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Profitto del reato: Cassazione su sequestro e corruzione

La Corte di Cassazione ha annullato un sequestro preventivo per equivalente nei confronti di un professionista accusato di corruzione. La Corte ha stabilito che il compenso erogato a una collaboratrice del professionista non può essere automaticamente qualificato come ‘profitto del reato’ per quest’ultimo. Per procedere al sequestro, è necessario dimostrare un effettivo accrescimento patrimoniale del corruttore, non bastando la semplice erogazione di somme a terzi a lui collegati.

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Pubblicato il 3 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Profitto del reato: quando il compenso a un terzo non giustifica il sequestro

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 8120/2024) offre un importante chiarimento sulla nozione di profitto del reato e sui presupposti per l’applicazione del sequestro preventivo, anche per equivalente, nel delitto di corruzione. La Corte ha stabilito un principio fondamentale: non è possibile presumere che il compenso erogato a un terzo, sebbene collaboratore dell’imputato, costituisca automaticamente un profitto per quest’ultimo. È onere dell’accusa fornire la prova di un effettivo vantaggio economico.

I Fatti di Causa

Il caso riguardava un professionista indagato per corruzione in atti giudiziari. Secondo l’accusa, il professionista avrebbe mediato per far ottenere a un magistrato un raro orologio di lusso. In cambio, il magistrato avrebbe nominato una collaboratrice del professionista come coadiutore in una procedura di amministrazione giudiziaria, facendole così ottenere un compenso di circa 12.500 euro.

Il Tribunale del Riesame aveva confermato il sequestro preventivo di tale somma, ritenendola il prezzo del reato e considerandola interamente entrata nella disponibilità del professionista, sul presupposto che la nomina della sua collaboratrice fosse solo un espediente. Il professionista, tramite il suo difensore, ha impugnato l’ordinanza in Cassazione, contestando proprio questa automatica attribuzione del compenso come profitto personale.

La nozione di profitto del reato e la decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando senza rinvio il provvedimento di sequestro. Il cuore della decisione risiede nella netta distinzione tra “prezzo” e “profitto” del reato, concetti che, sebbene collegati, hanno implicazioni diverse ai fini della confisca e del sequestro.

I giudici hanno chiarito che:

* Il Prezzo del Reato: è il corrispettivo pagato al pubblico ufficiale per compiere l’atto contrario ai doveri d’ufficio (in questo caso, il vantaggio per il magistrato, come l’agevolazione nell’acquisto dell’orologio).
* Il Profitto del Reato: è il vantaggio economico concreto che il privato corruttore ottiene dalla commissione dell’illecito.

Secondo l’art. 322-ter del codice penale, la confisca (e quindi il sequestro preventivo ad essa finalizzato) si applica al prezzo o al profitto per il pubblico agente, ma si applica al solo profitto per il corruttore. Pertanto, per sequestrare una somma al professionista, era indispensabile dimostrare che questa costituisse per lui un effettivo accrescimento patrimoniale.

Le Motivazioni

La Corte ha ritenuto errata la decisione del Tribunale perché fondata su una presunzione non provata. I giudici di merito avevano dato per scontato che il compenso liquidato alla collaboratrice fosse, di fatto, un profitto per il professionista, senza però condurre alcuna indagine sui reali rapporti economici e professionali tra i due. Non era stato dimostrato, ad esempio, l’esistenza di un’associazione professionale o di accordi per la ripartizione degli utili che potessero giustificare il passaggio, totale o parziale, di quella somma nel patrimonio dell’indagato.

In sostanza, per la Cassazione, non si può stabilire un’equazione automatica tra il compenso erogato a un terzo (la collaboratrice) e il profitto del corruttore (il professionista). L’accusa avrebbe dovuto fornire elementi concreti per dimostrare che quest’ultimo avesse effettivamente beneficiato di quel denaro. In assenza di tale prova, il sequestro risulta illegittimo perché manca il presupposto fondamentale: l’esistenza certa di un profitto del reato da aggredire.

Conclusioni

Questa sentenza rafforza un principio di garanzia fondamentale nel diritto penale patrimoniale. Per poter procedere a un sequestro per equivalente nei confronti del privato corruttore, non è sufficiente individuare un flusso di denaro generato dall’accordo illecito, ma è necessario dimostrare che quel denaro si sia tradotto in un arricchimento tangibile e personale per l’indagato. La decisione impone agli organi inquirenti un onere probatorio più rigoroso, impedendo automatismi e presunzioni che potrebbero portare a misure cautelari reali ingiustificate, e riafferma la necessità di accertare con certezza il collegamento diretto tra il reato e il vantaggio economico conseguito dall’autore.

In un caso di corruzione, il compenso pagato a un terzo può essere sequestrato al corruttore?
No, non automaticamente. Può essere sequestrato solo se l’accusa prova che tale compenso costituisce un “profitto del reato” per il corruttore, ovvero un suo vantaggio economico diretto e concreto. Non è sufficiente che il pagamento sia destinato a un suo collaboratore.

Qual è la differenza tra “prezzo” e “profitto” del reato di corruzione secondo la legge?
Il “prezzo” è il compenso dato o promesso al pubblico ufficiale per l’atto illecito. Il “profitto” è il vantaggio economico che il privato corruttore ottiene dal reato. Ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen., nei confronti del corruttore si può confiscare e quindi sequestrare solo il profitto.

Perché la Cassazione ha annullato il sequestro in questo caso specifico?
La Cassazione ha annullato il sequestro perché i giudici di merito avevano presunto che la somma pagata alla collaboratrice del professionista fosse un profitto di quest’ultimo, senza però fornire alcuna prova di un effettivo arricchimento del suo patrimonio. Mancava la dimostrazione che quella somma, in tutto o in parte, fosse effettivamente finita nelle sue tasche.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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