Presunzione di adeguatezza: la Cassazione fa il punto sulla custodia in carcere
Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 27883 del 2025, offre importanti chiarimenti sui criteri di applicazione della custodia cautelare in carcere, in particolare riguardo alla cosiddetta presunzione di adeguatezza. La pronuncia analizza il caso di un imputato condannato in primo grado per gravi reati legati al traffico di stupefacenti, al quale era stata negata la sostituzione della detenzione in carcere con gli arresti domiciliari, nonostante fosse stato assolto dalla più grave accusa di associazione mafiosa. Questa decisione sottolinea come la valutazione del giudice debba fondarsi su un’analisi complessiva della personalità dell’imputato e del contesto criminale, andando oltre la singola assoluzione.
I fatti del caso
Il ricorrente, già condannato in primo grado per reati previsti dagli artt. 73 e 74 del Testo Unico Stupefacenti, si era visto rigettare dal Tribunale di Gela la richiesta di sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, anche con braccialetto elettronico. Contro questa decisione, aveva proposto appello al Tribunale della libertà di Caltanissetta, che però aveva confermato il provvedimento iniziale.
La difesa dell’imputato ha quindi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo una violazione di legge e un vizio di motivazione. Il punto centrale del ricorso era che i giudici di merito non avrebbero adeguatamente considerato l’assoluzione per il reato di cui all’art. 416-bis c.p. (associazione di tipo mafioso) e il conseguente venir meno dell’aggravante mafiosa. Secondo il difensore, il Tribunale aveva applicato in modo automatico la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p., senza procedere a una necessaria valutazione del caso concreto.
La decisione della Corte di Cassazione
La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato e, di conseguenza, inammissibile. I giudici supremi hanno stabilito che il Tribunale della libertà aveva correttamente motivato la propria decisione, bilanciando tutti gli elementi a disposizione.
Secondo la Corte, il ricorso non si era confrontato efficacemente con le argomentazioni del provvedimento impugnato. Il Tribunale aveva infatti già preso atto dell’esclusione del reato di mafia, ma aveva comunque ritenuto indispensabile mantenere la misura carceraria in virtù della gravità degli altri reati e della persistente presunzione di adeguatezza prevista dalla legge per tali fattispecie.
Le motivazioni: il peso della presunzione di adeguatezza e dei precedenti penali
La Corte ha rafforzato il ragionamento del Tribunale evidenziando due aspetti cruciali. In primo luogo, la valutazione del rischio di reiterazione del reato non può ignorare il passato criminale dell’imputato. Nel caso di specie, il soggetto era già stato condannato in un altro importante procedimento penale (denominato ‘Cerbero’) e presentava numerosi precedenti specifici per stupefacenti, oltre a un precedente per omicidio. Questo quadro, secondo la Corte, rivela una spiccata e persistente ‘inclinazione criminale’.
In secondo luogo, la Cassazione ha ritenuto corretto qualificare come ‘dato neutro’ la buona condotta tenuta dall’imputato durante precedenti periodi di arresti domiciliari o misure alternative in altri procedimenti. Tale comportamento positivo non è stato considerato sufficiente a scalfire il giudizio di pericolosità sociale derivante dalla sua storia criminale complessiva. La decisione conferma che la presunzione di adeguatezza dell’art. 275, comma 3, c.p.p., pur non essendo assoluta, richiede elementi concreti e particolarmente significativi per essere superata, elementi che in questo caso non sono stati ravvisati.
Conclusioni
La sentenza in esame ribadisce un principio fondamentale in materia di misure cautelari: la valutazione del giudice deve essere globale e ancorata alla realtà concreta del caso. L’assoluzione da un’accusa, anche se grave come quella mafiosa, non comporta automaticamente un’attenuazione delle esigenze cautelari se permangono altri reati di allarme sociale e se il profilo criminale dell’imputato indica un rischio concreto e attuale di recidiva. La presunzione di adeguatezza della custodia in carcere, per i reati specificamente indicati dal legislatore, si conferma uno strumento robusto, la cui applicazione è giustificata da una pericolosità sociale desunta da elementi oggettivi come i precedenti penali e la gravità dei fatti contestati.
L’assoluzione da un reato associativo di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.) obbliga il giudice a sostituire la custodia in carcere con una misura meno afflittiva?
No. La Corte ha chiarito che, anche escludendo il reato più grave, la custodia in carcere può essere mantenuta se la gravità degli altri reati (in questo caso, legati al traffico di stupefacenti) e la presunzione di adeguatezza della misura, prevista dall’art. 275, comma 3, c.p.p., lo giustificano.
Come viene valutato il rischio di reiterazione del reato ai fini della misura cautelare?
Il rischio viene valutato considerando la storia criminale complessiva dell’imputato. Nel caso specifico, i numerosi precedenti penali specifici in materia di stupefacenti e per omicidio, uniti al fatto di aver ripreso a delinquere dopo aver scontato altre pene, sono stati considerati indicativi di una forte ‘inclinazione criminale’ che giustifica il mantenimento della misura cautelare più grave.
La buona condotta tenuta durante precedenti periodi di arresti domiciliari ha un peso nella decisione sulla custodia cautelare?
Secondo la Corte, in un contesto di elevata pericolosità sociale, la corretta condotta tenuta in passato durante misure alternative alla detenzione costituisce un ‘dato neutro’. Non è un elemento sufficiente a superare la valutazione negativa basata sulla gravità dei reati, sui precedenti penali e sul concreto pericolo di recidiva.
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 27883 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 27883 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 03/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOMECOGNOME nato a Mazzarino il 16/08/1985, avverso l’ordinanza del 29 aprile 2025 del Tribunale della libertà di Caltanissetta; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la ordinanza impugnata il Tribunale di Caltanissetta, rigettando l’appello di NOME COGNOME contro il provvedimento con cui il Tribunale di Gela aveva rigettato la richiesta di sostituire con gli arresti domiciliari corredati da un dispositivo elettronico di controllo, la misura della custodia cautelare in carcere applicatagli in relazione ai reati ex artt. 74 e 73 p.r. 9 ottobre 1990 n. 309, per i quali è stato condannato in primo grado.
Nel ricorso presentato dal difensore di COGNOME si chiede l’annullamento della ordinanza e si deducono violazione di legge e vizio della motivazione nel ravvisare il rischio di reiterazione del reato, trascurando l’assoluzione per il reato ex art. 416bis cod. pen. e il venire meno della aggravante ex art. 416 bis . 1 cod. pen. Si assume che il Tribunale ha considerato come assoluta la presunzione ex art. 275, comma 3, cod. proc pen. mentre è in ogni caso necessaria una valutazione del caso concreto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Il ricorso non si confronta con le argomentazioni espresse dal Tribunale che, decidendo sull’appello, ha rimarcato che già il Tribunale per il riesame aveva escluso il reato ex art. 416bis cod. pen. pen. e, tuttavia, aveva ritenuto di mantenere la custodia cautelare in carcere considerando la gravità degli altri reati e la presunzione di adeguatezza posta dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
Inoltre, ha considerato che COGNOME è ritornato a delinquere pur dopo avere scontato la pena inflittagli nell’ambito del procedimento penale cosiddetto Cerbero e presenta numerosi precedenti penali specifici in materia di stupefacenti, oltre che per omicidio, così rivelando una inclinazione criminale rispetto alla quale la corretta condotta tenuta nel corso degli arresti domiciliari e di misure alternative alla detenzione applicategli in altri procedimenti rimane un dato neutro.
Ne deriva che il ricorso risulta inammissibile con conseguente condanna della ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen ., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 03/07/2025