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Privata dimora: spogliatoio luogo di lavoro tutelato

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi di due imputati condannati per rapina e resistenza. La Corte ha confermato che uno spogliatoio aziendale riservato ai dipendenti rientra nella nozione di privata dimora, rendendo infondate le doglianze. I ricorsi sono stati giudicati reiterativi di motivi già respinti in appello, inclusi quelli sulla responsabilità concorsuale e la prevedibilità della violenza.

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Pubblicato il 6 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Privata Dimora: Anche lo Spogliatoio sul Lavoro è Tutelato

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 10335/2024, torna a pronunciarsi su un tema di grande interesse pratico: la nozione di privata dimora e la sua estensione ai luoghi di lavoro. La decisione chiarisce che anche uno spogliatoio aziendale, se riservato ai dipendenti, gode della stessa tutela giuridica di un’abitazione, con importanti conseguenze in materia penale. Analizziamo insieme questa pronuncia per comprenderne la portata.

I Fatti del Processo

Il caso trae origine dal ricorso presentato da due persone condannate nei gradi di merito per reati contro il patrimonio e la persona. Gli imputati, attraverso i loro difensori, avevano sollevato diverse questioni dinanzi alla Suprema Corte. Tra queste, spiccavano le doglianze relative alla responsabilità di entrambi nel reato (responsabilità concorsuale), alla prevedibilità della violenza utilizzata e, soprattutto, alla qualificazione giuridica del luogo in cui era avvenuto il fatto: uno spogliatoio aziendale.

L’estensione della nozione di privata dimora

Il punto centrale e più innovativo della decisione riguarda la conferma che uno spogliatoio riservato ai dipendenti rientra a pieno titolo nel concetto di privata dimora. La Corte ha rigettato i motivi di ricorso su questo punto, definendoli manifestamente infondati.

Citando un proprio precedente (sentenza n. 37795 del 2021), la Cassazione ha ribadito un principio consolidato: la nozione di privata dimora non si limita alla casa di abitazione, ma si estende a tutti quei luoghi in cui l’individuo compie atti della vita privata in modo riservato, precludendo l’accesso a terzi. Uno spogliatoio aziendale, essendo un luogo destinato a un uso esclusivo dei lavoratori per cambiarsi e depositare effetti personali, soddisfa pienamente questi requisiti.

La Responsabilità Concorsuale e la Reiterazione dei Motivi

La Corte ha inoltre dichiarato inammissibili gli altri motivi di ricorso, giudicandoli meramente reiterativi di argomenti già esaminati e respinti dalla Corte d’Appello. In particolare, i giudici di legittimità hanno sottolineato come la Corte territoriale avesse già adeguatamente motivato sulla responsabilità di uno dei due imputati, evidenziandone il ruolo di “copertura” nell’esecuzione del reato. Allo stesso modo, sono state respinte le censure sulla sussistenza dell’intento criminale (dolo di concorso) e sul bilanciamento delle circostanze attenuanti e aggravanti, in quanto le motivazioni della sentenza impugnata erano complete e logicamente coerenti, anche alla luce dei precedenti penali degli imputati.

Le Motivazioni della Decisione

La decisione della Cassazione si fonda su un’analisi rigorosa dei limiti del giudizio di legittimità. I giudici hanno chiarito che il ricorso in Cassazione non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sul merito dei fatti. I motivi proposti dagli imputati sono stati giudicati:
1. Reiterativi: Le questioni sulla responsabilità, sulla prevedibilità della violenza e sulla minima offensività della condotta erano già state affrontate e respinte con motivazioni congrue dalla Corte d’Appello.
2. Manifestamente Infondati: La contestazione sulla qualificazione dello spogliatoio come privata dimora si scontrava con un orientamento giurisprudenziale consolidato, rendendo il motivo privo di qualsiasi fondamento giuridico.
3. Meramente Confutativi: Le argomentazioni sul dolo di concorso si limitavano a contrapporre una diversa lettura dei fatti a quella, logicamente argomentata, dei giudici di merito, senza individuare vizi di legittimità.
Di conseguenza, non sussistendo i presupposti per un esame nel merito, i ricorsi sono stati dichiarati inammissibili, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.

Le Conclusioni

L’ordinanza n. 10335/2024 offre due importanti spunti di riflessione. In primo luogo, consolida un’interpretazione estensiva del concetto di privata dimora, estendendo una forte tutela a spazi, come gli spogliatoi aziendali, in cui si svolge la vita privata del lavoratore. Questo principio ha implicazioni significative per la configurabilità di reati come il furto aggravato o la rapina. In secondo luogo, ribadisce un principio fondamentale del processo penale: il ricorso per Cassazione deve basarsi su vizi di legge e non può essere utilizzato per tentare di ottenere una nuova valutazione dei fatti già esaminati nei precedenti gradi di giudizio. Una lezione di rigore processuale e di tutela sostanziale dei diritti della persona, anche sul luogo di lavoro.

Uno spogliatoio sul luogo di lavoro può essere considerato una “privata dimora”?
Sì, secondo la Corte di Cassazione, i luoghi di lavoro in cui si compiono atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi, come uno spogliatoio riservato ai dipendenti, rientrano nella nozione di privata dimora e godono della relativa tutela legale.

È possibile presentare in Cassazione gli stessi motivi di ricorso già respinti in Appello?
No, l’ordinanza chiarisce che i ricorsi che si limitano a reiterare doglianze già esaminate e congruamente disattese dalla Corte d’Appello sono inammissibili. Il ricorso per Cassazione deve sollevare questioni di legittimità e non può essere una semplice riproposizione delle stesse argomentazioni di merito.

Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso in Cassazione?
Come stabilito nella decisione, quando un ricorso viene dichiarato inammissibile, il ricorrente è condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende, che in questo specifico caso è stata fissata in tremila euro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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