Privata Dimora: Anche un Hotel Rientra nella Definizione secondo la Cassazione
La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha affrontato un caso di tentato furto all’interno di un complesso alberghiero, offrendo importanti chiarimenti sulla nozione di privata dimora ai sensi dell’art. 624-bis del codice penale. La decisione non solo consolida un orientamento giurisprudenziale estensivo, ma sottolinea anche rigidi principi procedurali in materia di ricorsi. Analizziamo i dettagli della vicenda e le conclusioni dei giudici.
I Fatti del Caso
Un individuo veniva condannato nei primi due gradi di giudizio per il reato di tentato furto in abitazione. La condotta delittuosa si era svolta all’interno di un complesso alberghiero e delle sue pertinenze. L’imputato, non accettando la condanna, decideva di ricorrere per Cassazione, basando la sua difesa su due principali argomentazioni: l’errata qualificazione giuridica del luogo come privata dimora e il mancato riconoscimento della desistenza volontaria.
I Motivi del Ricorso: Privata Dimora e Desistenza Volontaria
La difesa dell’imputato sosteneva, in primo luogo, che un albergo non potesse essere qualificato come privata dimora, specialmente se chiuso o con una presunta separazione tra la hall e il resto della struttura. Di conseguenza, il reato non avrebbe dovuto essere inquadrato nella fattispecie più grave del furto in abitazione.
In secondo luogo, si contestava il mancato riconoscimento della desistenza volontaria (art. 56, comma 3, c.p.). Secondo la tesi difensiva, l’imputato aveva interrotto autonomamente l’azione criminale, un’azione che, se accolta, avrebbe comportato un trattamento sanzionatorio più mite.
Infine, come ultimo motivo, veniva lamentata la mancata sostituzione della pena detentiva con una pena pecuniaria.
La Decisione della Corte di Cassazione
La Corte Suprema ha dichiarato il ricorso inammissibile in ogni sua parte. I giudici hanno ritenuto i motivi presentati manifestamente infondati, generici e, in parte, non ammissibili perché proposti per la prima volta in sede di legittimità.
Le Motivazioni: La Nozione di Privata Dimora e i Limiti dell’Appello
La Corte ha smontato punto per punto le argomentazioni difensive, fornendo una lezione chiara sia sul piano del diritto sostanziale che su quello procedurale.
L’Hotel come Privata Dimora: Un Concetto Esteso
I giudici hanno confermato l’orientamento, già espresso dalle Sezioni Unite, secondo cui la nozione di privata dimora è ampia e non si limita alla sola abitazione principale. Rientrano in questa categoria tutti i luoghi in cui si svolgono, anche in modo non occasionale, atti della vita privata e che non sono aperti al pubblico indiscriminatamente, ma solo con il consenso del titolare. Questo include anche luoghi destinati ad attività lavorativa o professionale, come un complesso alberghiero. Il fatto che la struttura fosse chiusa o avesse una separazione interna è stato giudicato del tutto irrilevante ai fini della qualificazione giuridica.
La Mancata Desistenza Volontaria
La Corte ha sottolineato la differenza cruciale tra desistenza volontaria e tentativo interrotto. La desistenza si configura solo quando l’agente, pur potendo continuare l’azione, sceglie volontariamente di fermarsi. Nel caso di specie, invece, la consumazione del reato è stata interrotta da una circostanza esterna e coercitiva: l’intervento delle forze dell’ordine. Questa dinamica non lascia spazio a una libera scelta dell’imputato e configura correttamente l’ipotesi di tentativo punibile.
Inammissibilità per Genericità e Novità dei Motivi
Sul piano procedurale, la Cassazione ha bacchettato la difesa per aver presentato motivi di ricorso che erano una mera “pedissequa reiterazione” di quelli già respinti dalla Corte d’Appello, senza una critica specifica e argomentata della sentenza impugnata. Inoltre, il motivo relativo alla sostituzione della pena detentiva è stato dichiarato inammissibile perché non era stato sollevato nel precedente grado di giudizio, violando il principio stabilito dall’art. 606, comma 3, del codice di procedura penale.
Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza
L’ordinanza in esame consolida due principi fondamentali. Il primo è che la tutela penale offerta dal concetto di privata dimora è molto ampia e protegge tutti i luoghi in cui si esplica la sfera privata dell’individuo, inclusi alberghi, studi professionali e pertinenze. Il secondo è un monito per gli operatori del diritto: i ricorsi in Cassazione devono essere formulati con estremo rigore, evitando la semplice ripetizione di argomenti già discussi e l’introduzione di questioni nuove, pena una secca dichiarazione di inammissibilità.
Un hotel può essere considerato una “privata dimora” ai fini del reato di furto in abitazione?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che la nozione di “privata dimora” include anche i luoghi, come un complesso alberghiero, dove si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, anche se destinati ad attività lavorativa, e che non sono aperti al pubblico senza il consenso del titolare.
Se una persona interrompe un furto perché sta arrivando la polizia, si può parlare di “desistenza volontaria”?
No. Secondo la sentenza, la desistenza volontaria si verifica solo quando l’agente decide autonomamente di interrompere l’azione pur potendo continuarla. L’intervento delle forze dell’ordine è una circostanza esterna che costringe all’interruzione, configurando quindi un’ipotesi di tentativo e non di desistenza.
È possibile presentare in Cassazione un motivo di ricorso che non era stato sollevato in appello?
No. Il provvedimento chiarisce che, a pena di inammissibilità, i motivi di ricorso per Cassazione non possono introdurre questioni nuove che non siano state precedentemente dedotte come motivo di appello, come previsto dall’art. 606, comma 3, del codice di procedura penale.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 12957 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 12957 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: PILLA EGLE
Data Udienza: 12/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a SAN COGNOME il 09/11/1980
avverso la sentenza del 18/01/2024 della CORTE APPELLO di BARI
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME
Rilevato che NOME COGNOME ricorre avverso la sentenza della Corte di Appello di Bari che ha confermato la condanna dell’imputato per il reato di tentato furto in abitazione di cui agli artt. 56 e 624 bis, comma 1, cod. pen.
Considerato che il primo motivo di ricorso, che denunzia violazione di legge in relazione alla qualificazione giuridica dei fatti di cui al capo d’imputazione e circa il mancato riconoscimento dell’istituto della desistenza volontaria ex art. 56, comma 3, cod. pen., non è consentito dalla legge in sede di legittimità ed è manifestamente infondato perché costituito da mere doglianze in punto di fatto e in quanto fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla Corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, COGNOME e altri, Rv. 260608; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, COGNOME e altri, Rv. 243838).
La Corte territoriale, infatti, ha correttamente motivato in merito alle doglianze sollevate dalla difesa, specificando che la nozione di “privata dimora” si applica certamente al caso in cui la condotta delittuosa, come nel caso in esame, si sia realizzata introducendosi all’interno di un complesso alberghiero e delle sue pertinenze, essendo del tutto irrilevante il fatto, valorizzato dalla difesa, che lo stesso fosse chiuso e che vi fosse una presunta separazione fra la hall e il resto della struttura. Secondo le indicazioni di questa Corte a Sezioni unite ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale. (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D’amico, Rv. 270076).
Il giudice di merito ha, inoltre, sottolineato come la desistenza volontaria ex art. 56, comma 3, cod. pen. ricorra nel caso in cui l’agente, pur potendo proseguire nella sua condotta delittuosa, decida volontariamente di interrompere l’azione in essere, mentre, nel caso di specie, la consumazione si è interrotta per una circostanza esterna, ovvero l’intervento dei militari.
Ritenuto che il secondo ed ultimo motivo di gravame, con cui il ricorrente lamenta la mancata sostituzione della pena della reclusione con l’applicazione della pena pecuniaria sostitutiva, non solo è solo genericamente formulato, ma non risulta essere stata previamente dedotta come motivo di appello secondo quanto è prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 606 comma 3 cod. proc. pen., come si evince dal riepilogo dei motivi di gravame riportato nella sentenza impugnata
(si veda pag. 3), che l’odierno ricorrente avrebbe dovuto contestare specificamente nell’odierno ricorso, se incompleto o comunque non corretto.
Rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 12 marzo 2025
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