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Presunzione esigenze cautelari: il lavoro non basta

Un soggetto accusato di associazione mafiosa e tentato omicidio ricorre contro la misura della custodia cautelare in carcere, sostenendo che un recente contratto di lavoro dimostri un cambiamento di vita. La Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile, ribadendo che la ‘presunzione esigenze cautelari’ per reati di mafia richiede una prova certa e inequivocabile della rottura con l’ambiente criminale, non essendo sufficiente un impiego a tempo determinato.

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Pubblicato il 22 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Presunzione Esigenze Cautelari: Lavoro Precario non Supera il Carcere

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, affronta un tema cruciale nel diritto processuale penale: la presunzione esigenze cautelari nei reati di stampo mafioso. La decisione chiarisce che per superare la quasi automatica applicazione della custodia in carcere non basta un generico segnale di cambiamento, come un contratto di lavoro a tempo determinato, ma occorre una prova solida e inequivocabile della rottura con il passato criminale.

I Fatti del Caso

Il Tribunale del Riesame di Napoli aveva confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per un individuo accusato di reati gravissimi: partecipazione ad associazione di tipo mafioso (un noto clan camorristico operante nel napoletano), tentato omicidio e reati connessi in materia di armi, tutti aggravati dal metodo mafioso.

Le prove a suo carico erano significative e comprendevano dichiarazioni di collaboratori di giustizia, intercettazioni e immagini di videosorveglianza relative a un agguato. La difesa dell’indagato ha presentato ricorso in Cassazione, non per contestare gli indizi, ma per sostenere il venir meno delle esigenze cautelari. L’argomento principale era che l’indagato, dopo un lungo periodo di detenzione per altre cause (dal 2021 al 2024), una volta scarcerato aveva intrapreso un percorso lavorativo, ottenendo un contratto a tempo determinato di due mesi presso una società del settore alimentare. Secondo la difesa, questo dimostrava la sua volontà di cambiare vita e rendeva sproporzionata la misura carceraria.

La Questione Giuridica: La Doppia Presunzione dell’Art. 275 c.p.p.

Il cuore della questione risiede nell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale. Questa norma stabilisce una ‘doppia presunzione’ per i delitti di particolare gravità, tra cui l’associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.).

1. Presunzione di esistenza delle esigenze cautelari: si presume, fino a prova contraria, che sussista il pericolo di inquinamento delle prove, di fuga o, soprattutto, di reiterazione del reato.
2. Presunzione di adeguatezza della custodia in carcere: si presume che nessuna misura meno afflittiva (come gli arresti domiciliari) sia sufficiente a contenere tale pericolosità.

Per vincere questa presunzione, non basta un dubbio, ma serve la ‘prova positiva’ che tali esigenze non esistono più, ovvero che l’indagato ha reciso ogni legame con l’organizzazione criminale.

Le Motivazioni della Cassazione sulla Presunzione Esigenze Cautelari

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo la valutazione del Tribunale del Riesame logica e corretta. I giudici hanno sottolineato che la documentazione prodotta dalla difesa, pur attestando l’inizio di un’attività lavorativa, era inidonea a dimostrare un reale e definitivo allontanamento dal contesto camorristico.

Secondo la Corte, un contratto di lavoro a tempo determinato per soli due mesi non costituisce un elemento sufficiente a provare un ‘mutamento delle scelte di vita’. Le condotte contestate all’indagato, infatti, mostravano una piena condivisione delle logiche criminali del clan per un lungo periodo. Di fronte a una simile pericolosità sociale, radicata e persistente, un segnale così debole e recente di ‘resipiscenza’ non può superare la forte presunzione di legge.

Il ricorso, quindi, si è risolto in un tentativo, non consentito in sede di legittimità, di ottenere una diversa valutazione dei fatti, piuttosto che in una censura su una violazione di legge. La Corte non può sostituire il proprio apprezzamento a quello del giudice di merito, se quest’ultimo è motivato in modo logico e coerente con i principi di diritto.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale: nei procedimenti per mafia, la libertà prima di una condanna è un’eccezione che deve essere supportata da prove concrete e decisive. La presunzione di pericolosità sociale è così forte che solo una dimostrazione tangibile di un cambiamento di vita radicale e permanente può superarla. Un breve e precario rapporto di lavoro, pur essendo un passo nella giusta direzione, non è sufficiente a fornire quella ‘prova positiva’ di rescissione dei legami con il crimine organizzato richiesta dalla giurisprudenza. La decisione conferma la linea di rigore del legislatore e delle corti nel contrasto alla criminalità mafiosa, dove la tutela della collettività prevale, in fase cautelare, sulle singole manifestazioni di buona volontà dell’indagato, se queste non sono supportate da elementi solidi e duraturi.

Per un reato di mafia, è automatica la custodia in carcere?
Sì, la legge stabilisce una presunzione secondo cui, in presenza di gravi indizi per reati di stampo mafioso, esistono le esigenze cautelari e la custodia in carcere è la misura adeguata, salvo che si fornisca una prova positiva del contrario.

È possibile evitare il carcere dimostrando di aver cambiato vita?
Sì, ma è necessario fornire una prova positiva e inequivocabile della rescissione totale dei legami con l’organizzazione criminale. Come chiarito dalla sentenza, la semplice dimostrazione di aver iniziato un percorso lavorativo, specialmente se breve e precario, non è stata ritenuta sufficiente.

Cosa significa che il ricorso è stato dichiarato ‘inammissibile’?
Significa che la Corte di Cassazione non ha potuto esaminare il merito della questione perché il ricorso non presentava validi motivi di diritto, ma si limitava a contestare la valutazione dei fatti già operata dal giudice precedente, cosa non permessa in questa sede.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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