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Profitto ingiusto: estorsione anche senza danno?

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile un ricorso contro una condanna per estorsione, chiarendo che il concetto di profitto ingiusto sussiste anche se la pretesa ha ad oggetto proventi da un’attività illecita della vittima. Il reato si considera consumato quando viene limitata la libertà di autodeterminazione della parte offesa, non essendo necessario un danno patrimoniale diretto.

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Pubblicato il 12 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Profitto Ingiusto: Quando l’Estorsione si Configura anche Senza un Danno Evidente

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito importanti principi sul reato di estorsione, in particolare sulla nozione di profitto ingiusto e sul momento in cui il delitto può considerarsi consumato. La decisione chiarisce che l’estorsione sussiste anche quando la pretesa economica del reo ha ad oggetto somme provenienti da un’attività illecita della vittima, e che il reato si perfeziona con la sola limitazione della libertà di scelta della persona offesa.

I Fatti del Caso: La Controversia sull’Estorsione

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda un ricorso presentato da un individuo condannato per estorsione. L’imputato aveva avanzato due principali doglianze contro la sentenza della Corte d’Appello:

1. Errata qualificazione giuridica: Sosteneva che i fatti dovessero essere inquadrati nel reato meno grave di violenza privata (art. 610 c.p.) e non in quello di estorsione (art. 629 c.p.), poiché a suo dire mancava un danno effettivo per la vittima.
2. Mancata configurazione del tentativo: In subordine, chiedeva che il reato fosse considerato solo tentato e non consumato.

La vittima, infatti, svolgeva l’attività di parcheggiatore abusivo e la condotta minacciosa dell’imputato l’aveva costretta ad allontanarsi dal luogo dove abitualmente operava.

La Decisione della Cassazione sul Profitto Ingiusto

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, giudicando le argomentazioni dell’imputato come manifestamente infondate e riproduttive di censure già esaminate e respinte nel precedente grado di giudizio. Gli Ermellini hanno colto l’occasione per riaffermare due principi consolidati nella giurisprudenza penale.

In primo luogo, è stato chiarito che la provenienza illecita dell’oggetto della pretesa estorsiva (in questo caso, i proventi dell’attività di parcheggiatore abusivo) non esclude né l’ingiustizia del profitto perseguito dall’agente, né la sussistenza di un danno per la vittima. La legge tutela il patrimonio nella sua accezione più ampia, indipendentemente dalla sua origine.

In secondo luogo, la Corte ha stabilito che il reato era da considerarsi consumato. La condotta minacciosa aveva infatti determinato una concreta limitazione della libertà di autodeterminazione della persona offesa, costringendola a modificare le proprie abitudini e a rinunciare a svolgere la sua (seppur illecita) attività in quel luogo. Questo risultato, ovvero l’allontanamento della vittima, rappresenta già di per sé il conseguimento di un profitto ingiusto per l’estorsore.

Le Motivazioni della Corte

Nelle motivazioni, i giudici hanno sottolineato come la ricostruzione dei fatti operata dai tribunali di merito fosse logica e coerente. La condotta dell’imputato non si era arrestata a uno stadio di mero tentativo. Il contegno minaccioso aveva prodotto un effetto concreto: la vittima, per timore, si era allontanata dal luogo di lavoro abituale, salvo rare eccezioni. Tale allontanamento forzato costituisce la prova del perfezionamento del reato, poiché l’agente ha ottenuto il vantaggio desiderato, ovvero il controllo di quell’area, limitando la libertà altrui.

La Corte ha ribadito un principio fondamentale: per la consumazione del reato di estorsione, è sufficiente che la vittima compia un atto di disposizione patrimoniale (o una rinuncia) a seguito della violenza o minaccia, non essendo necessario un arricchimento monetario diretto nelle mani dell’estorsore. La limitazione della sfera di libertà personale e patrimoniale della vittima è di per sé sufficiente a integrare il delitto.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza offre due importanti spunti di riflessione. Primo, il reato di estorsione tutela la libertà di autodeterminazione patrimoniale in senso lato. La legge non fa distinzioni sull’origine lecita o illecita dei beni o dei proventi che sono oggetto della pretesa estorsiva. Secondo, il confine tra tentativo e consumazione nell’estorsione è superato nel momento in cui la condotta minacciosa produce un effetto reale sulla vittima, costringendola a un’azione o a un’omissione che altrimenti non avrebbe compiuto, e che realizza il vantaggio ingiusto per l’autore del reato.

Si può commettere estorsione se si pretende denaro proveniente da un’attività illecita della vittima?
Sì. Secondo la Corte, la provenienza da un’attività illecita dell’oggetto della pretesa estorsiva non esclude né il carattere ingiusto del profitto per chi commette il reato, né la sussistenza del danno per la vittima.

Quando si considera consumato il reato di estorsione?
Il reato di estorsione si considera consumato nel momento in cui la condotta minacciosa determina una limitazione della libertà di autodeterminazione della vittima, portandola a compiere un atto (o a ometterlo) e consentendo così all’agente di ottenere un profitto ingiusto. Nel caso specifico, l’allontanamento forzato della vittima dal suo luogo di attività è stato ritenuto sufficiente.

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché le argomentazioni presentate erano manifestamente infondate e si limitavano a riproporre le stesse censure già adeguatamente esaminate e respinte dalla Corte d’Appello, senza introdurre nuovi ed efficaci elementi di diritto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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