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Presunzione esigenze cautelari nel reato associativo

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un indagato per associazione mafiosa contro l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. La Corte ha stabilito che la presunzione esigenze cautelari non è stata superata, poiché il trasferimento dell’indagato in Brasile e l’avvio di un’attività commerciale sono stati ritenuti non sufficienti a dimostrare una reale dissociazione dal clan, alla luce di altre prove che indicavano la persistenza del vincolo criminale.

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Pubblicato il 26 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Presunzione Esigenze Cautelari: Il Trasferimento all’Estero è Prova di Dissociazione?

Nel contesto dei reati di associazione di tipo mafioso, la legge stabilisce una forte presunzione esigenze cautelari. Ciò significa che, in presenza di gravi indizi di colpevolezza, si presume che l’indagato sia socialmente pericoloso e che la custodia in carcere sia l’unica misura adeguata. Superare questa presunzione è un compito arduo per la difesa. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato un caso emblematico: un indagato, dopo anni di detenzione, si trasferisce in Brasile. Questo gesto può essere considerato una prova sufficiente della sua dissociazione dal clan? La risposta della Corte offre importanti chiarimenti.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un uomo gravemente indiziato di partecipazione a un’associazione mafiosa. Dopo aver scontato un lungo periodo di detenzione, dal 2017 al 2023, l’uomo veniva rimesso in libertà. Poco dopo, decideva di trasferirsi prima in un’altra città italiana e poi in Brasile. Successivamente, venuto a conoscenza di una nuova ordinanza di custodia cautelare a suo carico per lo stesso reato associativo, rientrava spontaneamente in Italia per affrontare il procedimento.

La difesa sosteneva che il trasferimento all’estero e l’avvio di un’attività commerciale in Brasile fossero la prova tangibile della sua volontà di recidere ogni legame con l’ambiente criminale di origine. Tuttavia, il Tribunale del Riesame confermava la misura cautelare, decisione poi impugnata davanti alla Corte di Cassazione.

La Decisione della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo manifestamente infondato. Secondo gli Ermellini, il Tribunale di Bari, nel giudizio di rinvio, aveva correttamente motivato le ragioni per cui il trasferimento all’estero non poteva essere interpretato come un’effettiva dissociazione. La presunzione esigenze cautelari non era stata superata e la custodia in carcere rimaneva la misura adeguata.

Le motivazioni sulla presunzione esigenze cautelari

La Corte ha validato il ragionamento del giudice di merito, che si basava su una valutazione complessiva degli elementi a disposizione. La decisione non si è fermata alla superficie del gesto (il trasferimento), ma ne ha analizzato la sostanza nel contesto specifico.

Innanzitutto, sono state valorizzate le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia, i quali non solo confermavano l’affiliazione dell’uomo al clan, ma ne attestavano l’attualità. Uno di loro, in un interrogatorio successivo alla prima ordinanza, aveva dichiarato che l’indagato era ‘attualmente’ un affiliato.

In secondo luogo, sono emerse prove che l’uomo aveva continuato a occuparsi degli affari illeciti del clan, in particolare del narcotraffico, anche durante il precedente periodo di detenzione, utilizzando sistemi di comunicazione criptata. Questo elemento è stato decisivo per dimostrare la pervicacia del vincolo associativo, un legame che neppure la restrizione carceraria aveva scalfito.

Il trasferimento in Brasile, quindi, è stato interpretato non come una fuga dal passato criminale, ma come una mossa potenzialmente strategica e funzionale agli interessi del clan, data la pregressa rete di contatti che l’uomo aveva nel paese sudamericano proprio per il traffico di stupefacenti. Infine, la Corte ha sottolineato la debolezza dell’argomento relativo all’attività lavorativa lecita: la società in Brasile era stata formalmente costituita solo dopo l’emissione della misura cautelare, facendo apparire l’iniziativa come un mero espediente difensivo.

Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale in materia di reati associativi: per vincere la presunzione esigenze cautelari, non bastano gesti ambigui. È necessaria una prova concreta, univoca e convincente della rescissione del legame con il sodalizio criminale. Un cambiamento di vita apparente, come il trasferimento all’estero, viene attentamente vagliato dai giudici alla luce dell’intero quadro probatorio. Se elementi concreti, come le dichiarazioni dei collaboratori o le prove di attività illecite persistenti, indicano che il vincolo è ancora attivo, la presunzione di pericolosità rimane pienamente operante e la custodia in carcere viene confermata come misura necessaria a tutela della collettività.

Trasferirsi all’estero dopo un periodo di detenzione è sufficiente a superare la presunzione di pericolosità per un indagato di associazione mafiosa?
No. Secondo la sentenza, il trasferimento all’estero, di per sé, non è sufficiente. I giudici devono valutare le circostanze concrete. In questo caso, il trasferimento è stato ritenuto non espressivo di una dissociazione, ma potenzialmente funzionale alle attività criminali del clan (narcotraffico), anche alla luce delle dichiarazioni di collaboratori di giustizia.

Avviare un’attività lavorativa lecita all’estero può essere considerato un elemento decisivo per dimostrare la rescissione dei legami con un clan?
Non necessariamente. La Corte ha ritenuto che l’avvio di un’attività commerciale non fosse un elemento decisivo, soprattutto perché la società è stata costituita dopo l’emissione della misura cautelare. Questo tempismo ha fatto apparire l’iniziativa come uno strumento difensivo piuttosto che come una reale scelta di vita.

La mancanza di contatti diretti con i sodali dopo la scarcerazione è una prova sufficiente per escludere le esigenze cautelari?
No. La sentenza chiarisce che la persistenza del vincolo associativo può essere dimostrata da altri elementi. Nel caso specifico, le dichiarazioni di più collaboratori di giustizia, che affermavano l’attualità dell’affiliazione, e le prove di un coinvolgimento in traffici illeciti anche durante la detenzione, sono state considerate prevalenti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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