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Profitto di rilevante entità: la Cassazione annulla

Una società, tramite il suo legale rappresentante, otteneva illecitamente incentivi per un impianto fotovoltaico attestandone falsamente la conclusione. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’amministratore, ma ha accolto parzialmente quello della società, annullando la sanzione interdittiva. Il motivo è la mancata motivazione da parte del giudice di merito sul requisito del profitto di rilevante entità, necessario per l’applicazione di tale sanzione accessoria.

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Pubblicato il 24 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Profitto di rilevante entità: la Cassazione annulla la sanzione interdittiva

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha riacceso i riflettori su un concetto cruciale nella responsabilità penale degli enti: il profitto di rilevante entità. Il caso riguarda una società condannata per aver percepito indebitamente incentivi statali, ma la Suprema Corte ha annullato la sanzione interdittiva inflitta perché i giudici di merito non hanno adeguatamente motivato la sussistenza di questo specifico requisito. Analizziamo la vicenda per comprendere le implicazioni di questa decisione.

I fatti del caso: incentivi e false attestazioni

Al centro della vicenda vi è una società operante nel settore delle energie rinnovabili. L’amministratrice, insieme a un coimputato poi assolto, era accusata di aver conseguito illecitamente ingenti contributi pubblici per un impianto fotovoltaico. L’accusa si basava su una falsa attestazione di “fine lavori” entro la data del 31 dicembre 2010. Tale data era cruciale per accedere a un regime di incentivazione particolarmente vantaggioso, il cosiddetto “Secondo Conto Energia”.

In realtà, a quella data, l’impianto non era affatto concluso. Questa falsa dichiarazione ha permesso alla società di ottenere un’erogazione indebita di circa 2,6 milioni di euro, percepiti in rate dal 2011 al 2017.

Le doglianze dei ricorrenti

Sia l’amministratrice che la società hanno presentato ricorso in Cassazione.

L’amministratrice sosteneva di essere stata una mera “testa di legno”, ignara delle operazioni illecite, e che il vero gestore fosse il suo ex coniuge. Contestava inoltre la confisca, ritenendola illegittima.

La società, invece, argomentava che il falso fosse “innocuo”. Sebbene l’impianto non fosse finito entro il 31 dicembre 2010, era comunque entrato in funzione entro giugno 2011, data che avrebbe consentito l’accesso a un diverso regime di incentivi (“Terzo Conto Energia”), seppur meno vantaggioso. La differenza tra quanto percepito e quanto sarebbe stato comunque legittimo, a suo dire, era di soli 250.000 euro, una cifra non così elevata da giustificare sanzioni pesanti. Contestava quindi l’entità del profitto e, di conseguenza, la sanzione interdittiva applicata.

La decisione della Corte e l’importanza del profitto di rilevante entità

La Corte di Cassazione ha adottato decisioni diverse per i due ricorrenti.

La posizione dell’amministratore

Il ricorso dell’amministratrice è stato dichiarato inammissibile. I giudici hanno ritenuto che il suo ruolo non fosse affatto formale, ma effettivo, come dimostrato da numerosi elementi (era l’unica a poter operare sul conto corrente, gestì i rapporti con la Guardia di Finanza durante un’ispezione, etc.). Anche la contestazione sulla confisca è stata respinta, poiché il reato si considera concluso con la percezione dell’ultima rata nel 2017, ben dopo l’entrata in vigore delle norme che la prevedono.

La responsabilità della società e la valutazione del profitto

Il ricorso della società è stato invece parzialmente accolto, proprio sul punto più tecnico e interessante. La Corte ha rigettato la tesi del “falso innocuo”, sottolineando che la possibilità astratta di accedere ad altri incentivi non elimina l’illiceità della condotta tenuta per ottenere quelli più vantaggiosi. Tuttavia, ha accolto la doglianza relativa alla sanzione interdittiva.

Le motivazioni

La Corte ha spiegato che, per applicare una sanzione così grave come quella interdittiva, la legge (D.Lgs. 231/2001) richiede che il reato abbia prodotto per l’ente un profitto di rilevante entità. Nel caso di specie, la Corte d’appello si era limitata a definire il profitto come “rilevantissimo” in modo incidentale, senza fornire alcuna spiegazione.

La Cassazione ha chiarito che la “rilevante entità” non può essere presunta o affermata genericamente. Deve essere oggetto di una motivazione specifica, che consideri non solo il dato quantitativo assoluto, ma anche elementi soggettivi come le caratteristiche dell’ente, l’impatto del profitto sull’attività aziendale, il suo volume d’affari e la sua posizione sul mercato. Un profitto che potrebbe essere enorme per una piccola impresa potrebbe non esserlo per una multinazionale. Questa valutazione era del tutto mancante nella sentenza impugnata, che è stata quindi annullata su questo punto senza rinvio, eliminando la sanzione interdittiva.

Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale: le sanzioni più afflittive previste per la responsabilità degli enti, come quelle interdittive, non sono automatiche. Richiedono una rigorosa dimostrazione e motivazione da parte del giudice su tutti i presupposti di legge, incluso quello, non scontato, del profitto di rilevante entità. Per le aziende, ciò significa che anche a fronte di una condanna per il reato presupposto, vi sono margini di difesa per contestare l’applicazione delle sanzioni accessorie più gravi, se il giudice non svolge un’analisi approfondita e personalizzata sull’impatto economico che l’illecito ha avuto sulla specifica realtà aziendale.

Quando si considera concluso il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche se i pagamenti sono rateali?
Il reato ha una consumazione prolungata e si considera concluso solo con la percezione dell’ultima rata del contributo illecito. Questo è rilevante, ad esempio, per determinare l’applicabilità di norme sulla confisca entrate in vigore durante il periodo di percezione.

Affermare di aver avuto diritto a un incentivo minore rende la falsa dichiarazione per ottenerne uno maggiore un ‘falso innocuo’?
No. Secondo la Corte, la possibilità meramente astratta di conseguire un beneficio minore non rende la condotta lecita né attenua la gravità del falso commesso per accedere a un regime di incentivi più vantaggioso al quale non si aveva diritto.

Cosa deve fare un giudice per poter applicare una sanzione interdittiva a una società?
Il giudice deve verificare e motivare in modo specifico la sussistenza di uno dei presupposti previsti dall’art. 13 del D.Lgs. 231/2001, come il conseguimento di un ‘profitto di rilevante entità’. Non è sufficiente un’affermazione generica, ma occorre una valutazione concreta che tenga conto sia del valore assoluto del profitto sia del suo impatto sulla specifica struttura e operatività dell’ente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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