Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 20091 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 20091 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 16/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a SAN GIOVANNI COGNOME il 10/10/1987
avverso l’ordinanza del 23/12/2024 del TRIB. RAGIONE_SOCIALE di BARI
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME
lette le conclusioni del PG COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ma
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Bari, quale giudice del riesame, ha confermato l’ordinanza emessa il 02/12/2024 dal GIP presso Io stesso Tribunale nei confronti di NOME COGNOME sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere, in quanto gravemente indiziato in ordine al reato previsto dagli artt. 110, 81 cpv., 378, comma 1, 390 e 416b1s.1 cod.pen., in concorso con NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Il Tribunale ha preliminarmente descritto il ruolo di NOME COGNOME successivamente al suo arresto divenuto collaboratore di giustizia – quale capo dell’omonima compagine criminale operante nel territorio di Vieste e ha fatto riferimento all’attività di indagine svolta dopo la sua evasione dal carcere di Nuoro.
Ha quindi proceduto all’esame specifico della posizione dell’odierno ricorrente, esponendo come lo stesso risultasse essere una persona di fiducia del COGNOME oltre che suo punto di riferimento durante il periodo di detenzione e di latitanza, come emergente dalle dichiarazioni rese dallo stesso COGNOME e dall’altro collaboratore di giustizia NOME COGNOME ha rilevato che, dalle intercettazioni disposte, emergeva che il ricorrente aveva fornito un supporto al COGNOME durante il periodo della latitanza, contemporaneamente portando avanti la politica criminale del gruppo e provvedendo specificamente alla gestione della cassa comune del clan proveniente dall’attività di spaccio, ritenendo quindi pienamente sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di favoreggiamento e di procurata inosservanza di pena nonché all’aggravante contestata; ciò in consideraziontdel concreto ausilio prestato al latitante ed emergente dalle specifiche circostanze di fatto elencate.
Ha altresì ritenuto sussistenti le esigenze cautelari e adeguata la sola misura di massimo rigore, in ragione della presunzione dettata dall’art.275, comma 3, cod.pen., in ordine alla quale non sussistevano elementi idonei a ritenere l’assenza delle medesime ovvero l’idoneità di altre misure in punto di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere, anche per effetto del negativo giudizio sulla personalità dell’indagato, come confermato dalle connotazioni del fatto ascritto nonché dal carico pendente dal quale lo stesso risultava gravato.
Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME tramite il proprio difensore, articolando tre motivi di impugnazione.
Con il primo motivo ha dedotto la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, con conseguente violazione degli artt.273, comma lbis e 192, comma 3, cod . p roc. pen..
Ha dedotto che le condotte ritenute sussistenti da parte del Tribunale non erano idonee a perfezionare il reato di favoreggiamento, vertendosi in ambito di atti finalizzati unicamente ad agevolare i rapporti interpersonali del latitante ed estranee quindi alla permanenza della latitanza medesima; ha dedotto che il Tribunale non avrebbe tenuto conto del fatto che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non fossero pienamente sovrapponibili e che il nucleo essenziale comune individuato dal giudice del riesame era coincidente solo in ordine alla suddetta finalità familiare della detenzione di denaro da parte del Gala per conto del COGNOME; esponendo, altresì, che sussisteva un contrasto tra le dichiarazione predetta anche a proposito dell’utilizzo dei criptofonini.
Con il secondo motivo ha dedotto la violazione dell’art.292, comma 2, lett.c), cod.proc.pen., per avere il Tribunale integrato la motivazione dell’ordinanza genetica sul punto attinente all’aggravante dell’agevolazione mafiosa, in realtà originariamente carente, in riferimento al necessario a.212S2, presupposto effettiva sussistenza del sodalizio.
Ha dedotto che l’ordinanza genetica non aveva affrontato in alcun modo il problema della sussistenza effettiva dell’associazione e della sua natura mafiosa, conseguendone che tale vizio non poteva essere sanato dal Tribunale.
Con il terzo motivo ha dedotto l’illogicità della motivazione in ordine al mancato superamento della presunzione di adeguatezza della sola misura maggiormente afflittiva punto
Ha dedotto che il Tribunale, con valutazione illogica, avrebbe dedotto la persistente operatività del sodalizio nonostante la disgregazione desumibile dalla collaborazione intrapresa dal capo e dai membri dell’associazione.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, nella quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
In via pregiudiziale, deve rilevarsi che non può attribuirsi alcuna valenza alla rinuncia all’impugnazione sottoscritta dal difensore per conto del ricorrente, atteso che in atti non è presente la procura speciale richiesta dall’art.589, comma 2, cod.proc.pen..
Il controllo di logicità, peraltro, deve rimanere interno al provvedimento impugnato, non essendo possibile procedere a una nuova o diversa valutazione degli elementi indizianti o a un diverso esame degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate; in altri termini, è consentito in questa sede esclusivamente verificare se le argomentazioni spese sono
congrue rispetto al fine giustificativo del provvedimento impugnato; se, cioè, in quest’ultimo, siano o meno presenti due requisiti, l’uno di carattere positivo e l’altro negativo, e cioè l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative su cui si fonda e l’assenza di illogicità evidenti, risultanti cioè prima facie dal testo del provvedimento impugnato.
Ciò posto, il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Al fine di sostenere le argomentazioni ivi sviluppate, il ricorrente ha fatto riferimento al principio di diritto espresso da Sez. 6, n. 37980 del 01/06/2016, Marigliano, Rv. 268150, in base al quale la condotta del reato di procurata inosservanza di pena consiste in un’attività volontaria, specificamente diretta ad eludere l’esecuzione della pena, che concorre con quella del condannato ricercato, conseguendone che non è responsabile del reato chi, pur consapevole della condizione di condannato che si sottrae all’ordine di carcerazione, non svolge alcuna specifica attività di copertura del latitante rispetto alle ricerche degli organi di polizia, ma intrattiene con questi rapporti interpersonali leciti, non svolgendo alcuna attività concreta per favorirne l’intento.
Va peraltro rilevato che questa Corte, con principio da ritenersi consolidato, ha comunque affermato che integra il reato di procurata inosservanza di pena, previsto dall’art. 390 cod. pen., un’attività volontaria, concorrente con quella del condannato ricercato e specificamente diretta a eludere l’esecuzione della pena, attraverso un aiuto idoneo a tale scopo e anche qualora posta in essere da prossimi congiunti del latitante (Sez. 6, n. 33424 del 22/05/2009, COGNOME, Rv. 244762; Sez. 6, n. 7098 del 09/01/2025, COGNOME Rv. 287662).
Deve quindi rilevarsi che il Tribunale, con valutazione coerente con gli elementi di indagine esaminati e non tangibile in questa sede (sulla scorta dei richiamati principi), ha rilevato che il ricorrente – sulla base delle dichiarazioni rese, in particolare, dal collaboratore di giustizia COGNOME – nel periodo della latitanza del COGNOME aveva utilizzato la cassa comune del clan, anche per il mantenimento di quest’ultimo durante la latitanza e per l’acquisto di telefonici criptati oltre ad avere fornito il denaro necessario all’acquisto di un’autovettura utilizzata dal predetto durante il periodo di sottrazione all’esecuzione della pena e procurando un’abitazione nella quale Io stesso si era nascosto.
Si tratta, in riferimento alla dedotta violazione dei principi in tema di valutazione della prova, di elementi che devono ritenersi non contrastanti
e in parte sovrapponibili rispetto a quelle rese dallo stesso COGNOME, nel 1.2.Z. unirò punto in cui ha riferito che il Gala lo aveva carranume durante il periodo di latitanza (anche se in ragione, soprattutto, dei legami familiari) e gli aveva comunque fornito il denaro necessario per l’assistenza legale e tanto in riferimento a elementi che hanno comunque trovato conferma sulla scorta delle intercettazioni espletate durante il suddetto periodo; dalle quali è anche emerso il dato dell’acquisto e di utilizzo di telefonini criptati allo scopo di mantenere i contatti tra i membri del clan e il COGNOME.
A fronte di tali elementi, ampiamente riassunti nell’ordinanza gravata, le deduzioni di parte ricorrente appaiono quindi frutto di una valutazione evidentemente parcellizzata del materiale di indagine e fondate sull’apodittica considerazione, da ritenersi adeguatamente smentita dalla motivazione del provvedimento gravato, in base al quale l’attività del Gala avrebbe avuto come unico fine quello di agevolare i contatti tra il latitante e i suoi familiari.
Quando, al contrario, il Tribunale ha dato ampiamente atto della sussistenza di elementi idonei a sostenere lo svolgimento di una vera e propria agevolazione rispetto alla sottrazione all’esecuzione della pena.
Il secondo motivo, inerente al dedotto difetto di motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante prevista dall’art.416bis.1 cod.pen., è inammissibile, in quanto manifestamente infondato.
A tale proposito, costituisce giurisprudenza consolidata quella in base alla quale l’ordinanza applicativa emessa ai sensi dell’art.292 cod.proc.pen. e il successivo ed eventuale provvedimento di conferma emesso dal Tribunale del riesame si integrano reciprocamente sul piano motivazionale; dovendosi specificamente ritenere che eventuali omissioni e contraddizioni contenute nell’ordinanza genetica possano essere sanate dalla motivazione del Tribunale del riesame, il cui provvedimento integra e completa quella del giudice che ha emesso l’ordinanza applicativa, purché questa contenga le ragioni logiche e giuridiche che ne hanno determinato l’emissione (Sez. U, n. 7 del 17/04/1996, Moni, Rv. 205257) e fatto salvo il caso previsto dall’art.309, comma 9, cod.proc.pen., attinente alla mancanza totale della motivazione ovvero alla carenza di autonoma valutazione degli indizi, delle esigenze cautelari e degli elementi forniti dalla difesa in capo all’ordinanza applicativa.
Nel caso di specie, deve quindi rilevarsi come la motivazione del GIP procedente, in sede di premessa, abbia fatto chiaro riferimento al contesto criminale di riferimento e alla sussistenza di un’associazione inquadrabile
nel genus di quelle previste dall’art.416bis cod.pen., individuata come operante “nel settore delle estorsioni, delle rapine, del traffico di stupefacenti e dell’usura” (pag.3 dell’ordinanza genetica); considerazioni in relazione alle quali la motivazione del Tribunale non ha quindi sanato una carenza originaria ma ha – legittimamente, sulla base dei predetti principi unicamente integrato una motivazione già adeguata.
6. Anche il terzo motivo di impugnazione, attinente alla sussistenza delle esigenze cautelari, è inammissibile in quanto, per un verso, manifestamente infondato e, dall’altro, del tutto aspecifico.
In relazione al profilo attinente al merito delle esigenze cautelari va osservato che, in conseguenza della contestazione della predetta aggravante e per effetto del richiamo all’art.51, comma 3bis, cod.proc.pen., si applica la c.d. doppia presunzione dettata dall’art.275, comma 3, cod.proc.pen., il quale prevede che – quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati elencati nell’articolo predetto (tra cui rientra quello contestato nella presente sede) – «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».
Rilevando quindi che il giudice che ritenga non vinta tale presunzione può limitarsi a dare atto dell’inesistenza di elementi idonei a superarla, dovendo fornire specifica motivazione soltanto quando la difesa abbia evidenziato circostanze idonee a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari e/o abbia dedotto l’esistenza di elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere tutelate con misure diverse (Sez. 3, n. 48706 del 25/11/2015, J.A., Rv. 266029); fatta salva la possibilità, in capo al giudice procedente, di considerare in senso favorevole per l’indagato l’eventuale elemento temporale, ove si verta nel caso di un rilevante arco privo di ulteriori condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, potendo lo stesso rientrare tra gli “elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”, cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, del codice di rito (da ultima, Sez. 3, n. 13129 del 18/02/2025, Memoli).
Nel caso di specie, il Tribunale ha specificamente dato atto della mancata allegazione – da parte della difesa – di elementi idonei a superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della sola misura maggiormente afflittiva, aggiungendo comunque – a rafforzamento della doppia presunzione prevista ex lege come dagli atti
emergesse la sussistenza di un quadro cautelare particolarmente pregnante, data la prova dello stabile inserimento del ricorrente nel contesto associativo e la sussistenza di una pendenza.
A fronte di tale valutazione, il ricorrente si è quindi limitato a dedurre la considerazione derivante dalla dedotta non permanente operatività dell’associazione – sulla base di un elemento puntualmente smentito nell’ordinanza gravata – e non fornendo quindi elementi idonei, sulla base della congrua e coerente valutazione del Tribunale, a superare la suddetta presunzione.
A tale proposito, deve altresì ricordarsi che l’apprezzamento della pericolosità dell’indagato sottoposto alla misura coercitiva è un giudizio riservato al giudice di merito, incensurabile nel giudizio di legittimità, se come nel caso di specie – congruamente e logicamente motivato con specifico riferimento alla prognosi negativa in ordine all’attitudine dell’indagato medesimo all’effettivo rispetto delle prescrizioni connesse all’applicazione di una misura ulteriormente più gradata (sez.6, n. 53026 del 21/11/2017, COGNOME, RV. 271686; sez.3, n.7268 del 24/1/2019, COGNOME, RV. 275851).
8. Alla declaratoria d’inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», il ricorrente va condannato al pagamento di una somma che si stima equo determinare in euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Va disposta la trasmissione degli atti alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma iter disp. att. cod. proc. pen..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
Ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen..
Così deciso il 16 maggio 2025
Il Consigliere estensore