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Presunzione custodia cautelare: quando non basta?

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, che chiedeva la sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari. Nonostante la sua costituzione volontaria dopo un anno di latitanza e una confessione parziale, i giudici hanno ritenuto non superata la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare, data la gravità dei fatti, il ruolo di capo e organizzatore, e la persistente pericolosità sociale.

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Pubblicato il 9 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Presunzione di adeguatezza della custodia cautelare: la confessione non sempre basta

La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 12464/2024 offre un’importante analisi sulla presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per reati di particolare gravità. Il caso esaminato riguarda un soggetto accusato di essere a capo di un’associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico, il quale, dopo un lungo periodo di latitanza, si era costituito e aveva reso confessione. Nonostante ciò, i giudici hanno ritenuto che la misura detentiva in carcere rimanesse l’unica adeguata, una decisione che merita un’attenta riflessione.

I fatti del caso

Un individuo, indagato per aver organizzato e diretto un’associazione criminale dedita al traffico di stupefacenti, veniva sottoposto a misura cautelare della custodia in carcere. Dopo circa un anno di latitanza, decideva di rientrare nel territorio nazionale e costituirsi, comunicando alle autorità le modalità del suo arrivo. Successivamente, rendeva dichiarazioni confessorie in merito ad alcuni dei reati contestati. La difesa presentava istanza per la sostituzione della misura carceraria con quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, sostenendo che la costituzione e la confessione fossero elementi di novità tali da attenuare le esigenze cautelari, in particolare il pericolo di fuga.

Sia il Giudice per le indagini preliminari che il Tribunale del riesame rigettavano la richiesta. Secondo i giudici di merito, questi nuovi elementi non erano sufficienti a superare il grave quadro indiziario e la persistente pericolosità sociale del soggetto, data la gravità delle accuse, il suo ruolo apicale nell’organizzazione e la sua capacità di mantenere contatti nel mondo criminale.

Il ricorso in Cassazione e la presunzione adeguatezza custodia cautelare

La difesa ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando l’illogicità della motivazione dei giudici di merito. Secondo i legali, il Tribunale avrebbe sottovalutato la volontà dell’imputato di sottoporsi alla giustizia e il valore della sua confessione. Si sosteneva che, per negare gli arresti domiciliari, il Tribunale avrebbe dovuto spiegare concretamente perché l’imputato, dopo essersi costituito e aver confessato, avrebbe dovuto violare gli obblighi di una misura non detentiva. Il nodo centrale del ricorso verteva, quindi, sulla capacità di questi nuovi elementi di vincere la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare prevista dall’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale.

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione del Tribunale. I giudici supremi hanno ritenuto la motivazione dell’ordinanza impugnata adeguata, logica e non contraddittoria. La valutazione del Tribunale, secondo la Corte, si è basata su elementi concreti che delineano un quadro cautelare di eccezionale gravità, che né la costituzione né la confessione parziale hanno potuto scalfire.

Le motivazioni

La Suprema Corte ha evidenziato diversi punti a sostegno della sua decisione. In primo luogo, ha sottolineato che, in presenza di reati come l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, opera una presunzione relativa di adeguatezza della sola custodia in carcere. Per superare tale presunzione, occorrono elementi concreti e inequivoci che escludano ogni ragionevole dubbio sulla sufficienza di una misura meno afflittiva.

Nel caso specifico, la Corte ha osservato che:

1. La latitanza prolungata: Il fatto che l’imputato sia rimasto latitante per un anno dimostra una notevole capacità di sottrarsi alla giustizia.
2. Il ruolo apicale: La posizione di organizzatore e capo dell’associazione, con la capacità di gestire ogni aspetto delle operazioni illecite, denota una “professionalità criminale” e una pericolosità sociale elevate.
3. La confessione parziale: La confessione, essendo limitata ai soli “reati-fine” e non al reato associativo, non è stata ritenuta sufficiente a dimostrare un reale distacco dal contesto criminale. Non ha intaccato il quadro generale della sua partecipazione e del suo ruolo nell’associazione.
4. I contatti criminali: Il Tribunale ha logicamente ritenuto che i contatti con fornitori e acquirenti non fossero stati recisi, fondando così un’elevata probabilità di reiterazione del reato qualora non sottoposto a vincolo custodiale.

In sintesi, la scelta di costituirsi non è stata vista come un elemento inequivocabile di ridotta pericolosità, e la confessione parziale non ha modificato la valutazione complessiva del rischio.

Le conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio fondamentale in materia di misure cautelari per reati di grave allarme sociale: la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare non è una formula vuota, ma un criterio rigoroso che richiede prove contrarie forti e convincenti. La costituzione volontaria e la confessione, pur essendo elementi positivi, devono essere valutati nel contesto complessivo del caso. Se non sono in grado di escludere ragionevoli dubbi sulla persistenza delle esigenze cautelari – in particolare il pericolo di reiterazione del reato – non possono da sole giustificare l’applicazione di una misura meno grave come gli arresti domiciliari, anche con braccialetto elettronico. La decisione sottolinea che la prognosi di pericolosità deve considerare non solo i fatti specifici, ma anche il grado di inserimento dell’individuo nei circuiti criminali e la sua professionalità nel delinquere.

Perché la decisione di costituirsi dopo un anno di latitanza non è stata considerata sufficiente per ottenere gli arresti domiciliari?
La Corte ha ritenuto che la scelta di costituirsi non fornisse elementi inequivocabili per escludere il pericolo di fuga o di reiterazione del reato. La prolungata latitanza, al contrario, aveva già dimostrato una notevole capacità di sottrarsi alla giustizia, e la costituzione non eliminava la valutazione complessiva della pericolosità sociale del soggetto, legata al suo ruolo di capo di un’associazione criminale.

Per quale motivo la confessione dell’imputato non ha avuto il peso sperato dalla difesa?
La confessione è stata considerata di valore limitato perché riguardava solo i cosiddetti ‘reati-fine’ (le singole violazioni in materia di stupefacenti) e non il reato associativo. Secondo i giudici, questo non dimostrava un reale distacco dal sodalizio criminale e non modificava il quadro cautelare di assoluto rilievo derivante dal suo ruolo di organizzatore e dalla sistematicità delle condotte illecite.

Cosa significa che per questo tipo di reato opera una ‘presunzione di adeguatezza’ della custodia in carcere?
Significa che, per legge (art. 275, comma 3, c.p.p.), quando si procede per reati di particolare gravità come l’associazione finalizzata al traffico di droga, si presume che la custodia in carcere sia l’unica misura idonea a prevenire i rischi di fuga, inquinamento delle prove o commissione di altri reati. Per ottenere una misura meno afflittiva, la difesa deve fornire elementi di prova così forti da superare questa presunzione, eliminando ogni ragionevole dubbio sulla sufficienza di misure alternative.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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