuato con la procedura prevista dall’art. 360 cod. proc. pen., nel contradditorio delle parti, ma la difesa non aveva nominato alcun consulente, neanche in fase dibattimentale, allorquando il consulente del Pubblico ministero era stato chiamato a deporre.
3.3. In punto di diritto, si deve ricordare che l’elemento acquisito agli atti, costituito dalla comparazione del DNA e valorizzato ai fini dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, può costituire prova piena a tutti gli effetti (Sez. 2, n. 38184 del 06/07/2022, Cospito, Rv. 283904; Sez. 2 n. 8434 del 5.2.2013, Rv 255257; Sez. 1 n. 48349 del 30.6.2004, Rv 231182; Sez. 2, n. 43406 del 01/06/2016, Rv. 268161, Sez. 2 n. 16809 del 2018 non massimata, secondo cui gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, hanno natura di prova e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen) / sicchè sulla loro base può essere affermata la responsabilità penale dell’imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti.
Peraltro – ma non è il caso di specie – nei casi in cui l’indagine genetica non dia risultati assolutamente certi, ai suoi esiti può essere attribuita valenza indiziaria (Sez. 2, n. 8434 del 05/02/2013, COGNOME, Rv. 255257; Sez. 1, n. 48349 del 30/06/2004, COGNOME, Rv. 231184).
3.4. Le censure difensive in ordine alle modalità con le quali sono stati svolti gli accertamenti genetici – anche in relazione alla seconda analisi, della quale si dirà a breve – risultano generiche e non adeguatamente supportate da una indagine tecnica contenuta in una consulenza di segno contrario a quella del Pubblico ministero, effettuata nell’ambito della procedura di cui all’art. 360 cod. proc. pen.
Le sentenze di merito hanno dato atto del fatto che erano stati rispettati i protocolli scientifici.
Osservazioni critiche da parte della difesa alla consulenza genetica del Pubblico ministero, erano state offerte al dibattimento attraverso l’inserimento – in una relazione di consulenza criminologica relativa ad altri elementi processuali, a firma NOME COGNOME – di “osservazioni tecniche di parte” a firma di un dottor NOME COGNOME mai indicato dalla difesa quale testimone o proprio consulente. Per tale ragione, sia il Tribunale che la Corte di appello non hanno ritenuto di acquisire agli atti tale elaborato, né di sentire COGNOME al dibattimento di primo grado e neanche in sede di rinnovazione dell’istruzione probatoria richiesta con riferimento al giudizio di appello.
Le statuizioni non sono viziate né sotto il profilo formale – trattandosi di un soggetto non inserito nella originaria lista testi della difesa e che non aveva partecipato all’accertamento tecnico – né sotto il profilo sostanziale, dal momento che la Corte di appello ha ritenuto non assolutamente necessaria ai fini della decisione l’escussione del teste, alla luce di tutti gli altri elementi di prova a carico del ricorrente, dei quali si dirà di seguito, nonché per il fatto che, come aveva avvertito il Tribunale (cfr. fg. 35 della sentenza di primo grado), il consulente difensivo COGNOME, escusso al dibattimento, aveva comunque riferito le osservazioni del dottor COGNOME “che riguardavano il non corretto utilizzo del metodo discontinuo piuttosto che quello continuo e l’ipotesi che la presenza della traccia del DNA di COGNOME sulla mannaia, essendo una componente minoritaria all’interno del profilo misto, potesse essere frutto di contaminazione”.
Orbene, anche in forza di tali critiche, il consulente del Pubblico ministero aveva depositato una integrazione di consulenza ed aveva spiegato al dibattimento, in sede di nuova escussione – come hanno sottolineato entrambe le sentenze di merito – che l’esame del DNA dava risultati certi sfavorevoli all’imputato con l’utilizzo di entrambi i metodi di indagine, discontinuo e continuo e che, anzi, quest’ultimo, dava risultati ancora più in danno delle ragioni difensive (cfr. fgg. 16-18 della sentenza impugnata).
Quanto alla contaminazione della traccia del DNA sulla mannaia, si è detto che il profilo misto repertato era stato ricondotto all’imputato ed alle due vittime. Ne consegue che, non potendosi dar luogo ad alcun profilo di inutilizzabilità della prova scientifica (in questo senso, Sez. 5, n. 8893 del 11/01/2021, COGNOME, Rv. 280623) o di violazione del contraddittorio, la motivazione della Corte di appello deve essere valutata ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. con riguardo alla sua congruità e non manifesta illogicità, che, per le ragioni dette e per quanto ancora si dirà sugli altri elementi probatori a carico del ricorrente, ha dimostrato di possedere.
In punto di diritto, è bene ricordare che la rinnovazione dell’istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell’istruttoria espletata in primo grado, è un istituto di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente allorché il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. U, n. 12602 del 2015, dep. 2016, Rv. 266820). Inoltre, è pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, che in tema di ricorso per cassazione può essere censurata la mancata rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l’esistenza nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione di determinate prove in appello (da ultimo, Sez, 6, n.1440 del 22/10/2014, dep.2015, PR).
4. Una ulteriore prova scientifica è stata acquisita al processo, a corroborare la statuizione di condanna e le valutazioni in fatto ed in diritto fin qui evidenziate. 4.1. La sentenza di primo grado aveva sottolineato, a fg. 12, che nell’ambito di altro procedimento penale a carico del ricorrente, era stata eseguita, il 20 dicembre 2021 (circa due mesi e mezzo dopo la rapina per cui si procede), una perquisizione all’interno di uno stabile in stato di abbandono, posto alle spalle
di analogo fabbricato di proprietà dell”imputato.
In una stanza sita al piano terreno, dentro una cavità ricavata nel muro, occultato da un telo di plastica, veniva rinvenuto uno zaino color senape con all’interno capi di abbigliamento, una torcia frontale con batteria, un passamontagna, un pile di colore verde ed altri indumenti.
L’imputato aveva ammesso che tali oggetti e capi di abbigliamento fossero suoi, tranne che un paio di scarpe.
Erano stati eseguiti degli accertamenti tecnici e sulla felpa di colore verde era stato isolato il profilo genetico del ricorrente (sul colletto dell’indumento) e, su una traccia ematica nel petto dell’indumento, il DNA di una delle vittime della rapina, COGNOME NOME, il quale, secondo il resoconto dei fatti offerto dalle sentenze di merito, era stato colpito al capo dal rapinatore ed aveva sanguinato. 4.2. Le eccezioni tecniche sulla modalità di acquisizione di tale, seconda prova scientifica e sulla sua validità, sono da ritenere assorbite da quanto in precedenza rilevato a proposito della prima, analoga prova.
La rilevanza di questo secondo elemento processuale a carico del ricorrente, ha fatto correttamente osservare ai giudici, in modo ineccepibile sotto il profilo logico, che la convergenza in senso accusatorio di due autonome prove scientifiche dello stesso segno e di particolare efficacia, non poteva essere una sfortunata coincidenza.
Al di là di ciò, è importante sottolineare, per superare una delle critiche difensive, che nella felpa era stata trovata altra traccia riconducibile a soggetto ignoto, emergenza che, però, come ha sottolineato la sentenza impugnata, per un verso, non esclude che l’imputato avesse indossato l’indumento e, di più, che il capo di abbigliamento fosse stato con certezza indossato dal rapinatore che possedeva il DNA dell’imputato in forza del primo accertamento, sporcandosi del sangue di una delle due vittime che era rimasta ferita.
4.3. Infine, è il caso di sottolineare che il consulente tecnico del Pubblico ministero aveva escluso che la traccia sulla felpa riferibile a soggetto ignoto fosse riconducibile al DNA di NOME COGNOME, unico soggetto, amico dell’imputato, del quale si era paventato, anche se mai del tutto esplicitamente da parte della difesa tecnica, un possibile coinvolgimento nella rapina (cfr. fg. 21 della sentenza di primo grado).
Le emergenze ulteriori, alcune di esse assai significative, sono state correttamente valorizzate dai giudici di merito ad ulteriore confutazione delle critiche difensive ancora coltivate in ricorso.
Esse consistono, in sintesi:
nel fatto che le telecamere poste nella zona del delitto avevano evidenziato che l’imputato – il quale aveva ammesso questa circostanza – era a bordo di una motocicletta in una via che conduce all’abitazione delle vittime. Tale passaggio si era verificato due volte, in un orario che la sentenza impugnata e quella del Tribunale hanno ritenuto compatibile con quello della rapina, secondo le primigenie dichiarazioni della persona offesa Macché rese in sede di denuncia, che aveva indicato le ore 20-20.30 (in sede di incidente probatorio, invece, le ore 19.30-20.00, cfr. fg. 8 della sentenza di primi grado). I due passaggi con la motocicletta, peraltro, avevano lasciato un margine di tempo di circa 37 minuti, tale da consentire all’imputato di commettere il delitto;
nella circostanza che altre telecamere della zona, a partire dalle 20.59, avevano immortalato il ricorrente che caricava la moto su una ape car appartenente ai testi COGNOME e COGNOME i quali, escussi al dibattimento, avevano dichiarato che il ricorrente, soggetto a loro noto come vicino di casa, in stato di forte agitazione, aveva perentoriamente ordinato loro di caricare la motocicletta (che si era accertato avere qualche problema di funzionamento) sul cassone e di accompagnarlo a casa salendo anch’egli sul retro, sdraiandosi e dicendo loro, successivamente e con un coltello in mano con il quale stava giocando, che li avrebbe dovuti uccidere per il fatto che lo avevano aiutato; tutti particolari insieme a quello che, una volta giunto a casa del padre, il ricorrente si era immediatamente disfatto dello zaino – ricondotti dalla Corte, sotto un profilo
logico ineccepibile, alla commissione, di poco precedente, del grave delitto. Con tale emergenza il ricorso non si confronta;
nel fatto che l’imputato, ripreso dalle telecamere a passare nei pressi dell’abitazione delle vittime, aveva decelerato in prossimità del luogo del delitto (fg. 14 della sentenza di primo grado), aveva uno zaino ed indossava una torcia centrale, oggetti della stessa tipologia di quelli ritrovati nascosti due mesi dopo in uno alla felpa con le tracce di sangue di una delle vittime e ad un passamontagna di colore simile a quello indicato dalla persona offesa COGNOME;
nella circostanza che gli accertamenti investigativi e la visione delle telecamere non avevano registrato passaggi sospetti di altri mezzi nella zona del delitto negli orari in cui questo si era verificato (cfr. fg. 15 della sentenza impugnata). Si tratta di altra emergenza con la quale il ricorso non si confronta;
nella circostanza che il rapinatore doveva necessariamente essere un soggetto particolarmente atletico, posto che aveva raggiunto l’abitazione delle vittime arrampicandosi in maniera rocambolesca. Lo stesso imputato aveva dato sfoggio delle sue abilità atletiche anche in carcere, salendo sul tetto e auto definendosi capace di andare sui tetti e sugli alberi fino a 50 metri di altezza (fg. 30 della sentenza di primo grado). Di tanto, invece, non sarebbe stato capace NOME COGNOME, l’unico indiziato alternativo, che nel periodo di interesse era stato operato ad una gamba e portava un tutore;
nella mancanza di un alibi. Il ricorrente, secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata e non smentito dall’atto di appello e dal ricorso, non aveva effettuato chiamate nell’orario in cui, secondo i giudici di merito, si era verificata la rapina, certamente era fuori casa subito dopo le ore 20 e proprio in quella fascia oraria, come ricorda il ricorso, aveva ricevuto una telefonata alla quale non aveva risposto (quella delle ore 19.47).
Siffatti elementi probatori, evidenziati e citati dalle due sentenze di merito, considerati nel loro insieme, superano ogni obiezione difensiva.
6.1. Essi dimostrano e danno ragione, in particolare, del poco peso che è stato attribuito dai giudici di merito alle divergenze nel racconto della persona offesa Macché – tra quanto contenuto nella denuncia acquisita e quanto da costei dichiarato in incidente probatorio – a proposito dell’orario della rapina, dell’altezza del rapinatore incappucciato, del suo abbigliamento; divergenze agevolmente ricondotte dalla Corte di appello e dal Tribunale alle difficoltà del ricordo della persona offesa, rispetto a quanto dichiarato in denuncia il giorno dopo, su alcuni aspetti del fatto accaduto allorquando aveva riferito su di esso in incidente probatorio a distanza di circa sei mesi, anche a motivo della età avanzatissima e della perdita del coniuge, secondo quanto sottolineato nella sentenza impugnata
senza incorrere in vizi logico-ricostruttivi, a fronte di quanto complessivamente emerso al processo.
Su tali divergenze il ricorso ha molto insistito, ad esse conferendo un valore probatorio non corrispondente all’insieme degli elementi acquisiti, alcuni dei quali non adeguatamente messi a fuoco o incongruamente pretermessi.
6.2. Altrettanto inconferente, a fini ricostruttivi, risulta la censura inerente al peso da attribuire alle dichiarazioni rese da NOME COGNOME il quale, davanti al Tribunale, si era mostrato particolarmente confuso e reticente, tanto da indurre l’organo giudicante ad ordinare la trasmissione degli atti al Pubblico ministero per una eventuale incolpazione di falsa testimonianza.
E ciò, in quanto, nella fase delle indagini preliminari, costui aveva dimostrato di essere più credibile – e così è stato valutato dai giudici di merito con decisione esente da vizi – sul fatto, confermato da una intercettazione, di conoscere il luogo di nascondimento degli indumenti utilizzati dal rapinatore, che egli sapeva essere il ricorrente e del quale era amico tanto da riceverne le confidenze, così da condurre gli inquirenti, il 21 settembre 2022, nello stesso luogo ove, diversi mesi prima ed a sua insaputa, era stato ritrovato lo zaino contenente la felpa macchiata dal sangue della vittima che l’imputato aveva ammesso essere sua (cfr. fgg. 12-14 della sentenza di primo grado).
D’altra parte, l’avere escluso, in ragione di quanto prima detto, la responsabilità diretta del COGNOME nella commissione della rapina, conferisce al tema una importanza marginale nell’economia del giudizio, siccome correttamente attribuitagli dalla sentenza impugnata.
Tanto supera ed assorbe ogni altro rilievo difensivo, anche in relazione al contenuto della memoria.
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila alla Cassa delle Ammende, commisurata all’effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila alla Cassa delle Ammende. Così deciso, il 29/01/2025.