Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 47613 Anno 2024
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 1 Num. 47613 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 13/11/2024
PRIMA SEZIONE PENALE
– Presidente –
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato a CASTELLAMMARE DI STABIA il 23/05/1958 avverso l’ordinanza del 20/06/2024 del TRIB. LIBERTA’ di Napoli udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udita la requisitoria del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso udito l’avvocato NOME COGNOME del Foro di Torre Annunziata, in difesa di COGNOME che ha chiesto l’accoglimento dei motivi di ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale del riesame di Napoli ha confermato l’ordinanza del 06/05/2024 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale della medesima città, che aveva adottato nei confronti di NOME COGNOME il provvedimento restrittivo della libertà personale di massimo rigore, ritenendolo gravemente indiziato del reato di concorso in omicidio, pluriaggravato dalla premeditazione e dal metodo mafioso, commesso in danno di NOME COGNOME oltre che dei connessi reati di porto e detenzione illecita di armi.
Ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo dell’avv. NOME COGNOME deducendo due motivi, che vengono di seguito riassunti entro i limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, viene denunciata violazione ex art. 606, comma 1, lett. c) e lett. e) cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 192 comma 3, 273 e 292 cod. proc. pen., per violazione dei criteri di apprezzamento della prova cautelare e per mancanza di motivazione.
Viene censurata, in primo luogo, la ritenuta credibilità delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME la cui attendibilità intrinseca e soggettiva sarebbe dimostrata dal non aver questi taciuto il proprio rilevante ruolo, nella fase genetica del progetto omicidiario in ordine al quale si procede. Il Tribunale del riesame si limita a richiamare, sul punto, i passaggi salienti dell’ordinanza restrittiva, senza confrontarsi compiutamente con gli elementi contrari addotti dalla
difesa. Sin dall’inizio del suo percorso collaborativo – intrapreso dinanzi alla Corte di assise, proprio durante il processo in corso per l’omicidio del consigliere comunale NOME COGNOME affermò di aver prospettato la possibilità di procedere all’assassinio di quest’ultimo, ma di averlo fatto solo scherzosamente. Sempre in punto di attendibilità intrinseca, il Tribunale del riesame non ha tenuto conto del legame sentimentale, che al tempo univa NOME COGNOME e NOME COGNOME; quest’ultima Ł figlia del collaboratore di giustizia NOME, a sua volta nemico storico della famiglia COGNOME e inserito nella lista delle persone da eliminare, con assoluta priorità, ad opera del clan.
Quanto alla attendibilità estrinseca del narrato del COGNOME, emergono svariate aporie argomentative, atteso che la dichiarazione accusatoria si Ł arricchita solo in sede dibattimentale, allorquando COGNOME ha riferito dell’incontro avvenuto fra Mosca e D’Alessandro. Tale circostanza non Ł affatto marginale, visto che – appunto nel corso di tale incontro – Mosca avrebbe espresso il proprio assenso al compimento dell’azione omicidiaria, mutando l’originario proposito di punire in maniera meno severa il politico stabiese.
Il Tribunale del riesame ha poi fatto assurgere a elemento di riscontro, rispetto al narrato dei collaboratori di giustizia, la captazione ambientale risalente al 21/12/2017, nella quale gli interlocutori (NOME COGNOME e NOME COGNOME) ponevano l’accento sul comportamento di NOME COGNOME. Tale elemento, però, non può rivestire un carattere individualizzante rispetto alla posizione di Mosca. La ricostruzione contenuta nell’ordinanza impugnata, inoltre, si colloca in una posizione di netto contrasto, rispetto alle dichiarazioni provenienti dal collaboratore NOME COGNOME, reggente del clan COGNOME negli anni 2008 e 2009 ed esecutore materiale dell’omicidio. Questi afferma, infatti, di aver appreso da COGNOME che l’omicidio di COGNOME originasse dall’intenzione, manifestata da questi, di affidare la gestione di un grosso parcheggio in Vico Equense a un soggetto di Secondigliano, il quale era estraneo al clan; l’omicidio avrebbe consentito, invece, l’aggiudicazione di tale gestione ai COGNOME, per il tramite di NOME COGNOME.
Sono state poi valorizzate dal Tribunale, a riscontro delle propalazioni di Belviso, le vicende riguardanti NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Quanto alla prima vicenda, il COGNOME, nipote della moglie di NOME COGNOME, era stato fatto oggetto di richieste estorsive, che erano collegate ad un lavoro effettuato nei pressi del quartiere di Scanzano, ad opera di NOME COGNOME e NOME COGNOME, soggetti intranei al clan; così, COGNOME aveva interessato COGNOME, il quale era riuscito a evitare il pagamento della tangente. Nel secondo caso, COGNOME era riuscito a ottenere – in favore di NOME COGNOME – la riduzione della parcella richiestagli da un architetto. Trattasi di episodi che sono stati considerati dimostrativi, a un tempo, sia del rapporto esistente fra COGNOME e COGNOME, sia dello spessore criminale di quest’ultimo. Invece, essi si pongono in netto contrasto, con la tesi della sussistenza del mandato omicidiario, che sarebbe stato – in ipotesi di accusa – conferito da NOME COGNOME
Mai riscontrati, infatti, sono i propositi di risentimento, asseritamente nutriti da Mosca verso COGNOME e menzionati da Belviso. Del resto, le stesse dichiarazioni rese da quest’ultimo non lasciano trasparire che egli e Cavaliere siano stati destinatari di un ordine, impartito da Mosca, di non insistere nella pretesa verso Longobardi; emerge, al contrario, esclusivamente un invito bonario a non proseguire nelle pretese, in ragione delle precarie condizioni economiche in cui versava la vittima. Molto amplificato, dunque, Ł il ruolo rivestito da Mosca all’interno del sodalizio.
A riscontro delle dichiarazioni accusatorie rese da COGNOME, viene poi adoperato il narrato de auditu di NOME COGNOME, il quale ha confermato la individuazione – quali mandanti dell’omicidio di COGNOME – in NOME COGNOME e NOME COGNOME. COGNOME, però, Ł a conoscenza di tali fatti per esser stato detenuto, al momento dell’omicidio, con NOME COGNOME, NOME COGNOME ed NOME
Rotondale, oltre che per aver interloquito con NOME COGNOME e NOME COGNOME.
La ricostruzione del movente dell’omicidio fornita da COGNOME, in definitiva, Ł priva di logica. Stando a tale, COGNOME si sarebbe appropriato di una parte del denaro trasferito da COGNOME al sodalizio; non essendo pensabile, però, procedere all’eliminazione dello stesso COGNOME – per essere questi il suocero di NOME COGNOME – si sarebbe deciso l’omicidio di NOME COGNOME, al fine di evitare che altri dirigenti del clan potessero venire a conoscenza della condotta posta in essere da COGNOME. In sostanza, secondo il Tribunale del riesame, vi sarebbero due distinte versioni, in ordine al movente dell’omicidio di NOME COGNOME:
una Ł la ricostruzione ufficiale, ossia quella propalata da Belviso (si sarebbe trattato della punizione inflitta per una effettiva slealtà, ossia per aver utilizzato il nome del clan, al fine di accaparrarsi tangenti, poi non versate nelle casse comuni del sodalizio);
l’altra Ł la versione reale, rivelata da COGNOME (la slealtà di Mosca rivestirebbe un carattere meramente apparente, mentre l’omicidio avrebbe dato risposta all’esigenza di far tacere per sempre NOME, onde non consentire l’emersione dei comportamenti scorretti serbati da Mosca.
2.2. Con il secondo motivo, viene denunciata violazione ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., in riferimento all’art. 292 comma 2 cod. proc. pen., per mancanza di motivazione, a fronte delle deduzioni difensive.
La difesa aveva evidenziato, infatti, le molteplici ambiguità che caratterizzano le versioni fornite da NOME COGNOME; con tali deduzioni difensive, pure sussunte in una memoria, il Tribunale del riesame non si Ł confrontato. In particolare, non sono state considerate adeguatamente nØ l’esistenza di un mandato criminale ampio, nØ l’incongruenza logica, pacificamente emergente dalla ricostruzione contenuta nell’ordinanza genetica, quanto alle vicende Longobardi e COGNOME. NOME COGNOME aveva libertà di compiere qualsivoglia omicidio in autonomia, per cui Ł ben plausibile che egli abbia deciso liberamente di uccidere COGNOME, avendo peraltro riferito di aver appreso chi fosse solo dopo l’omicidio. Le già citate vicende COGNOME e COGNOME, invece, sono la piø potente sconfessione delle dichiarazioni di COGNOME, allorquando questi riferisce di aver ricevuto un mandato omicidiario diretto per l’uccisione di COGNOME (del quale sarebbe stata descritta l’ascesa politica, verificatasi grazie all’appoggio del clan, nonchØ il successivo mancato rispetto degli impegni assunti).
In sede di formulazione delle conclusioni in udienza, il Procuratore generale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso, mentre la difesa ha insistito per l’accoglimento dello stesso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso Ł infondato.
Integrando brevemente quanto già sintetizzato in parte narrativa, si sottolinea trattarsi della conferma – in sede di riesame – di una misura cautelare di tipo carcerario, per il delitto di omicidio premeditato, posto in essere in danno di NOME COGNOME, consigliere comunale in Castellammare di Stabia; il fatto Ł riconducibile, stando all’avversata ordinanza, al clan camorristico dei COGNOME, al tempo egemone nella zona. La morte dei COGNOME, infatti, sarebbe stata deliberata da NOME COGNOME, capo del sodalizio suddetto, al quale proprio NOME COGNOME avrebbe suggerito di parlarne con NOME COGNOME; la decisione omicidiario finale – stando a quanto ritenuto dall’ordinanza genetica, confermata dal provvedimento ora impugnato – venne presa in casa di Mosca, nel mese di gennaio 2009, allorquando il COGNOME autorizzò COGNOME all’esecuzione del delitto.
L’omicidio di NOME COGNOME, peraltro, andava a incastonarsi in una lunga catena di omicidi, in ordine ai quali ha riferito anche il collaboratore di giustizia NOME COGNOME
2.1. Il Tribunale del riesame, quanto a NOME COGNOME ha precisato trattarsi di un soggetto pluripregiudicato, per i delitti di cui agli artt. 416bis cod. pen., 73 e 74 d.P.R. 09 ottobre 1990, n. 309. Il collaboratore di giustizia NOME COGNOME inoltre, ha riferito in ordine ai rapporti intrattenuti dall’odierno ricorrente con la vittima dell’omicidio. Giova anche sottolineare come – per l’omicidio di quest’ultimo – siano stati già condannati gli esecutori materiali NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME.
2.2. L’ordinanza impugnata, poi, riporta nel dettaglio le dichiarazioni rese da NOME COGNOME, secondo il quale COGNOME gli ordinò direttamente l’omicidio; la decisione era scaturita dal fatto che COGNOME – assunto un ruolo politico di alto rango, grazie all’appoggio del clan COGNOME non aveva poi rispettato gli impegni assunti. COGNOME, peraltro, afferma di essersi consultato – in vista del compimento dell’azione omicidiaria – anche con NOME COGNOME.
2.3. NOME COGNOME – le cui propalazioni sono pure richiamate, dal Tribunale del riesame riferisce di avere avuto l’ordine di uccidere NOME da NOME COGNOME. Ricorda poi che, tre giorni prima del fatto omicidiario, NOME COGNOME aveva avuto un forte litigio con NOME.
2.4. Il Tribunale del riesame riporta, altresì, le propalazioni di NOME COGNOME; questi riferisce de relato e riconduce, comunque, il fatto al Mosca, pur indicandone una causale difforme, incentrata sull’esigenza di zittire COGNOME per coprire le scorrettezze poste in essere da Mosca.
2.5. In sede di riesame, la difesa aveva contestato la sussistenza dei riscontri ex art. 192 comma 3 cod. proc. pen., rispetto alle dichiarazioni di Belviso.
Sostiene l’impugnata ordinanza, al contrario, come le intercettazioni confermino quanto dichiarato da COGNOME, consentendo di valorizzare il ruolo ricoperto da COGNOME all’interno dell’organizzazione, nel settore degli appalti, dell’imprenditoria e delle tangenti. Secondo i Giudici del riesame, NOME COGNOME era uno strumento operativo per il clan, ma – dagli atti – emergerebbe un progressivo suo distanziarsi dall’organizzazione, all’indomani dell’arresto di NOME COGNOME. NOME COGNOME era il referente di COGNOME, all’interno della compagine camorristica, soprattutto dopo l’arresto di NOME COGNOME; COGNOME si sarebbe comportato – secondo quanto lo stesso COGNOME riferiva agli altri sodali – in modo sleale, riscuotendo tangenti mediante la spendita del nome del clan, senza però poi versare i proventi all’associazione stessa.
Il Tribunale del riesame, in sostanza, ritiene che il delitto sia sicuramente attribuibile al clan COGNOME, come peraltro dimostrato dalle condanne irrevocabili; le dichiarazioni di COGNOME, infine, sarebbero ampiamente riscontrate, costituendo la stesso narrato di COGNOME un riscontro, rispetto alla sua ricostruzione.
Posta tale base descrittiva e argomentativa del provvedimento impugnato, la disamina delle censure articolate deve essere compiuta seguendo il solco tracciato da diversi principi di diritto, così rapidamente riassumibili:
in tema di misure cautelari personali, il giudizio di legittimità relativo alla verifica della sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza (ex art. 273 cod. proc. pen.), oltre che delle esigenze cautelari (ex art. 274 cod. proc. pen.), deve riscontrare – entro il perimetro circoscritto dalla devoluzione – la violazione di specifiche norme di legge o la mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato. Essa, dunque, non può intervenire nella ricostruzione dei fatti, nØ sostituire l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza dei dati probatori, bensì deve dirigersi a controllare se il giudice di merito abbia dato adeguato conto delle ragioni che l’hanno convinto della sussistenza o meno della gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato e a verificare la congruenza della motivazione riguardante
lo scrutinio degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che devono governare l’apprezzamento delle risultanze analizzate (si vedano, sull’argomento, Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, COGNOME, Rv. 215828 e le successive, Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, COGNOME, Rv. 276976; Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, COGNOME, Rv. 255460).
Quanto ai limiti del sindacato consentito in sede di legittimità, quindi, Ł possibile richiamare il dictum di Sez. 2, n. 31553 del 17/05/2017, COGNOME, Rv. 270628, secondo cui: ‹‹In tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione che deduca insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, o assenza delle esigenze cautelari, Ł ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito››;
b) occorre rifarsi, inoltre, alla regola di giudizio secondo la quale: ‹‹In tema di procedimento di riesame di misure cautelari personali, sussiste l’obbligo del tribunale di esaminare compiutamente ogni censura difensiva sollevata all’udienza ex art. 309 cod. proc. pen., con la conseguenza che Ł da ritenersi affetta da vizio di motivazione l’ordinanza che, a fronte di un’eccezione ritualmente proposta, non contenga una compiuta disamina della stessa›› (Sez. 4, n. 21374 del 11/06/2020, Davis, Rv. 279297).
Pare utile, allora, precisare quale sia la relazione intercorrente, fra le deduzioni difensive svolte in sede di riesame e la motivazione che il Tribunale Ł tenuto a fornire in ordine ai temi posti dalla difesa stessa, ribadendosi come l’obbligo di motivazione possa reputarsi adempiuto anche nel caso in cui il provvedimento emesso dal Tribunale del riesame effettui un rinvio per relationem alle argomentazioni contenute nel provvedimento genetico, rinvio che sia incastonato in una piø ampia valutazione, atta a contrastare – anche per implicito – le deduzioni difensive. Il tutto postula, però, che le questioni poste dalla difesa non siano idonee a disarticolare il ragionamento probatorio proposto nell’ordinanza applicativa della misura cautelare, non potendo, in tal caso, la motivazione per relationem fornire una risposta implicita alle censure formulate.
All’esito del riesame dell’ordinanza applicativa di una misura cautelare, Ł legittima la motivazione che richiami (o riproduca) le argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato, ove siano mancate specifiche deduzioni difensive, formulate con l’istanza originaria o con successiva memoria, ovvero articolate oralmente in udienza, tali da rendere funzionalmente inadeguata la relatio su cui il richiamo si Ł basato (Sez. 1, n. 8676 del 15/01/2018, Falduto, Rv. 272628; Sez. 6, n. 566 del 29/10/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 265765). In questa prospettiva, si può ritenere senz’altro legittima la riproposizione anche di parti del provvedimento applicativo nell’ordinanza resa all’esito del riesame; a patto, però, che tale tecnica espositiva sia affiancata dalla dovuta analisi dei contenuti e dall’esplicitazione delle ragioni alla base del convincimento espresso in sede decisoria (Sez. 2, n. 13604 del 28/10/2020, dep. 2021, Torcasio, Rv. 281127).
Vero, in sostanza, che Ł pienamente consentita la motivazione per relationem, rispetto all’ordinanza impugnata, ma a patto che l’ordinanza del Tribunale del riesame contenga una motivazione che dimostri un vaglio critico e che non si risolva quindi nel mero richiamo alle argomentazioni svolte nel provvedimento restrittivo della libertà personale, omettendo la valutazione delle doglianze contenute nella richiesta di riesame (Sez. 6, n. 9572 del 29/01/2014, COGNOME, Rv. 259111). E nemmeno Ł consentito – sempre in tema di misure cautelari personali – assolvere all’obbligo di offrire un adeguato e congruo apparato motivazionale (sia dell’ordinanza applicativa di misure coercitive, sia di quella di conferma in sede di riesame), attraverso la mera riedizione del compendio raccolto in sede di indagini preliminari, facendo affidamento sul requisito dell’autoevidenza dello stesso (Sez. 6, n. 27928 del 14/06/2013, Ferrara, Rv. 256262).
Come riassunto nella enunciazione contenuta in parte narrativa, con il primo motivo ci si duole della violazione dei criteri di apprezzamento della prova cautelare, oltre che di una carenza di motivazione.
4.1. Quanto però alla valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori, il Tribunale del riesame – contrariamente alle deduzioni difensive – non ha minimamente mancato di saggiarne e attestarne la credibilità soggettiva, nonchØ di verificare l’attendibilità dei narrati da essi provenienti e, infine, la loro vicendevole capacità di riscontrarsi a livello individualizzante. La verifica dell’attendibilità postula, del resto, la convergenza delle chiamate, in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum , nonchØ la loro autonomia genetica (vale a dire, la derivazione da fonti di informazione diverse) e, infine, la loro indipendenza, nel senso che esse non appaiano frutto di intese fraudolente (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255143-01; Sez. 1, n. 41238 del 26/06/2019, COGNOME, Rv. 277134;
4.2. Le censure mosse dai difensori peccano, con tutta evidenza, di genericità: l’ordinanza impugnata, infatti, ha condiviso la valutazione compiuta nel provvedimento genetico, in ordine alla attendibilità degli apporti collaborativi, ai quali ha dedicato ampio spazio. Il Tribunale del riesame, in sostanza, non si Ł arrestato ad un mero vaglio inerente alla constatazione dell’avvenuta collaborazione con la giustizia, ma ha focalizzato la complessiva analisi muovendo dalla personalità dei dichiaranti e – in special modo – dai rapporti intessuti con l’accusato, circostanza reputata fortemente evocativa di una diretta e immediata percezione delle vicende per le quali si procede, oltre che delle dinamiche interpersonali poste a monte delle stesse.
4.3. NØ risulta tralasciato il dato – di tenore oggettivo e, pure, specificamente dimostrativo della affidabilità della fonte di conoscenza – rappresentato dalla sicura militanza dei propalanti nella criminalità organizzata. Sono state evidenziate, poi, le specificità connotanti le singole narrazioni; l’analisi ha anche implicato il raccordo – di tenore logico e intratestuale – fra le dichiarazioni dei vari collaboranti e, successivamente, con gli elementi oggettivi raccolti nel corso delle indagini.
Una volta ritenuta genuina e lineare la narrazione proveniente dai collaboratori di giustizia, il fatto omicidiario Ł risultato ricostruito in maniera estremamente dettagliata e storicamente coerente. Tutte le argomentazioni esposte nell’ordinanza avversata, quindi, mostrano un buon governo dei principi piø volte esposti da questa Corte. E infatti, sulla credibilità soggettiva ed oggettiva dei collaboranti, il provvedimento impugnato non mostra di attribuire – in maniera aprioristica – credito a tali dichiarazioni, ma analizza specificamente il contenuto del narrato, saggiando la sovrapponibilità e la coerenza tra le dichiarazioni, nonchØ la carenza di dati radicalmente dissonanti, lo spessore dei collaboranti e la sussistenza di elementi di riscontro di carattere oggettivo.
4.4. In riferimento proprio a tale ultima tematica, Ł bene rammentare che – attenendosi ai principi dogmatici elaborati in questa materia dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. la succitata Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, Aquilina, Rv. 255145) – il giudice Ł chiamato a verificare la sussistenza di tre requisiti, rappresentati:
dalla credibilità soggettiva del dichiarante, valutata alla stregua di elementi personali quali le sue condizioni socio-economiche e familiari, il suo passato, i rapporti con l’accusato, la genesi e le ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all’accusa dei coautori e complici;
l’attendibilità intrinseca del contenuto dichiarativo, desunta da dati quali la spontaneità, la verosimiglianza, la precisione, la completezza della narrazione dei fatti, la concordanza tra le dichiarazioni rese in tempi diversi;
la riscontrabilità oggettiva del dichiarante, attraverso elementi di prova o indiziari estrinseci, i quali devono essere esterni alla chiamata onde evitare il fenomeno della c.d. “circolarità” probatoria e che possono consistere in elementi probatori o indiziari di qualsiasi tipo e natura, ivi compresa un’altra chiamata in correità (Sez. 1, n. 16792 del 9/4/2010, Rv. 246948; Sez. 2, n. 16183 del
1/2/2017, Rv. 269987); a condizione, in quest’ultimo caso, che le convergenti dichiarazioni accusatorie, ritenute intrinsecamente attendibili, siano realmente autonome e che la loro coincidenza non sia fittizia, come nel caso in cui una chiamata abbia condizionato l’altra (cfr. ancora Sez. U., n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 255143).
4.5. L’ordinanza censurata ha preso in considerazione, quindi, il profilo della convergenza delle dichiarazioni collaborative, rifacendosi al consolidato orientamento di legittimità, secondo cui le dichiarazioni accusatorie provenienti da plurime fonti possono anche offrirsi reciproco riscontro, a patto che si proceda comunque alla loro valutazione, in uno agli ulteriori elementi di prova atti a confermarne la credibilità. Occorre, in sostanza, che resti verificata la concordanza circa il nucleo essenziale della narrazione, restando quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie, che investano soltanto elementi circostanziali del fatto, a meno che tali discordanze non siano sintomatiche di una insufficiente attendibilità dei chiamanti stessi .
4.6. Nella concreta fattispecie, NOME COGNOME riportando de relato quanto appreso da NOME COGNOME, ricostruisce il movente dell’omicidio in maniera sovrapponibile, rispetto a quanto affermato da quest’ultimo. COGNOME avrebbe appreso da COGNOME, infatti, che si erano creati rilevanti ‘appetiti’ del clan, sull’affare relativo al parcheggio delle terme stabiesi; l’aggiudicazione del relativo appalto era stata data, però, a persona estranea all’associazione camorristica e ciò sarebbe avvenuto per una precisa volontà di un politico locale, il quale aveva poi ‘pagato le conseguenze’ di tale condotta.
Quanto a COGNOME, egli riferisce anzitutto di aver ricevuto direttamente da COGNOME l’ordine di uccidere COGNOME, a causa del comportamento sleale da quest’ultimo serbato nei confronti del clan. Afferma poi anche che COGNOME aveva dato l’indicazione – in prima battuta – di limitarsi a gambizzare COGNOME; lo stesso COGNOME avrebbe mosso rimostranze rispetto a questo progetto, paventando il rischio di essere, in tal modo, riconosciuti. E così COGNOME – a quanto risulta, senza incontrare alcuna forma di opposizione, ad opera di Mosca – avrebbe invece proposto di uccidere il
COGNOME
Con riferimento a NOME COGNOME questi riferisce de relato da NOME COGNOME sostenendo come l’omicidio abbia trovato la propria scaturigine nel comportamento sleale tenuto da COGNOME nei confronti del clan, menzionando anche la questione del parcheggio, la cui gestione veniva assegnato a un soggetto non organico all’associazione.
Pacifico Ł, poi, che i rapporti tra COGNOME e COGNOME si siano irrimediabilmente incrinati tre giorni prima dell’omicidio, dunque in epoca antecedente al mandato omicidiario, come desumibile anche dalla narrazione operata dalla moglie del COGNOME stesso,
In ordine alle dichiarazioni rese da NOME COGNOME, esse valgono – secondo la ineccepibile impostazione concettuale che sorregge il provvedimento impugnato – a suffragare la tesi della riconducibilità del mandato omicidiario al COGNOME e al COGNOME, ad onta del fatto che egli delinei una differente causale dell’omicidio (causale coincidente, come detto, con la volontà di COGNOME di occultare la sua appropriazione del denaro che COGNOME versava al clan).
4.7. In definitiva, il sicuro riscontro individualizzante, rispetto alle dichiarazioni di COGNOME, Ł rappresentato dal narrato di COGNOME, che riferisce di notizie circolanti all’interno del clan che, come tali, hanno una forte attitudine evocativa. Si deve richiamare, sul punto, la regola ermeneutica fissata da Sez. 1, n. 17647 del 19/02/2020, COGNOME, Rv. 279185- 02, a mente della quale: ‹‹ Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia su fatti e circostanze attinenti la vita e le attività del sodalizio criminoso, appresi come componente dello stesso, seppure non sono assimilabili a dichiarazioni “de relato”, possono assumere rilievo probatorio, purchØ supportate da validi elementi di verifica circa le modalità di acquisizione dell’informazione resa, che consentano di ritenerle effettivamente oggetto di patrimonio conoscitivo comune agli associati››; si veda anche Sez. 1, n. 11097 del 26/01/2006, Termini, Rv. 233648, che ha chiarito come le informazioni che un collaboratore di giustizia sia in grado di fornire, per aver militato in una determinata organizzazione mafiosa e che rientrino in un patrimonio cognitivo comune a tutti gli associati possono assumere rilievo dimostrativo, laddove siano supportate da validi elementi di verifica, circa il fatto che la notizia riferita rappresenti, effettivamente, oggetto di conoscenza condivisa all’interno del clan, in quanto originata da un flusso interno e circolare di informazioni, concernenti proprio vicende di interesse collettivo di tutti gli associati.
4.8. Quanto alla distonia evidenziata dalla difesa, circa il richiamo a due causali tra loro alternative, collocate all’origine del fatto omicidiario, l’applicazione delle regole ermeneutiche enunciate dalla giurisprudenza di legittimità consente di sminuirne l’efficacia disgregante, rispetto alla saldezza del costrutto accusatorio. Si deve infatti ricordare come – in vista della possibilità di ricondurre a un determinato soggetto la responsabilità per un fatto di omicidio – la causale che si pone all’origine della fase ideativa del delitto postuli una rigorosa individuazione; sebbene rappresenti un elemento indefettibile del reato medesimo, essa riveste dunque una valenza probatoria sussidiaria e di significazione secondaria. Sussidiarietà che diviene viepiø rilevante, allorquando la prova della volontà omicida emerga da altri, piø diretti e concludenti, elementi di valutazione e conoscenza (il principio di diritto, risalente ma mai rivisitato, si trova enunciato in Sez. 1, n. 7574 del 14/06/1993 COGNOME, Rv. 194781).
4.9. Il dato della sovrapponibilità fra le propalazioni provenienti, rispettivamente, da Belviso e Rapicano, in realtà, non viene efficacemente aggredito dalla difesa, che sul punto non riesce a oltrepassare lo stadio della mera critica assertiva e fattuale. Resta fermo, quindi, il punto che costituisce l’architrave del convincimento sussunto nell’avversata ordinanza e che Ł rappresentato dal fatto che fu NOME COGNOME (con NOME COGNOME) a decidere l’omicidio di NOME COGNOME. Ciò Ł concordemente affermato da COGNOME e da COGNOME sebbene il primo mostri la convinzione (circolante nel clan) che l’omicidio fosse stato ordinato per motivi differenti da quelli
‘ufficiali’.
Il secondo motivo deduce un vizio motivazionale, rispetto alle censure difensive. Il Tribunale del riesame – secondo la tesi della difesa – non si sarebbe confrontato con il contenuto della memoria da quest’ultima depositata.
5.1. La base logico-giuridica da cui muove l’ordinanza, però, non viene decisivamente contrastata dall’omesso dialogo, denunciato dal ricorrente, con determinate deduzioni difensive.
Giova infatti osservare come – laddove venga dedotta l’invalidità, o anche il travisamento di un atto di rilevanza probatoria – non basti invocare l’espunzione delle relative risultanze, dall’orizzonte cognitivo e valutativo del giudice, essendo ben possibile che l’elemento probatorio illegittimamente assunto o – come asseritamente accaduto, nel caso di specie – scarsamente valutato, non infirmi in maniera irreversibile la tenuta logica dell’impianto giustificativo, posto a sostegno del decisum , residuando comunque argomentazioni di inconfutabile spessore concettuale. La denunciata espunzione dallo spettro valutativo del giudice di un dato elemento, a tutto voler concedere, non determina ipso facto l’automatica caducazione della decisione, dovendosi, in ogni caso, sottoporre quest’ultima alla c.d. “prova di resistenza”, in modo da apprezzare il grado di rilevanza dei residui elementi, i quali ben potrebbero essere da soli sufficienti a giustificare il raggiungimento del medesimo esito. Spetta allora al ricorrente argomentare adeguatamente, circa l’incidenza dell’errore percettivo sulla solidità dell’impianto decisorio.
5.2. Tanto premesso in chiave metodologica generale, non vi Ł chi non rilevi come la doglianza difensiva presenti un connotato di mera contestazione, articolandosi in censure interamente incentrate sul merito. Le critiche difensive, infatti, risultano sostanzialmente sovrapponibili alle censure attraverso le quali si dipana il primo motivo; esse attengono, infatti:
a pretesi profili di contraddittorietà, che sarebbero riscontrabili nelle propalazioni di NOME COGNOME;
all’errata valutazione, asseritamente compiuta circa la valenza delle sopra enucleate vicende Longobardi e COGNOME;
al fatto che NOME COGNOME avesse la piena libertà di agire in autonomia, anche laddove intendesse commettere un omicidio.
Trattasi di aspetti già ampiamente analizzati e che, nuovamente, vengono aggrediti mediante critiche solo assertive, che non si discostano da quelle già dipanate mediante il primo motivo; la censura, in conclusione, si risolve in una mera contestazione rivalutativa.
Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato; segue ex lege la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Non comportando – la presente decisione – la rimessione in libertà del ricorrente, segue altresì la disposizione di trasmissione, a cura della cancelleria, di copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, comma 1ter , disp. att. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Il Consigliere estensore NOME COGNOME