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Presunzione di pericolosità: Cassazione e misure cautelari

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un imputato condannato in primo grado per narcotraffico con aggravante mafiosa, che chiedeva la sostituzione della custodia cautelare in carcere. La Corte ha stabilito che la presunzione di pericolosità per reati così gravi non viene meno solo per il tempo trascorso dalla commissione dei fatti. La condanna in primo grado, anzi, rafforza le esigenze cautelari, e la mera dissociazione verbale dal gruppo criminale non è sufficiente a dimostrare un effettivo cambiamento, specialmente se smentita da altri elementi come il possesso di ingenti somme di denaro.

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Pubblicato il 9 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Presunzione di pericolosità e Misure Cautelari: La Cassazione Fa il Punto

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, è tornata a pronunciarsi su un tema cruciale della procedura penale: la presunzione di pericolosità e la sua incidenza sulla durata delle misure cautelari. Il caso in esame riguarda un soggetto condannato in primo grado per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa. La difesa sosteneva che il lungo tempo trascorso dalla cessazione dell’attività criminale dovesse portare a un’attenuazione della misura cautelare. La Corte ha, però, offerto una lettura rigorosa, ribadendo la solidità di tale presunzione anche dopo la condanna di primo grado.

I fatti del caso

L’imputato era stato ritenuto gravemente indiziato di essere un fornitore stabile di un’associazione criminale dedita al narcotraffico, i cui proventi erano destinati a finanziare un noto clan mafioso. Sottoposto a custodia cautelare in carcere e successivamente condannato in primo grado a undici anni di reclusione, presentava istanza per la sostituzione della misura. La sua difesa si basava su due argomenti principali: il notevole lasso di tempo (circa due anni) trascorso dalla sua presunta dissociazione dal gruppo e la cessazione dell’attività illecita, documentata, a suo dire, da alcune intercettazioni telefoniche. Inoltre, veniva evidenziato un trattamento cautelare diverso riservato a un altro coimputato.

La questione della presunzione di pericolosità

Il cuore della questione giuridica ruota attorno all’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale. Questa norma stabilisce una presunzione di pericolosità (definita ‘doppia presunzione’ in casi di mafia) per chi è gravemente indiziato di determinati reati, tra cui quelli di associazione mafiosa e narcotraffico aggravato. Si presume non solo che esistano esigenze cautelari, ma anche che la custodia in carcere sia l’unica misura idonea a soddisfarle. Il ricorrente tentava di superare questa presunzione, sostenendo che elementi sopravvenuti, come il tempo trascorso e la sua presunta ‘uscita di scena’, fossero sufficienti a dimostrare l’affievolimento del pericolo di reiterazione del reato.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione del Tribunale del Riesame. I giudici hanno chiarito che, in sede di appello cautelare, il tribunale non deve riesaminare l’intero quadro probatorio, ma solo valutare se fatti nuovi, preesistenti o sopravvenuti, siano idonei a modificare la valutazione iniziale. In questo caso, secondo la Corte, la difesa non ha offerto elementi di novità tali da scalfire il giudizio di pericolosità.

Le motivazioni

La Cassazione ha sviluppato un ragionamento logico e coerente, fondato su diversi pilastri. In primo luogo, ha sottolineato che la pronuncia di una condanna in primo grado, lungi dall’indebolire le esigenze cautelari, le rafforza, poiché il quadro indiziario viene consolidato da una prima affermazione di colpevolezza. Il giudice deve tenere conto dell’esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti. La severità della pena inflitta (undici anni) è un ulteriore indice della gravità dei fatti e della personalità dell’imputato.

In secondo luogo, la Corte ha smontato l’argomento del tempo trascorso. La prognosi di pericolosità, in tema di associazioni criminali, non si lega solo all’operatività attuale del gruppo o all’ultimo reato commesso, ma alla professionalità criminale dimostrata e al grado di inserimento dell’individuo nei circuiti illeciti. La mera rescissione dei legami con il gruppo non è di per sé sufficiente a superare la presunzione di pericolosità. Le intercettazioni portate dalla difesa sono state ritenute ambigue, al più indicative di una ‘sospensione’ dell’apporto al gruppo, ma non di un recesso definitivo. A smentire questa tesi, inoltre, vi era il sequestro di una notevole somma di denaro al momento dell’esecuzione della misura, un fatto che la Corte ha ritenuto non coerente con un abbandono delle attività illecite.

Infine, la Corte ha respinto il confronto con la posizione di un altro coimputato, ribadendo che la valutazione delle esigenze cautelari è strettamente individuale e non trasferibile. Anche l’offerta di un domicilio lontano dai luoghi del reato è stata giudicata irrilevante, poiché la disponibilità di un’abitazione non supera di per sé la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere.

Conclusioni

Questa sentenza riafferma un principio fondamentale: per i reati di eccezionale gravità, la legge pone una barriera molto alta per la concessione di misure alternative al carcere. La presunzione di pericolosità non è una formula vuota, ma un preciso strumento volto a tutelare la collettività dal rischio di reiterazione di condotte criminali particolarmente allarmanti. Il decorso del tempo da solo non basta; è necessario fornire prove concrete e univoche di un reale e definitivo allontanamento dal mondo del crimine, un onere probatorio che, nel caso di specie, l’imputato non è riuscito a soddisfare. La decisione della Cassazione serve come monito sulla difficoltà di scardinare le valutazioni cautelari una volta che queste sono state consolidate da una sentenza di condanna, anche se non ancora definitiva.

Il semplice passare del tempo è sufficiente a ridurre una misura cautelare per reati di narcotraffico con aggravante mafiosa?
No. Secondo la sentenza, il mero decorso del tempo (in questo caso circa due anni dalla cessazione della condotta) non è di per sé un elemento sufficiente a superare la presunzione di pericolosità, specialmente quando è intervenuta una condanna in primo grado a una pena severa.

Cosa significa ‘presunzione di pericolosità’ in questo contesto?
Significa che per reati di particolare gravità, come l’associazione finalizzata al traffico di droga con aggravante mafiosa, la legge presume che l’imputato sia socialmente pericoloso e che la custodia in carcere sia l’unica misura adeguata. Spetta all’imputato fornire prove concrete e decisive per dimostrare il contrario.

La condanna in primo grado rafforza o indebolisce le esigenze cautelari?
Le rafforza. La sentenza chiarisce che la condanna in primo grado, accertando la colpevolezza dell’imputato, consolida il quadro indiziario e, di conseguenza, la valutazione sulla sua pericolosità, rendendo ancora più difficile ottenere un’attenuazione della misura cautelare.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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