Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 23930 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 23930 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME, nata a Sassocorvaro il DATA_NASCITA,
avverso la sentenza del 23-01-2023 della Corte di appello di Ancona;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
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udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della sentenza; udito l’AVV_NOTAIO, difensore di fiducia dell’imputata, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
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RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 16 giugno 2020, il Tribunale di Pesaro, per quanto in questa sede rileva, condannava NOME COGNOME alla pena, condizionalmente sospesa, di anni 2 di reclusione, in quanto ritenuta colpevole del reato di cui all’art. 8 del d. Igs. n. 74 del 2000 (capo C), nonchè di una pluralità di episodi del reato di cui all’art. 2 del d. Igs. n. 74 del 2000 (capi A, F, G e il capo contestato nel procedimento riunito n. 248/2018 R.G.T.). Con la medesima sentenza, veniva altresì disposta la confisca del profitto dei reati di cui ai capi A ed F.
Con sentenza del 23 gennaio 2023, la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti della COGNOME in ordine ai reati di cui ai capi A, C, F e G, perché estinti per prescrizione e, per l’effetto, in ordine al residuo reato di cui al procedimento riunito n. 248/2018 R.G.T., rideterminava la pena a suo carico in anni 1 di reclusione, confermando nel resto la decisione del Tribunale.
Avverso la sentenza della Corte di appello marchigiana, la COGNOME, tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando cinque motivi.
Con il primo, la difesa contesta la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen., osservando che il richiamo della pronuncia impugnata all’imposta evasa è inconferente, perché l’ammontare dell’irpef asseritamente evasa tramite la condotta contestata non solo non è indicato nel capo di imputazione, che riporta solo quello delle quote di ammortamento, ma non è stato neanche accertato nella sua precisa entità.
Oltre a evocare un dato numerico rimasto ignoto, la Corte di appello ha altresì rimarcato, in senso ostativo all’applicazione dell’art. 131 bis cod. pen., un “contesto di illegalità” che non trova alcun riscontro negli esiti del giudizio, conclusosi con la declaratoria di estinzione di quasi tutti i reati, precisandosi al riguardo che l’affermazione di un “contesto di illegalità” e la conseguente esclusione dell’occasionalità della condotta richiedono un substrato cognitivo ben più pregnante rispetto a quello offerto da una situazione di mera non evidenza della prova di innocenza nell’ottica dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen.
Con il secondo motivo, si contesta il giudizio sulla sussistenza del reato di cui al procedimento penale riunito, rilevandosi che la Corte territoriale ha omesso di confrontarsi con le argomentazioni difensive, volte a sottolineare il carattere non fittizio delle operazioni sottese alle fatture incriminate, essendo stati spiegati nell’appello i rapporti commerciali tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE. Parimenti leciti dovevano ritenersi i rapporti tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE e tra quest’ultima (e la L.G.A.) e la società RAGIONE_SOCIALE, come del resto accertato dalla Commissione tributaria provinciale di Pesaro nel 2017.
Ora, se l’intervenuta prescrizione ha esonerato la Corte di appello dal dovere di esaminare le censure relative alla sussistenza dei reati di cui ai capi A, C, F e G, altrettanto non può dirsi rispetto al capo di imputazione del procedimento riunito, rispetto al quale i giudici di appello, se avessero preso in considerazione i rilievi difensivi, sarebbero potuti pervenire all’assoluzione piena dell’imputata.
Con il terzo motivo, è stata dedotta l’inosservanza dell’art. 2 del d. Igs. n. 74 del 2000, evidenziandosi che la Corte di appello non ha operato alcun distinguo tra le diverse vicende economiche descritte nella contestazione, che fa riferimento alle fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALE.G.A. da tre distinte imprese, ossia la RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE. Ora, limitatamente alle fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALE, la COGNOME è stata assolta dal primo giudice, perché il fatto non sussiste, per cui la conferma della condanna concerne l’utilizzo da parte della L.G.A. delle fatture emesse dalle altre due compagini.
Quanto alle fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALE, la difesa ne rimarca la irrilevanza penale, perché riferite a operazioni solo soggettivamente inesistenti, per cui, vertendosi in materia di Irpef, trova applicazione il principio elaborato da questa Corte, secondo cui il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti è integrato, con riguardo alle imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva, ovvero quella relativa alla diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti, mentre, con riguardo all’Iva, esso comprende anche la inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura. Il diverso orientamento non è condivisibile, perché determina una contraddizione tra due settori dell’ordinamento giuridico, non potendosi punire in chiave penale una condotta che risulta invece del tutto lecita per la legislazione tributaria.
Di qui la richiesta, subordinata al mancato accoglimento del secondo motivo, di assoluzione della COGNOME rispetto alle fatture emesse dalla RAGIONE_SOCIALE.
Con il quarto motivo, oggetto di doglianza sono l’inosservanza degli art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000 e 133 cod. pen. e il difetto di motivazione rispetto alla determinazione della durata dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, non avendo la Corte di appello dato risposta alla censura difensiva con cui era stata contestata la scelta del primo giudice di parametrare la durata delle pene accessorie temporanee alla misura della pena principale, anziché ai minimi edittali; né può ritenersi che la doglianza sia stata assorbita dalla rideterminazione della pena principale, perché la stessa, rispetto alla pena accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, risulta pur sempre pari al doppio del minimo edittale di sei mesi.
Il quinto motivo, infine, è dedicato alla statuizione della confisca, rispetto alla quale si evidenzia innanzitutto che la conferma della confisca per equivalente risulta illegittima, in quanto applicata ai sensi dell’art. 578 bis cod. proc. pen. in
relazione a fatti posti in essere il 30 settembre 2011, ossia prima dell’entrata in vigore della predetta norma processuale. La Corte di appello, quindi, avrebbe potuto limitare la conferma alla sola confisca diretta, ossia a quella afferente il capo F, per l’importo di 10.000 euro, ma ciò sarebbe potuto avvenire solo previo accertamento degli elementi costitutivi del reato, accertamento che nel caso di specie non vi è stato, stante il difetto di motivazione della sentenza impugnata sul punto, per cui anche la conferma della confisca diretta sarebbe illegittima.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Le doglianze in punto di responsabilità e di diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen. sono infondate, mentre sono meritevoli di accoglimento, nei limiti che saranno di seguito esposti, le censure in punto di confisca e di durata dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
Iniziando per ragioni di priorità logica dal secondo e dal terzo motivo di ricorso, suscettibili di trattazione unitaria perché tra loro sovrapponibili, occorre evidenziare che la conferma del giudizio di colpevolezza dell’imputato rispetto al residuo capo contestato nel procedimento riunito n. 248/2018 R.G.T. (avente ad oggetto il reato di cui all’art. 2 del d. Igs. n. 74 del 2000 commesso in data 1° ottobre 2013), non presenta vizi di legittimità, dovendosi innanzitutto rilevare che la Corte di appello non si è limitata a recepire le argomentazioni del primo giudice, ma, sia pure in forma molto sintetica, ha sviluppato considerazioni autonome, non mancando di confrontarsi con le principali obiezioni difensive.
In particolare, i giudici di secondo grado, nel premettere che l’atto di appello aveva censurato solo il giudizio sull’elemento soggettivo, non essendo dunque controversa la natura fraudolenta della dichiarazione fiscale riferita all’anno 2012, hanno evidenziato (pag. 4 e ss. della sentenza impugnata) che la COGNOME non poteva qualificarsi come mera “testa di legno”, ovvero quale soggetto del tutto estraneo alla gestione della società e privo delle pur minime conoscenza di gestione della società, essendo la ricorrente figlia di NOME COGNOME che, anche nel corso del dibattimento, ha illustrato i meccanismi e le finalità della creazione di società, tra cui la ditta RAGIONE_SOCIALE di cui l’imputata era rappresentante legale, nate per fronteggiare le sue difficoltà economiche e personali, avendo la stessa COGNOME ammesso in dibattimento che la ditta è nata su richiesta del padre, presso il cui studio di consulente del lavoro la ricorrente lavorava, per cui ella, oltre a sapere che dietro l’impresa da lei amministrata vi era il padre, che non poteva comparire formalmente, era anche perfettamente a conoscenza delle responsabilità connesse all’assunzione della carica di legale rappresentante, peraltro di una società risultata priva di beni, di dipendenti e di attrezzature.
Dunque, ai fini dell’ascrivibilità alla COGNOME dell’illecito fiscale oggetto imputazione, è stato ragionevolmente ritenuto dirimente dai giudici di merito, quantomeno nell’ottica del dolo eventuale, il dato dell’accettazione volontaria e consapevole della carica di legale rappresentante della società, a beneficio della quale è stata presentata la dichiarazione fraudolenta per cui si procede.
Sul punto deve in ogni caso ribadirsi in questa sede il principio di diritto elaborato da questa Corte (cfr. Sez. Fer., n. 42897 del 09/08/2018, Rv. 273939), in forza del quale il prestanome, accettando la carica, accetta anche i rischi da essa derivanti, per cui egli risponde a titolo di dolo eventuale, esponendosi alle conseguenze dell’operato dei gestori reali e dunque alla possibilità che questi pongano in essere, attraverso il paravento loro prestato con la carica ricoperta, attività non legali, ciò in base alla posizione di garanzia di cui all’art. 2392 cod. civ., in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale e impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi.
1.1. Resta solo da precisare che, circa la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, pur essendo stata carente la disamina compiuta dalla Corte territoriale, tuttavia le censure difensive non risultano in ogni caso fondate, ove si consideri, da un lato, che il secondo motivo di ricorso è affidato a rilievi essenzialmente fattuali che non si confrontano adeguatamente con la puntuale ricostruzione operata dal primo giudice (pag. 13 ss. della sentenza di primo grado) circa l’inesistenza delle operazioni sottese alle fatture emesse dalla società RAGIONE_SOCIALE, inesistenza desunta dagli esiti degli approfonditi accertamenti investigativi svolti dalla Guardia RAGIONE_SOCIALE Finanza di Pesaro e di Rimini, cot , mentre, dall’altro lato, non può sottacersi chell terzo motivo di ricorso, si è introdotto un tema nuovo, non deducibile in questa sede, ossia la distinzione tra inesistenza oggettiva e soggettiva rispetto alle operazioni oggetto delle fatture indicate nella dichiarazione fraudolenta. Il tema in esame è comunque non dirimente ai fini della sussistenza del reato contestato, avendo questa Corte precisato, con affermazione condivisa dal Collegio, che il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, sia in quella di inesistenza soggettiva, ossia quando l’operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nel caso di sovrafatturazione qualitativa, nel quale la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti, in quanto oggetto di repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale (cfr. in termini Sez. 3, n. 1998 del 15/11/2019, dep. 2020, Rv. 278378, Sez. 3, n. 4236 del 18/10/2018, dep. 2019, Rv. 275692 e Sez. 3, n. 27392 del 27/04/2012, Rv. 253055).
Di qui l’infondatezza delle censure difensive in punto di responsabilità.
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Parimenti infondato è il primo motivo di ricorso/riferimento al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
Al riguardo, occorre innanzitutto richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 6, n. 55107 dell’08/11/2018, Rv. 274647 e Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Rv. 273678), secondo cui, ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità dell’offesa deve essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133 comma primo cod. pen., ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente anche la sola indicazione di quelli ritenuti rilevanti.
Tanto premesso, deve osservarsi che la motivazione adottata sul punto dalla Corte di appello nel complesso resiste alle censure difensive, atteso che se è vero che è rimasto oggettivamente generico il richiamo della sentenza impugnata all’ “importo comunque non irrisorio di imposta evasa”, importo invero non specificato e comunque non chiaramente indicato neanche nell’imputazione, è altrettanto vero che ben più pregnante deve considerarsi l’ulteriore precisazione che la condotta illecita per cui si è proceduto si è inserita in un più ampio e perdurante contesto di illegalità che non consente di qualificare come occasionale l’episodio di cui la ricorrente è stata ritenuta colpevole.
Tale affermazione, pur se evidentemente riferita agli altri reati ascritti alla COGNOME per i quali in secondo grado è intervenuta la declaratoria di estinzione per prescrizione, deve essere ritenuta comunque pertinente, avendo la giurisprudenza di legittimità sottolineato (cfr. Sez. 3, n. 32857 del 12/07/2022, Rv. 283486) che, in tema di non punibilità per particolare tenuità del fatto, ai fini della valutazione del presupposto ostativo del comportamento abituale, ai sensi dell’art. 131 bis, comma terzo, cod. pen., rilevano i reati della stessa indole dichiarati prescritti nell’ambito dello stesso procedimento, posto che l’estinzione del reato per prescrizione non elide ogni effetto penale della sentenza.
Venendo al quarto motivo, se ne deve invece rilevare la fondatezza. In effetti, con l’ultimo motivo dell’atto di appello, la difesa dell’imputata aveva sollecitato la diminuzione della durata delle pene accessorie ex art. 12 del d. Igs. n. 74 del 2000, ma, rispetto a tale richiesta, la Corte di appello è rimasta silente. Ora, il Tribunale aveva parametrato la durata delle pene accessorie temporanee a quella della pena principale, fissata in anni 2, per cui, in assenza di espresse statuizioni sul punto, deve ritenersi che la durata delle pene accessorie temporanee sia stata implicitamente rifissata in anni 1, ossia in misura corrispondente all’entità della pena principale, per come rideterminata dalla Corte di appello a seguito dell’estinzione per prescrizione dei capi A, C, F e G.
Se la nuova durata corrisponde al minimo delle pene accessorie dell’incapacità di contrattare con la RAGIONE_SOCIALE, dell’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e
assistenza in materia tributaria in anni uno, nonché dell’interdizione dai pubblici uffici dalle, con la conseguenza che alcuna pronuncia più favorevole sarebbe invocabile dalla difesa, ciò non vale anche per l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, la cui durata minima è fissata in 6 mesi. Ne consegue che, al fine di colmare la lacuna motivazionale sul punto, a fronte di una specifica richiesta difensiva, la sentenza impugnata va annullata, con rinvio alla Corte di appello di Perugia, relativamente alla durata della pena accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
4. Residua il quinto motivo di ricorso, riferito alla confisca.
In proposito, va premesso che il primo giudice aveva disposto la confisca del profitto rispetto ai capi A ed F, senza tuttavia specificare la tipologia della confisca applicata, mentre la Corte di appello, nel dichiarare estinti i reati di cui ai due predetti capi, nulla ha statuito e motivato in punto di confisca.
Ciò posto, occorre richiamare la sentenza n. 4145 del 29/09/2022, dep. 2023, Rv. 284209, ricorrente COGNOME, con cui le Sezioni Unite hanno affermato che la disposizione di cui all’art. 578 bis cod. proc. pen., introdotta dall’art. 6, comma 4, del d. Igs. n. 21 del 2018, ha, con riguardo alla confisca per equivalente e alle forme di confisca che presentino comunque una componente sanzionatoria, natura anche sostanziale e, pertanto, è inapplicabile in relazione ai fatti posti in essere prima della sua entrata in vigore. Si è infatti chiarito che la confisca per equivalente, consistendo in una “forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti”, assume un carattere preminentemente sanzionatorio, aggredendo beni che, pur nella disponibilità, anche per interposta persona, dell’autore del reato, sono individuati, senza alcun nesso di pertinenzialità col fatto criminoso, in base alla loro corrispondenza con i benefici che il responsabile ha ottenuto o, in determinati casi, fatto indebitamente ottenere ad altri dalla commissione dell’illecito. In altri termini, quando l’ordinamento, nell’impossibilità di apprendere coattivamente, in via diretta, il provento dell’illecito, consente di confiscare, peraltro obbligatoriamente, beni, sia pure del tutto leciti, di valore corrispondente al vantaggio illecito conseguito, ma del tutto scollegati dal reato, la confisca del provento del reato assume una funzione pienamente sanzionatoria, per cui, siccome gli istituti che rientrano nella nozione di sanzione penale devono essere governati necessariamente dagli statuti di garanzia predisposti dall’ordinamento interno (art. 25, secondo comma, Cost.) e da quello convenzionale (art. 7 CEDU), è la funzione sanzionatoria della confisca per equivalente che assorbe quella ripristinatoria e/o le eventuali altre concorrenti funzioni non penali, cui la confisca di valore si atteggi, e non viceversa.
Ora, premesso che la previsione di cui all’art. 578 bis cod. proc. pen. si applica anche alla confisca prevista dall’art. 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000, essendo stato già precisato in altri due interventi delle Sezioni Unite (sentenze n. 13539 del
30/01/2020, ricorrente COGNOME e n. 6141 del 25/10/2018, dep. 2019, ricorrente COGNOME) che alla norma introdotta dal legislatore del 2018 deve riconoscersi una valenza di carattere AVV_NOTAIO, capace di ricomprendere, siccome formulato senza ulteriori specificazioni, anche le confische disposte da fonti normative poste al di fuori del codice penale, la richiamata sentenza n. 4145 del 2022 ha osservato che la disposizione di cui all’art. 578 bis cod. proc. pen., ha natura mista (processuale e sostanziale), dovendosi ricomprende nel concetto di “punizione” e di “legge penale” tutte le norme che, come appunto quella sulla confisca di valore, incidono negativamente sull’an, sul quantum e sul quomodo della punibilità. Di qui l’affermazione delle Sezioni Unite secondo cui l’art. 578 bis cod. proc. pen., consentendo al giudice dell’impugnazione, allorquando è stata ordinata la confisca per equivalente, di decidere, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato, non sia una norma meramente ricognitiva di un principio esistente nell’ordinamento, sebbene non codificato, ma sia una norma che ha natura costitutiva in parte qua, perché attributiva del potere, in precedenza precluso al giudice, di mantenere in vita una pena (la confisca per equivalente) che, anteriormente all’introduzione dell’art. 578 bis, non poteva, secondo il diritto vivente, in alcun modo essere applicata nel caso di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione. Dunque, la natura pienamente costitutiva della disposizione di cui all’art. 578 bis cod. proc. pen. esclude che la confisca di valore possa essere retroattivamente applicata a fatti commessi quando, nel caso di estinzione del reato, tale misura non era in alcun modo adottabile nei confronti dell’autore del reato, quand’anche ne fosse stata accertata la responsabilità penale.
4.1. Alla luce di tali coordinate interpretative, si impone la necessità di stabilire in sede di merito, anche avuto riguardo al tenore dell’eventuale provvedimento cautelare reale che non è nella disponibilità di questa Corte, cosa sia stato oggetto di sequestro e soprattutto se e in che misura il provvedimento ablativo sia stato disposto in forma diretta o per equivalente, presupponendo la relativa qualificazione giuridica il preventivo e rigoroso accertamento circa la natura dei beni sequestrati in rapporto al reato per cui vi è stata condanna.
Ove, infatti, si fosse in presenza di un sequestro in forma diretta, la confisca del denaro sarebbe possibile anche in caso di declaratoria di estinzione del reato presupposto per prescrizione, avendo questa Corte precisato (cfr. ex multis Sez. 2, n. 17354 del 08/03/2023, Rv. 284529) che la confisca “diretta” è qualificabile come misura di sicurezza e può, pertanto, essere applicata anche in caso di prescrizione del reato, nel caso in cui vi sia stata condanna in primo grado e si verta in ipotesi di confisca obbligatoria, secondo gli insegnamenti delle sentenze delle Sezioni Unite n. 31617 del 26/06/2015, Rv. 264435, ricorrente COGNOME e n.
10561 del 30/01/2014, Rv. 258646 ricorrente NOME, per cui la natura della confisca deve essere accertata in maniera attenta, scaturendo da tal qualificazione giuridica rilevanti consegueltsul piano operativo.
Se infatti per la confisca per equivalente vale la preclusione circa la richia inapplicabilità ai fatti pregressi dell’art. 578 bis cod. proc. pen., viceversa, nell’ottica della confisca diretta, trova applicazione il principio di diritto se cui la confisca del denaro costituente profitto o prezzo del reato, comunqu rinvenuto nel patrimonio dell’autore della condotta, e che rappresenti l’effett accrescimento patrimoniale monetario conseguito, va sempre qualificata come diretta, e non per equivalente, in considerazione della natura fungibile del ben con la conseguenza che non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita della specifica somma di denaro oggetto di apprensione (cfr sentenza delle Sezioni Unite n. 42415 del 27/05/2021, Rv. 282037).
4.2. Da ciò consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente alla confisca per equivalente relativa ai reati di cu capi A) e F) dell’imputazione e con rinvio ad altra Sezione della Corte di appel di Perugia relativamente alla confisca in via diretta per gli stessi reati, con che, al di là dell’intervenuta declaratoria di estinzione delle rispettive fatti presuppone la conferma del giudizio sulla sussistenza dei reati sottostanti.
4.3. Nel resto, il ricorso della COGNOME deve essere invece disatteso, da conseguendo l’irrevocabilità del giudizio di colpevolezza dell’imputata in ordin alla residua fattispecie di cui al capo contestato nel procedimento riunito 248/2018 R.G.T., dovendosi rilevare che, avuto riguardo alle sospensioni maturate nel corso del giudizio e alla previsione di cui all’art. 17, comma 1 bis, del d. Igs. n. 74 del 2000, la prescrizione per tale fattispecie matura il 4 m 2024, ossia in epoca successiva all’emissione dell’odierna pronuncia.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente alla confisca per equivalente relativa ai reati di cui ai capi A) e F) dell’imputazione e con rinvi altra Sezione della Corte di appello di Perugia relativamente alla confisca in v diretta per gli stessi reati e alla durata della pena accessoria dell’interd dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 21/02/2024