Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 13339 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 13339 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 05/03/2025
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le conclusioni del difensore del ricorrente, avvocato NOME COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.NOME COGNOME impugna l’ordinanza con la quale il Tribunale del riesame di Benevento ha rigettato l’appello proposto dal COGNOME avverso il decreto del giudice per le indagini preliminari del 23 aprile 2024 che aveva respinto la richiesta di limitazione del sequestro diretto della somma di euro 3.801.000 e non alle somme effettivamente sequestrate ascendenti ad oltre cinque milioni di euro fra il suo patrimonio personale, quello della RAGIONE_SOCIALE e il valore dei crediti di imposta ceduti.
Il Tribunale ha dato atto che si procede a carico di NOME COGNOME quale amministratore della RAGIONE_SOCIALE per il reato di cui all’art. 316ter cod. pen. per avere ricevuto dagli acquirenti degli immobili, mediante sconto in fattura, crediti inesistenti per complessivi euro 3.456.069,00, versati a titolo di corrispettivo per la vendita di unità immobiliari antisismiche, malgrado la mancanza di opere edili tese alla demolizione del preesistente fabbricato e a fronte della mancata esecuzione di lavori, crediti di imposta già in parte oggetto di cessione a terzi, nella consapevolezza della inesistenza delle spese relative al complesso immobiliare oggetto dell’intervento edilizio.
In particolare, con il decreto di sequestro preventivo del 2 gennaio 2024 era stato disposto, oltre ‘al sequestro preventivo dei crediti di imposta, presso i soggetti che ne hanno la disponibilità ‘, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca – diretta o per equivalente –
della somma di euro 3.416.069,00 nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e, in caso di incapienza, del medesimo importo a carico del COGNOME;
b.della somma di euro 345.600,000 nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e della medesima somma nei confronti di NOME COGNOME quale persona sottoposta ad indagini.
Il Tribunale del riesame ha respinto la richiesta della difesa sul rilievo che il sequestro preventivo è stato legittimamente disposto sia sulla somma di euro 3.416.069,00, quale profitto del reato di cui all’art. 316ter cod. pen. e corrispondente all’importo generato dalle operazioni di cessione del credito mediante sconto in fattura a favore degli acquirenti, che costituisce il vantaggio economico di diretta derivazione del reato sia sul prodotto del reato, costituito dai crediti di imposta, oggetto di vari contratti di cessione da parte di RAGIONE_SOCIALE
2.Con i motivi di ricorso, sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorrente chiede l’annullamento del provvedimento impugnato sostenendo che si tratta di provvedimento illegittimo poiché, in violazione di legge (artt. 316ter cod. pen. e 321 cod. proc. pen.), ha esteso il sequestro, in violazione del tenore testuale del decreto genetico, a tutte le somme riconducibili al concetto di profitto del reato, sequestro nel caso ‘esteso’, oltre la misura del danno prodotto dal reato, esattamente corrispondente a euro 3.416.069,00, importo questo che deve ritenersi omnicomprensivo. In ogni caso, la valutazione del Tribunale è erronea perché il decreto di sequestro era limitato all’importo di euro 3.416.069,00, e, facendo corretta applicazione della nozione di profitto del reato, elaborata in relazione ai reati tributari e al reato di cui all’art. 640bis cod. pen., il profitto del reato di cui all’art. 316ter cod. pen. non può che riferirsi ai proventi conseguiti
attraverso la cessione dei crediti di imposta (fittizi), cessione alla quale siano seguiti la riscossione o l’utilizzo mediante compensazione dei crediti. Viceversa, nel caso in esame, attraverso la ricostruzione ‘equivoca’ delle nozioni di prodotto e profitto del reato di cui all’art. 316ter cod. pen. compiuta dal Tribunale, l’importo è stato pressoché duplicato ed esteso ad un importo di oltre cinque milioni di euro.
Il ricorrente evidenzia che l’utilizzazione del credito non determina una ‘posta economicamente aggiuntiva’, rispetto alla cessione, ma ne costituisce un post factum che non può ampliare i limiti di consistenza dell’eventuale, ma nel caso indimostrato, danno di natura erariale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Va premesso che il provvedimento impugnato è stato emesso a seguito di ordinanza del 25 novembre 2024 di conversione in appello del ricorso proposto da NOME COGNOME avverso il decreto con il quale il giudice per le indagini preliminari aveva respinto una istanza del ricorrente (oggi di diverso e ben più ristretto tenore), istanza che comportava la necessità di determinare, in relazione al reato di cui all’art. 316ter cod. pen., la nozione di profitto del reato, per come configurato nel titolo genetico.
Secondo la originaria prospettazione del ricorrente, oggi reiterata con i motivi di ricorso, il vincolo reale era stato ‘esteso’, a beni di valore largamente superiore a quello di euro 3.416.069,00 – importo comprensivo di somme di denaro ovvero di beni riconducibili in via diretta alla società o per equivalente nei confronti del suo legale rappresentante – e sosteneva che non era possibile estendere il sequestro a beni il cui valore ecceda quanto in concreto specificato dal decreto di sequestro sicché il sequestro non poteva che essere limitato alla somma di euro 3.416.069,00 oggetto di imputazione, pena la duplicazione del vincolo.
Il ricorrente proponeva le sue censure in una duplice prospettiva: a. che nell’importo di euro 3.416.069 non poteva che essere già ricompreso anche il profitto del reato, nel caso l’importo di euro 681.768,50 oggetto di utilizzazione per effetto della cessione del credito a Ente Poste; b. che in sede di esecuzione erano stati ‘materialmente’ appresi beni per oltre cinque milioni di euro incorrendo, praticamente, nel raddoppio del valore dei crediti, sia perché era stato eseguito il sequestro impeditivo dei crediti, presso i rispettivi cessionari (per il complessivo importo di euro 2.811.493,69), sia perché era stato eseguito il sequestro per equivalente, finalizzato alla confisca, di euro 2.187.620,87 in danno della RAGIONE_SOCIALE e di NOME COGNOME, mediante sequestro dei saldi di conto corrente, immobili, quote azionarie e altro.
2.Premesso che il ricorrente non è legittimato a far valere eccezioni relative al rapporto RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME, come cumulativamente proposte con l’istanza originaria, ritiene il Collegio che non possono proporsi, in questa sede, questioni afferenti agli importi dei crediti, o loro equivalente, sui quali è effettivamente caduto il sequestro in sede di esecuzione, per come già rilevato dal Tribunale del Riesame nell’ordinanza impugnata: secondo i rilievi dell’ordinanza del 25 novembre 2024 di questa Corte, il tema della decisione è limitato alla individuazione della nozione di profitto del reato di cui all’art. 316ter cod. pen., nozione che, del resto, questa Corte, con sentenza del 30 maggio 2024 (sentenza n. 30723/24), decidendo il ricorso proposto da NOME COGNOME avverso il decreto di sequestro preventivo genetico, aveva già avuto modo di precisare dopo avere ricostruito la normativa di riferimento vigente al momento in cui, dapprima, i soci della cooperativa avevano ceduto alla RAGIONE_SOCIALE s.r.l. i crediti di imposta (1° aprile 2021) e poi, quest’ultima, aveva a propria volta, operato ulteriori cessioni dei crediti così conseguiti.
Da tale impostazione, come sarà di seguito precisato, emerge la manifesta infondatezza della nozione di profitto del reato di cui all’art. 316ter cod. pen. proposta dal ricorrente nella parte in cui sostiene che la nozione di profitto del reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche sarebbe quella corrispondente alle fattispecie di reato in materia tributaria ovvero a quella di cui all’art. 640bis cod. pen., e, quindi, ‘coincidente’ con il danno erariale che, peraltro, è stato indicato (cfr. pag. 8 del ricorso) con limitato riferimento al secondo segmento della condotta (cioè all’importo di euro 681.768,50, oggetto di utilizzazione per effetto della cessione del credito a Ente Poste), e, dunque, in termini del tutto parziali e inconferenti rispetto alla concreta dinamica delle modalità esecutive della condotta come contestata.
In particolare, la sentenza del 30 maggio 2024 di questa Corte aveva evidenziato che l’art. 16 d.l. n. 63 del 2013, convertito con modificazioni dalla l. 3 agosto 2013, n. 90, aveva previsto vari benefici fiscali, sotto forma di detrazione, per gli interventi di cui all’articolo 16bis , comma 1, lettera i), d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“Detrazione delle spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici”) e consistenti in interventi “relativi all’adozione di misure antisismiche con particolare riguardo all’esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica, in particolare sulle parti strutturali, per la redazione della documentazione obbligatoria atta a comprovare la sicurezza statica del patrimonio edilizio, nonché per la realizzazione degli interventi necessari al rilascio della suddetta documentazione.
La normativa in esame prevedeva che gli interventi relativi all’adozione di misure antisismiche e all’esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica
dovevano essere realizzati sulle parti strutturali degli edifici o complessi di edifici collegati strutturalmente e comprendere interi edifici e, ove riguardino i centri storici, dovevano essere eseguiti sulla base di progetti unitari e non su singole unità immobiliari”, ricomprendendo, quindi gli interventi “interi edifici” (come è ragionevole, stante la finalità strutturale dell’intervento).
La peculiarità della detrazione fiscale prevista dal comma 1septies dell’art. 16 del dl. n. 63 del 2013 cit. (c.d. “sisma bonus acquisti”), consisteva nel consentire agli acquirenti di immobili, edificati mediante demolizione e ricostruzione in zone ad alto rischio sismico, di poter usufruire di tale bonus, rispetto ad interventi effettuati in precedenza da imprese, con demolizione e ricostruzione di interi edifici, allo scopo di ridurne il rischio sismico. Purché, come precisa la norma, le dette imprese “provvedano, entro trenta mesi dalla data di conclusione dei lavori, alla successiva alienazione dell’immobile”.
Era accertato che, nel caso in esame, la società RAGIONE_SOCIALE aveva, dapprima, acquisito l’area con gli edifici da demolire e contestualmente aveva stipulato con la RAGIONE_SOCIALE (società cooperativa edilizia di abitazione) un contratto preliminare di compravendita degli immobili e un contratto di appalto con cui la RAGIONE_SOCIALE si obbligava a progettare ed eseguire l’intera opera, per un corrispettivo complessivo di oltre 5 milioni di euro, parte dei quali sarebbero stati coperti mediante la cessione alla società dei crediti d’imposta spettanti ai soci della cooperativa in virtù del cosiddetto ‘superbonus’, quali assegnatari-acquirenti degli immobili, crediti spettanti ai soci e determinati, giustappunto, nell’importo di euro 3.456.069,00.
Al riguardo è appena il caso di evidenziare che, anche ai sensi dell’art. 119, comma 4 d.l. 34/2020 ( superbonus ), conv. in l. n. 77 del 2020, per la detrazione per gli acquirenti, persone fisiche, delle unità immobiliari, di cui al comma 1 -septies dell’art. 16 sopra citato, si richiede in ogni caso che l’atto di acquisto relativo agli immobili oggetto dei lavori sia stipulato entro la data di vigenza del bonus. Solo così è possibile fruire del ‘superbonus’ anche per gli acconti pagati alla data in cui l’agevolazione era vigente, in base al preliminare di acquisto.
Tuttavia, nel caso in esame, le opere oggetto dei contratti non erano state realizzate e, comunque, non erano state completate, mancata esecuzione dei lavori che con non avrebbe consentito il riconoscimento dei crediti d’imposta in favore dei soci della cooperativa indicati nei contratti come assegnatari ed acquirenti degli alloggi i quali non solo chiesero e ottennero i benefici fiscali ma li trasferirono alle società formalmente incaricate dei lavori e fra queste la RAGIONE_SOCIALE, nell’importo complessivo innanzi indicato.
La giurisprudenza di legittimità ha già precisato che integra il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche, e non quello di truffa aggravata di cui all’art.
640bis cod. pen., il conseguimento del credito di imposta relativo ai c.d. “bonus” edilizi, ottenuto sulla base di un’autodichiarazione mendace sull’esecuzione dei lavori, difettando della truffa sia l’elemento decettivo, atteso che il controllo dell’Agenzia delle Entrate è successivo all’erogazione, sia il danno patrimoniale per lo Stato, che si realizza solo quando i crediti ceduti vengono materialmente riscossi o compensati ed è, dunque, evento successivo ed eventuale rispetto all’indebita acquisizione della agevolazione fiscale (Sez. 6, n. 46354 del 29/10/2024, COGNOME, Rv. 287378).
Soprattutto, con riguardo alla individuazione del profitto del reato in esame, la sentenza ora indicata ha inequivocabilmente chiarito che ‘il profitto consegue alla stessa acquisizione indebita del diritto di credito’ e ha precisato che ‘la riscossione del prezzo della cessione del credito, in quanto provento della sua negoziazione, rappresenta anch’esso profitto del reato di cui all’articolo 316ter perché provento della cessione del credito d’imposta indebitamenti acquisito e come tale suscettibile di confisca diretta’, rilevando, infine, ‘che la trasformazione del credito indebitamente acquisito attraverso la sua monetizzazione che costituisce lo scopo del reato sarebbe comunque suscettibile di confisca per equivalente’.
Come anticipato, la ricostruzione difensiva, secondo la quale, per assurdo, il profitto del reato di cui all’art. 316ter cod. pen. sarebbe identificabile solo nella somma di euro 681.768,50 (oggetto di utilizzazione per effetto della cessione del credito a Ente Poste), è manifestamente infondata perché il profitto del reato di indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato, attraverso l’operazione di sconto in fattura, consegue alla stessa acquisizione indebita del diritto di credito.
Non meno che manifestamente infondata è la prospettazione che il sequestro impeditivo, attraverso il sequestro dei crediti in favore dei cessionari (determinati nell’importo di euro 2.811.493,59 ), e il sequestro per equivalente in danno della RAGIONE_SOCIALE e del COGNOME (nell’importo di euro 3.416.069,90) determinano un indebito raddoppio del sequestro del profitto del reato, raddoppio che il Tribunale avrebbe escluso, praticamente, inquadrando i crediti ora come ‘prodotto’ del reato e ora come profitto, peraltro in violazione del decreto di sequestro preventivo genetico.
Tale violazione è insussistente: come si è detto, riportando testualmente il tenore del dispositivo del decreto di sequestro preventivo, il giudice aveva disposto il sequestro impeditivo dei titoli di credito (ovunque si trovassero, per impedirne la ulteriore circolazione) nonché il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, della somma di euro 3.416.069,00, in quanto profitto del reato.
Si tratta, ad avviso del Collegio, di provvedimenti di natura diversa rispetto ai quali la giurisprudenza di questa Corte ha già affermato la legittimità del sequestro
impeditivo (Sez. 3, n. 40867 del 21/09/2022, Poste Italiane, n. mass.), evidenziando che, con la cessione del credito, il beneficiario si spoglia del proprio diritto alla detrazione, che assume la veste – nell’identico contenuto patrimoniale – di un credito suscettibile di circolare nei termini indicati dalla legge, credito che viene contestualmente ceduto (art. 121, comma 1, lett. b), d.l. n. 34 del 2020 con la trasformazione del corrispondente importo in credito d’imposta, con facoltà di successive cessioni ad altri soggetti. La sentenza ora richiamata ha precisato che, con la cessione, non si realizza l’estinzione di un diritto alla detrazione (in capo al beneficiario) e la contestuale costituzione ex nihilo di un credito (in capo al cessionario), né un fenomeno novativo di sorta, ma soltanto l’evoluzione – non la sostituzione – del primo nel secondo, attraverso un espediente necessario per consentire quella cessione a terzi ritenuta dal legislatore un fattore ulteriormente incentivante la procedura, e, dunque, uno strumento ancora più utile per la ripresa economica del Paese. La normativa in materia di cessione del credito non introduce, si conclude, una disciplina derogatoria a quella ordinaria penale con riferimento al sequestro preventivo: il vincolo innpeditivo implica soltanto l’esistenza di un collegamento tra il reato e la cosa, non tra il reato e il suo autore, cosicché possono essere oggetto del provvedimento anche le cose in proprietà di un terzo, estraneo all’illecito ed in buona fede.
Ritiene il Collegio che la finalità impeditiva del sequestro, azionato nei confronti di un soggetto per definizione ‘estraneo’ al reato, non osta all’adozione del sequestro finalizzato alla confisca – diretta o per equivalente- nei confronti dell’autore del reato che dall’acquisizione primaria del credito, attraverso lo sconto in fattura, ha tratto vantaggio, misura, obbligatoria, diretta o per equivalente, prevista dall’art. 322ter cod. pen. e che ha ad oggetto il ‘profitto’ del reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche, coincidente con l’importo del credito indebitamente ottenuto, cioè del vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato, un sequestro che realizza
Rispetto al genus ‘prodotto’ del reato, nel quale va ricompreso l’importo derivante dalla circolazione del credito, la confisca del profitto attacca, in via immediata e diretta, proprio il credito che l’operazione ha generato all’autore della condotta e che prescinde dall’attivazione delle garanzie connesse alla circolazione del credito che possono rilevare, invece, per determinare il danno patrimoniale arrecato.
3.Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che, in ragione della natura delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 5 marzo 2025