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Presunzione di adeguatezza e custodia cautelare in carcere

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un imputato contro l’ordinanza che confermava la custodia cautelare in carcere. Nonostante l’assoluzione dall’accusa di associazione mafiosa, la Corte ha ritenuto legittima l’applicazione della presunzione di adeguatezza della misura carceraria, basandosi sulla gravità degli altri reati legati agli stupefacenti e sui numerosi precedenti penali dell’imputato, che indicavano un elevato rischio di reiterazione del reato.

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Pubblicato il 26 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Presunzione di adeguatezza: la Cassazione fa il punto sulla custodia in carcere

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 27883 del 2025, offre importanti chiarimenti sui criteri di applicazione della custodia cautelare in carcere, in particolare riguardo alla cosiddetta presunzione di adeguatezza. La pronuncia analizza il caso di un imputato condannato in primo grado per gravi reati legati al traffico di stupefacenti, al quale era stata negata la sostituzione della detenzione in carcere con gli arresti domiciliari, nonostante fosse stato assolto dalla più grave accusa di associazione mafiosa. Questa decisione sottolinea come la valutazione del giudice debba fondarsi su un’analisi complessiva della personalità dell’imputato e del contesto criminale, andando oltre la singola assoluzione.

I fatti del caso

Il ricorrente, già condannato in primo grado per reati previsti dagli artt. 73 e 74 del Testo Unico Stupefacenti, si era visto rigettare dal Tribunale di Gela la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, anche con braccialetto elettronico. Contro questa decisione, aveva proposto appello al Tribunale della libertà di Caltanissetta, che però aveva confermato il provvedimento iniziale.

La difesa dell’imputato ha quindi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo una violazione di legge e un vizio di motivazione. Il punto centrale del ricorso era che i giudici di merito non avrebbero adeguatamente considerato l’assoluzione per il reato di cui all’art. 416-bis c.p. (associazione di tipo mafioso) e il conseguente venir meno dell’aggravante mafiosa. Secondo il difensore, il Tribunale aveva applicato in modo automatico la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p., senza procedere a una necessaria valutazione del caso concreto.

La decisione della Corte di Cassazione

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato e, di conseguenza, inammissibile. I giudici supremi hanno stabilito che il Tribunale della libertà aveva correttamente motivato la propria decisione, bilanciando tutti gli elementi a disposizione.

Secondo la Corte, il ricorso non si era confrontato efficacemente con le argomentazioni del provvedimento impugnato. Il Tribunale aveva infatti già preso atto dell’esclusione del reato di mafia, ma aveva comunque ritenuto indispensabile mantenere la misura carceraria in virtù della gravità degli altri reati e della persistente presunzione di adeguatezza prevista dalla legge per tali fattispecie.

Le motivazioni: il peso della presunzione di adeguatezza e dei precedenti penali

La Corte ha rafforzato il ragionamento del Tribunale evidenziando due aspetti cruciali. In primo luogo, la valutazione del rischio di reiterazione del reato non può ignorare il passato criminale dell’imputato. Nel caso di specie, il soggetto era già stato condannato in un altro importante procedimento penale (denominato ‘Cerbero’) e presentava numerosi precedenti specifici per stupefacenti, oltre a un precedente per omicidio. Questo quadro, secondo la Corte, rivela una spiccata e persistente ‘inclinazione criminale’.

In secondo luogo, la Cassazione ha ritenuto corretto qualificare come ‘dato neutro’ la buona condotta tenuta dall’imputato durante precedenti periodi di arresti domiciliari o misure alternative in altri procedimenti. Tale comportamento positivo non è stato considerato sufficiente a scalfire il giudizio di pericolosità sociale derivante dalla sua storia criminale complessiva. La decisione conferma che la presunzione di adeguatezza dell’art. 275, comma 3, c.p.p., pur non essendo assoluta, richiede elementi concreti e particolarmente significativi per essere superata, elementi che in questo caso non sono stati ravvisati.

Conclusioni

La sentenza in esame ribadisce un principio fondamentale in materia di misure cautelari: la valutazione del giudice deve essere globale e ancorata alla realtà concreta del caso. L’assoluzione da un’accusa, anche se grave come quella mafiosa, non comporta automaticamente un’attenuazione delle esigenze cautelari se permangono altri reati di allarme sociale e se il profilo criminale dell’imputato indica un rischio concreto e attuale di recidiva. La presunzione di adeguatezza della custodia in carcere, per i reati specificamente indicati dal legislatore, si conferma uno strumento robusto, la cui applicazione è giustificata da una pericolosità sociale desunta da elementi oggettivi come i precedenti penali e la gravità dei fatti contestati.

L’assoluzione da un reato associativo di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.) obbliga il giudice a sostituire la custodia in carcere con una misura meno afflittiva?
No. La Corte ha chiarito che, anche escludendo il reato più grave, la custodia in carcere può essere mantenuta se la gravità degli altri reati (in questo caso, legati al traffico di stupefacenti) e la presunzione di adeguatezza della misura, prevista dall’art. 275, comma 3, c.p.p., lo giustificano.

Come viene valutato il rischio di reiterazione del reato ai fini della misura cautelare?
Il rischio viene valutato considerando la storia criminale complessiva dell’imputato. Nel caso specifico, i numerosi precedenti penali specifici in materia di stupefacenti e per omicidio, uniti al fatto di aver ripreso a delinquere dopo aver scontato altre pene, sono stati considerati indicativi di una forte ‘inclinazione criminale’ che giustifica il mantenimento della misura cautelare più grave.

La buona condotta tenuta durante precedenti periodi di arresti domiciliari ha un peso nella decisione sulla custodia cautelare?
Secondo la Corte, in un contesto di elevata pericolosità sociale, la corretta condotta tenuta in passato durante misure alternative alla detenzione costituisce un ‘dato neutro’. Non è un elemento sufficiente a superare la valutazione negativa basata sulla gravità dei reati, sui precedenti penali e sul concreto pericolo di recidiva.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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