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Presunzione esigenze cautelari: il tempo non basta

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un indagato per associazione mafiosa, il quale chiedeva la revoca della custodia cautelare in carcere basandosi sul lungo tempo trascorso dai fatti (‘tempo silente’). La Corte ha stabilito che la presunzione esigenze cautelari per le ‘mafie storiche’ non può essere superata dal solo decorso del tempo, specialmente in presenza di elementi recenti, come dichiarazioni di collaboratori, che confermano l’attualità della pericolosità sociale del soggetto e la sua appartenenza al clan.

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Pubblicato il 5 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Presunzione esigenze cautelari e reati di mafia: il tempo da solo non basta

La recente sentenza della Corte di Cassazione Penale, Sez. 5, n. 34978/2025, offre un’importante chiarificazione sul rapporto tra il decorso del tempo e la presunzione esigenze cautelari nei reati di associazione di tipo mafioso. La Corte ha ribadito un principio consolidato: per le cosiddette ‘mafie storiche’, il semplice trascorrere del tempo non è sufficiente a dimostrare la cessazione della pericolosità dell’indagato, soprattutto se emergono nuovi elementi che ne confermano l’attualità.

I fatti di causa

Il caso riguarda un individuo sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere per il reato di partecipazione a un’associazione di tipo mafioso, con un ruolo operativo all’interno di un noto clan barese. La contestazione copriva un arco temporale che partiva dal 2016 e si estendeva ‘fino all’attualità’.
L’indagato, dopo aver visto respinta la sua istanza di revoca o sostituzione della misura dal Giudice per le indagini preliminari e, in seguito, dal Tribunale del Riesame, ha proposto ricorso in Cassazione. La difesa lamentava una violazione di legge e un vizio di motivazione riguardo alla persistenza delle esigenze cautelari, invocando il principio del cosiddetto ‘tempo silente’. Sosteneva, infatti, che il lungo periodo trascorso dai fatti contestati, unito alla scarcerazione di altri coindagati, avrebbe dovuto indebolire la presunzione di pericolosità a suo carico.

La questione della presunzione esigenze cautelari e il ‘tempo silente’

Il fulcro del ricorso si basava sull’idea che il tempo potesse ‘curare’ la pericolosità sociale. La difesa contestava che le prove utilizzate per giustificare il mantenimento della misura in carcere (dichiarazioni di collaboratori di giustizia e coindagati) fossero datate o non sufficientemente specifiche per dimostrare un pericolo attuale.

Secondo l’orientamento difensivo, l’ordinanza impugnata avrebbe dovuto valorizzare il ‘tempo silente’, ovvero un apprezzabile lasso di tempo tra i fatti contestati e l’emissione della misura, come elemento idoneo a superare la presunzione legale di pericolosità prevista dall’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, fornendo una motivazione chiara e in linea con la sua giurisprudenza maggioritaria. I giudici hanno spiegato che, specialmente per le ‘mafie storiche’, caratterizzate da una struttura radicata e perdurante, la presunzione esigenze cautelari è particolarmente forte.

La Corte ha precisato che tale presunzione può essere superata solo con la prova concreta del recesso dell’indagato dall’associazione criminale o con l’esaurimento dell’attività del sodalizio stesso. Il ‘tempo silente’, da solo, non costituisce una prova di tale allontanamento. Può essere, al massimo, uno degli elementi da valutare, ma solo in via residuale e insieme ad altri fattori, come un’attività di collaborazione con la giustizia o un trasferimento in un’altra area geografica.

Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto la motivazione del Tribunale del Riesame del tutto adeguata, poiché non si era limitata a un’applicazione automatica della presunzione. Al contrario, aveva ‘attualizzato’ il giudizio di pericolosità sulla base di elementi probatori recenti:
– Le dichiarazioni di un coindagato e di un collaboratore di giustizia, rese nell’aprile del 2024, che descrivevano la piena appartenenza del ricorrente al clan ‘all’attualità’.
– Le dichiarazioni di un altro collaboratore che collocavano l’attività di spaccio di stupefacenti per conto del gruppo fino all’anno 2022.

Questi elementi, secondo la Corte, dimostravano una pericolosità sociale ancora concreta e attuale, rendendo irrilevante il mero decorso del tempo e giustificando pienamente il mantenimento della custodia cautelare in carcere.

Conclusioni

La sentenza in esame consolida un principio fondamentale in materia di misure cautelari per i reati di mafia. La pericolosità sociale di un affiliato a un’organizzazione criminale strutturata non si presume affievolita con il semplice passare degli anni. Per ottenere una revisione della misura cautelare, non basta invocare il ‘tempo silente’, ma è necessario fornire elementi concreti e oggettivi che dimostrino un distacco netto, irreversibile e definitivo dal sodalizio criminale. In assenza di tale prova, e a fronte di nuovi indizi che confermano il legame con il clan, la presunzione di pericolosità rimane pienamente operativa e giustifica le misure più restrittive a tutela della collettività.

Per i reati di associazione mafiosa, il semplice passare del tempo è sufficiente a superare la presunzione di esigenze cautelari?
No. Secondo la sentenza, il cosiddetto ‘tempo silente’ (il decorso di un apprezzabile lasso di tempo) non può, da solo, costituire prova dell’irreversibile allontanamento dell’indagato dal sodalizio e, quindi, non è sufficiente a superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, specialmente in presenza di elementi che attualizzano la pericolosità.

Cosa si intende per ‘mafie storiche’ e perché questo concetto è rilevante per le misure cautelari?
Le ‘mafie storiche’ sono definite come sodalizi di tipo mafioso radicati e operanti stabilmente su un territorio (nel caso di specie, il clan Parisi Palermiti nel quartiere Japigia di Bari). Questo concetto è rilevante perché la giurisprudenza ritiene che per tali organizzazioni la presunzione di pericolosità dei suoi affiliati sia più forte e difficile da superare, data la stabilità e la perdurante operatività del gruppo criminale.

Quali elementi possono dimostrare l’attualità della pericolosità di un indagato, nonostante sia passato del tempo dai primi fatti contestati?
La sentenza evidenzia che elementi come dichiarazioni recenti di collaboratori di giustizia o coindagati, che descrivono il perdurare dell’appartenenza dell’indagato al clan o il suo coinvolgimento in attività illecite recenti (nel caso specifico, fino al 2022 e con dichiarazioni del 2024), sono idonei a dimostrare che la sua pericolosità è ancora attuale e a giustificare il mantenimento della misura cautelare.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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