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Presunzione di pericolosità: il tempo che passa conta

Un individuo, condannato per associazione mafiosa per fatti risalenti a 10 anni prima, viene sottoposto a custodia in carcere. La Corte di Cassazione annulla l’ordinanza, stabilendo che la presunzione di pericolosità non giustifica automaticamente la misura dopo un così lungo “tempo silente”. È necessaria una motivazione specifica e rafforzata del giudice sulla concretezza e attualità del pericolo di reiterazione del reato, che non può essere desunta solo dalla gravità del titolo di reato originario.

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Pubblicato il 17 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Presunzione di pericolosità: il tempo che passa affievolisce la sua forza

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, interviene su un tema cruciale della procedura penale: il rapporto tra la presunzione di pericolosità per i reati di mafia e il considerevole tempo trascorso dai fatti. La pronuncia stabilisce un principio fondamentale: una misura cautelare grave come la custodia in carcere non può essere applicata automaticamente a distanza di molti anni, ma richiede una valutazione rigorosa e una motivazione rafforzata da parte del giudice sull’attualità del pericolo sociale.

I Fatti del Caso

Il caso riguarda un soggetto condannato per il reato di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.). I fatti contestati si erano fermati a giugno 2014. A distanza di oltre dieci anni, nell’ottobre 2024, a seguito di una sentenza di condanna emessa in sede di rinvio dopo un annullamento da parte della Cassazione, la Corte di Appello applicava all’imputato la misura della custodia cautelare in carcere.

La difesa impugnava tale provvedimento dinanzi al Tribunale del riesame, sostenendo che il lungo “tempo silente” intercorso, durante il quale l’imputato era rimasto per lo più libero senza dare adito a rilievi negativi, dimostrava l’assenza di esigenze cautelari attuali. Il Tribunale del riesame, tuttavia, rigettava il ricorso, basandosi sulla presunzione di pericolosità prevista dall’art. 275, comma 3, c.p.p., e ritenendo che il solo decorso del tempo non fosse sufficiente a provare un recesso irreversibile dal vincolo associativo. Contro questa decisione, la difesa proponeva ricorso per Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza del Tribunale del riesame e rinviando per un nuovo giudizio. La Corte ha ritenuto che la motivazione del provvedimento impugnato fosse viziata e non in linea con i principi consolidati della giurisprudenza di legittimità.

Le Motivazioni: il ruolo del tempo sulla presunzione di pericolosità

Il cuore della decisione risiede nella corretta interpretazione della presunzione di pericolosità e del suo rapporto con il principio di attualità delle esigenze cautelari, soprattutto alla luce della riforma del 2015. La Cassazione ha evidenziato diversi errori nel ragionamento del Tribunale del riesame:

1. Mancata applicazione dell’art. 275, comma 1-bis, c.p.p.: Il Tribunale non ha tenuto conto dei criteri specifici che la legge impone di valutare quando una misura cautelare viene disposta contestualmente o successivamente a una sentenza di condanna. La norma richiede di considerare l’esito del procedimento, le modalità del fatto e gli elementi sopravvenuti, cosa che non è stata fatta.

2. Errata valutazione del “tempo silente”: La Corte ha ribadito che, sebbene il decorso del tempo non costituisca da solo prova automatica della cessazione della pericolosità, un intervallo così ampio (dieci anni) non può essere ignorato. Al contrario, esso impone al giudice un onere di motivazione “rafforzato”. Il giudice deve spiegare puntualmente perché, nonostante il lungo periodo di apparente buona condotta, le esigenze cautelari siano ancora concrete e attuali. Non basta invocare la presunzione di legge; occorre confrontarsi con i fatti concreti, inclusa la condotta di vita dell’imputato nel periodo intermedio.

3. Il principio di attualità: La Cassazione ha sottolineato come la legge richieda un pericolo concreto e attuale di commissione di nuovi gravi delitti. Questo requisito di attualità, rafforzato dalla riforma del 2015, serve a vanificare la presunzione quando sia dimostrata, anche tramite il lungo tempo trascorso, l’insussistenza di un pericolo attuale. L’adesione a un’associazione criminale non può essere ridotta a un mero dato ideologico, ma deve concretarsi in una condotta partecipativa attuale.

In sostanza, il Tribunale si è limitato a un’applicazione meccanica della presunzione, senza rispondere adeguatamente alle specifiche censure della difesa e senza spiegare perché un comportamento risalente a un decennio prima potesse ancora fondare un giudizio di attuale pericolosità sociale.

Le Conclusioni

La sentenza rappresenta un importante baluardo a tutela della libertà personale. Afferma con chiarezza che la presunzione di pericolosità, per quanto forte nei reati di mafia, non è una “condanna anticipata” e non può operare in modo atemporale. Il tempo è un fattore cruciale che il giudice della cautela ha l’obbligo di considerare attentamente. Qualora intercorra un considerevole lasso di tempo dai fatti contestati, la presunzione si affievolisce e il giudice deve fornire una prova logica rigorosa per dimostrare che il pericolo per la collettività è ancora vivo e presente. In assenza di tale motivazione rafforzata, la libertà dell’individuo deve prevalere.

La presunzione di pericolosità per reati di mafia è assoluta?
No, non è assoluta. Sebbene la legge presuma l’esistenza di esigenze cautelari per reati come l’associazione mafiosa, tale presunzione è relativa (iuris tantum) e può essere superata da elementi di prova contraria. Il lungo tempo trascorso dai fatti, come stabilito in questa sentenza, è uno degli elementi che possono vincere tale presunzione, se adeguatamente valutato dal giudice.

Il tempo trascorso dal reato può annullare la necessità di una misura cautelare?
Da solo, il tempo non annulla automaticamente la necessità della misura, ma impone al giudice un obbligo di motivazione più stringente. Un considerevole lasso di “tempo silente” (in questo caso, dieci anni) deve essere espressamente considerato per valutare l’attualità delle esigenze cautelari. Il giudice deve spiegare perché, nonostante il tempo, il pericolo di reiterazione del reato sia ancora concreto e attuale.

Cosa deve fare il giudice per applicare la custodia in carcere dopo molti anni dai fatti?
Il giudice ha l’obbligo di fornire una motivazione puntuale e rafforzata. Non può limitarsi a richiamare la gravità del reato o la presunzione di legge. Deve analizzare la condotta dell’imputato nel periodo intercorso, valutare l’esistenza di elementi concreti che dimostrino la persistenza del vincolo associativo e la sua attuale pericolosità, in conformità con il principio di attualità delle esigenze cautelari.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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