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Presunzione di pericolosità: appello inammissibile

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi di due indagate contro l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione di tipo mafioso ed estorsione. La sentenza conferma la validità della presunzione di pericolosità sociale per tali reati, ritenendo non sufficiente la dimostrazione di un’attività lavorativa per ottenere una misura meno afflittiva. Inoltre, chiarisce che la mancata fruizione di una sospensione d’udienza, concessa per esaminare nuove prove, equivale a una rinuncia del diritto di difesa.

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Pubblicato il 8 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Presunzione di Pericolosità e Associazione Mafiosa: Quando il Ricorso in Cassazione è Inammissibile

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 11985 del 2024, offre importanti chiarimenti sulla presunzione di pericolosità in materia di reati di associazione di tipo mafioso e sui limiti del diritto di difesa nel procedimento di riesame. La Corte ha dichiarato inammissibili i ricorsi presentati da due indagate, confermando la misura della custodia cautelare in carcere e ribadendo la solidità dei principi che governano le esigenze cautelari per reati di eccezionale gravità.

I Fatti del Caso: Le Accuse e la Misura Cautelare

Il caso riguarda due donne indagate per partecipazione a un’associazione a delinquere di tipo mafioso, operante nella zona di Torre Annunziata. Secondo l’accusa, le due erano addette alla gestione e alla riscossione di estorsioni per conto del clan. A una delle due venivano contestati anche specifici episodi di estorsione aggravata dal metodo mafioso.

Sulla base di un solido compendio indiziario, composto da intercettazioni, servizi di osservazione e dichiarazioni delle vittime, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli aveva disposto per entrambe la misura della custodia cautelare in carcere. Tale provvedimento era stato successivamente confermato dal Tribunale del riesame.

I Motivi del Ricorso in Cassazione

Contro l’ordinanza del Tribunale del riesame, le indagate hanno proposto ricorso per cassazione attraverso due distinti atti.

Il primo ricorso, presentato nell’interesse di entrambe, sollevava una questione procedurale: la difesa lamentava l’erronea applicazione della legge per aver il Tribunale utilizzato, ai fini della decisione, verbali di sommarie informazioni testimoniali depositati dal Pubblico Ministero solo il pomeriggio precedente l’udienza, ledendo così il diritto di difesa.

Il secondo ricorso, proposto solo da una delle indagate, articolava diversi motivi:
1. Carenza di gravi indizi: Si sosteneva che le sue condotte estorsive fossero dettate da scopi personali e privatistici, tanto da essere mal tollerate dai vertici del clan, escludendo così una reale partecipazione all’associazione.
2. Insussistenza delle accuse di estorsione: Si contestava la gravità indiziaria per gli specifici capi d’imputazione.
3. Violazione sulla presunzione di pericolosità: Si argomentava che la sua documentata attività lavorativa dovesse essere considerata per superare la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere prevista dall’art. 275, comma 3, c.p.p.

L’Analisi della Corte e la Presunzione di Pericolosità

La Corte di Cassazione ha rigettato tutti i motivi, dichiarando i ricorsi inammissibili.

Sul vizio procedurale, la Corte ha osservato che il Tribunale del riesame aveva correttamente gestito la situazione. Pur essendo stati depositati tardivamente, il Tribunale aveva concesso una sospensione dell’udienza (ad horas) proprio per permettere ai difensori di esaminare i nuovi atti. I difensori, però, avevano scelto di non avvalersi di questa opportunità, rinunciando di fatto a eccepire la violazione del diritto di difesa.

Sui motivi relativi alla partecipazione mafiosa, la Suprema Corte ha qualificato le censure come generiche. Ha ritenuto logica e non sindacabile la motivazione del Tribunale del riesame, secondo cui le lamentele dei vertici del clan sulla sua gestione “autonoma” non la ponevano fuori dall’associazione, ma, al contrario, ne confermavano l’appartenenza e il ruolo, legittimata ad agire in quel settore anche in virtù della posizione apicale del marito. L’autonomia non era indice di estraneità, ma di intraneità qualificata.

Infine, riguardo alle esigenze cautelari e alla presunzione di pericolosità, la Corte ha confermato la correttezza dell’ordinanza impugnata. Per reati di tale gravità, la legge presume una pericolosità sociale che può essere vinta solo da elementi concreti e specifici. La semplice esistenza di un’attività lavorativa, secondo i giudici, non è di per sé idonea a superare tale presunzione, data la recente commissione dei fatti e le modalità operative che indicavano una spiccata pericolosità.

Le Motivazioni

La decisione della Cassazione si fonda sul principio che il suo giudizio è di legittimità e non di merito. I ricorsi sono stati ritenuti inammissibili perché non hanno evidenziato vizi di legge o illogicità manifeste nella motivazione dell’ordinanza impugnata, ma hanno tentato di sollecitare una nuova e non consentita valutazione dei fatti. La Corte ha ribadito che la gestione “autonoma” di attività illecite può essere espressione di un ruolo consolidato all’interno di un sodalizio criminale. Ha inoltre confermato che la presunzione di pericolosità ex art. 275 c.p.p. per i reati di mafia è un caposaldo del sistema cautelare, superabile solo in circostanze eccezionali che non sono state dimostrate nel caso di specie.

Le Conclusioni

La sentenza consolida due importanti principi. In primo luogo, nel processo penale, i diritti devono essere esercitati attivamente: la rinuncia a utilizzare gli strumenti processuali offerti dal giudice, come una sospensione per esaminare nuovi atti, preclude la possibilità di lamentare una violazione in seguito. In secondo luogo, la lotta alla criminalità organizzata si avvale di strumenti rigorosi come la presunzione di pericolosità, che rende la custodia in carcere la misura cautelare di regola, a meno di prove concrete e decisive che ne dimostrino la non necessità. La pericolosità dell’indagato, in questi contesti, è ritenuta talmente elevata da non poter essere contenuta con misure meno severe.

La presentazione di nuove prove da parte del Pubblico Ministero poco prima dell’udienza di riesame viola sempre il diritto di difesa?
No. Secondo la Corte, se il tribunale concede alla difesa una sospensione per esaminare i nuovi atti e la difesa sceglie di non usufruirne, rinuncia di fatto a far valere l’eventuale lesione del diritto di difesa.

Avere un’attività lavorativa documentata è sufficiente per evitare la custodia in carcere per il reato di associazione mafiosa?
No. La sentenza chiarisce che per i reati di associazione di tipo mafioso vige una presunzione di pericolosità sociale. L’ordinanza impugnata ha specificato che la semplice esistenza di un’attività lavorativa non è di per sé idonea a superare tale presunzione, rendendo la custodia in carcere l’unica misura adeguata a contenere la pericolosità dell’indagata.

Se altri membri di un clan si lamentano della gestione ‘autonoma’ delle estorsioni da parte di un associato, questo può escludere la sua partecipazione all’associazione?
No. La Corte ha ritenuto logica la motivazione del Tribunale del riesame, secondo cui tale ‘autonomia’ non significava agire al di fuori dell’associazione, ma anzi confermava che l’indagata era legittimata a occuparsi di quel settore proprio in virtù della sua piena appartenenza (intraneità) all’organizzazione criminale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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