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Presunzione di pericolosità: quando il tempo non basta

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1757/2024, ha rigettato il ricorso di un imputato per associazione di tipo mafioso che chiedeva la revoca della misura cautelare in carcere. La Corte ha stabilito che, per i reati legati alla ‘mafia storica’, il semplice trascorrere del tempo non è sufficiente a superare la presunzione di pericolosità. È necessario dimostrare una netta e inequivocabile rottura con l’ambiente criminale, elemento che nel caso di specie non è stato riscontrato, nonostante la partecipazione al clan di origine fosse circoscritta a un periodo passato.

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Pubblicato il 25 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Presunzione di pericolosità: per la Cassazione il tempo non cancella i legami con la mafia

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 1757 del 2024, ha affrontato un tema cruciale in materia di misure cautelari per i reati di associazione mafiosa: la presunzione di pericolosità sociale dell’indagato. La pronuncia chiarisce che il semplice trascorrere del tempo non è sufficiente a dimostrare che un individuo, storicamente legato a un clan, abbia reciso i suoi legami con il mondo criminale. Per ottenere la revoca della custodia in carcere, è necessaria la prova di una rottura netta e definitiva.

I Fatti del Processo

Il caso riguarda un uomo, condannato in primo grado a 12 anni per partecipazione ad associazione di tipo mafioso, che si era visto respingere dal Tribunale di Catanzaro la richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare in carcere. La difesa sosteneva che la pericolosità del suo assistito non fosse più attuale, basandosi su dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia che circoscrivevano la sua partecipazione attiva al clan a un periodo risalente e conclusosi tra il 2010 e il 2011.

La questione era già stata esaminata due volte dalla Corte di Cassazione, che in entrambe le occasioni aveva annullato le decisioni del Tribunale, ordinando una nuova valutazione che tenesse conto in modo più approfondito dei nuovi elementi probatori. Nonostante ciò, anche nel giudizio di rinvio, il Tribunale aveva confermato la misura detentiva, ritenendo che, pur essendo terminata la partecipazione a uno specifico clan, l’uomo avesse continuato a delinquere come ‘uomo d’onore libero’, mantenendo legami con esponenti di altre cosche e dedicandosi a usura ed estorsioni.

Il Ricorso in Cassazione e la Presunzione di Pericolosità

Il difensore ha nuovamente proposto ricorso in Cassazione, lamentando un vizio di motivazione da parte del Tribunale. Secondo la difesa, il giudice del rinvio non avrebbe valutato correttamente le dichiarazioni dei collaboratori, che indicavano un ‘tempo silente’ e un ruolo ormai marginale del ricorrente nel panorama criminale. Questi elementi, a dire del legale, erano sufficienti a superare la presunzione di pericolosità che la legge prevede per chi è accusato di reati di mafia (art. 275, comma 3, c.p.p.).

Il fulcro del ricorso risiedeva quindi nel tentativo di dimostrare che il lungo periodo trascorso dalla fine della partecipazione attiva al clan originario dovesse essere interpretato come un segno inequivocabile della cessazione della pericolosità sociale del soggetto.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, giudicandolo infondato. I giudici hanno ritenuto che la motivazione del Tribunale, seppur sintetica, non fosse illogica. La decisione si fonda su un principio consolidato in giurisprudenza, relativo alla cosiddetta ‘mafia storica’. Per questo tipo di criminalità organizzata, il vincolo associativo è talmente forte e radicato che non può essere scalfito dal solo decorso del tempo.

La Cassazione ha chiarito che la presunzione di pericolosità può essere superata solo fornendo la prova di una ‘cesura’, ovvero di un distacco definitivo e riscontrabile dal contesto criminale di appartenenza. Nel caso specifico, il Tribunale aveva correttamente evidenziato come il ricorrente non avesse vissuto un vero ‘tempo silente’. Al contrario, dopo il 2011, aveva continuato a delinquere, seppur in modo autonomo, e a mantenere legami con altri esponenti mafiosi. Questo comportamento, secondo la Corte, dimostrava la persistenza della sua pericolosità e giustificava il mantenimento della misura cautelare in carcere.

In altre parole, limitarsi a non partecipare più attivamente a un clan non è sufficiente; è necessario che non vi siano più contatti, attività illecite o legami di alcun tipo con il mondo mafioso.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce la severità con cui l’ordinamento giuridico tratta la criminalità organizzata di stampo mafioso. La presunzione di pericolosità non è una mera formalità, ma un pilastro del sistema cautelare che richiede prove concrete e inequivocabili per essere superata. Il tempo, da solo, non basta a cancellare un passato criminale e a dimostrare un reale cambiamento, soprattutto quando l’individuo continua a muoversi, anche se in modo diverso, all’interno di logiche e contesti illeciti. Questa decisione serve da monito: per uscire dal circuito della detenzione cautelare in casi di mafia, occorre una rottura totale e verificabile con il proprio passato.

Il semplice trascorrere del tempo è sufficiente a far decadere la presunzione di pericolosità per un soggetto accusato di associazione mafiosa?
No, secondo la sentenza, per la ‘mafia storica’ il decorso del tempo non assume di per sé rilevanza se non è accompagnato da elementi concreti che dimostrino una rottura (‘cesura’) con il contesto criminale di riferimento.

Cosa deve dimostrare l’imputato per superare la presunzione di pericolosità?
L’imputato deve fornire elementi che provino un effettivo distacco dal contesto associativo criminale. Un ‘tempo silente’ non è considerato sufficiente se, come nel caso di specie, l’individuo continua a delinquere in modo autonomo o a mantenere legami con altri esponenti mafiosi.

In che modo il Tribunale ha valutato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia?
Il Tribunale ha ritenuto che, sebbene le dichiarazioni circoscrivessero la partecipazione del ricorrente a un clan in un determinato periodo (fino al 2011), esse confermavano la sua pericolosità attuale, dato che aveva continuato ad agire da ‘uomo d’onore libero’, dedicandosi ad altre attività illecite e mantenendo legami con altre cosche.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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