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Prestanome e bancarotta: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un amministratore condannato per bancarotta fraudolenta. La difesa basata sul ruolo di mero prestanome e bancarotta è stata respinta perché le prove a sostegno non erano state specificamente sollevate nei gradi di merito, in applicazione del principio che vieta di introdurre nuove questioni in sede di legittimità.

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Pubblicato il 25 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Prestanome e Bancarotta: Responsabilità Penale Anche per l’Amministratore di Fatto

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 38597/2024, ha ribadito principi fondamentali in materia di prestanome e bancarotta, chiarendo i limiti della difesa basata sul ruolo di mero amministratore formale e le rigide regole processuali che governano i ricorsi. La decisione sottolinea come la responsabilità penale per la distrazione di fondi societari non possa essere elusa con una semplice dichiarazione di estraneità, soprattutto quando le questioni di fatto non vengono adeguatamente sollevate nei gradi di merito.

I Fatti del Processo

Il caso riguarda l’amministratore unico di una società di ristorazione, dichiarata fallita nel 2014. L’uomo era stato condannato in primo grado dal Tribunale di Padova per due distinti reati:

1. Bancarotta fraudolenta patrimoniale: per aver distratto, tramite prelievi in contanti, una somma complessiva di oltre 220.000 euro negli anni 2011 e 2012.
2. Bancarotta semplice: per aver aggravato il dissesto della società omettendo il deposito dei bilanci, impedendo così di rilevare il patrimonio netto negativo e di adottare le necessarie misure correttive.

La Corte d’Appello di Venezia aveva parzialmente riformato la sentenza, dichiarando prescritto il reato di bancarotta semplice, ma confermando la condanna per la bancarotta fraudolenta, rideterminando la pena in un anno e quattro mesi di reclusione.

Il Ricorso in Cassazione e la Difesa del Prestanome

L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, basando la sua difesa su un’unica tesi: egli sarebbe stato un semplice prestanome, un amministratore solo sulla carta, mentre la gestione effettiva della società e le operazioni di prelievo contestate sarebbero state compiute da un altro soggetto. A sostegno di questa tesi, il ricorrente ha lamentato che i giudici di merito non avessero adeguatamente considerato alcuni documenti, come un verbale dell’INPS e un ricorso di due dipendenti, dai quali sarebbe emerso il nome del presunto gestore di fatto.

Le Motivazioni della Cassazione sul Ruolo del Prestanome e Bancarotta

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, basando la propria decisione su due pilastri giuridici di fondamentale importanza, specialmente in casi di prestanome e bancarotta.

Il Divieto del “Novum” nel Giudizio di Legittimità

Il punto centrale della sentenza è il richiamo al consolidato principio del “divieto del novum”. La Corte ha spiegato che nel giudizio di Cassazione non possono essere introdotte per la prima volta questioni di fatto o prove che non siano state specificamente sottoposte all’esame del giudice d’appello. Le prove documentali invocate dal ricorrente (il verbale INPS e il ricorso dei dipendenti) non erano state specificamente menzionate nell’atto d’appello, il quale si limitava a un generico riferimento alla relazione del curatore fallimentare e ai suoi allegati.

Questo richiamo generico è stato ritenuto insufficiente a investire la Corte d’Appello della questione specifica. Di conseguenza, i giudici di secondo grado non potevano essere accusati di aver omesso la motivazione su punti che non erano stati loro formalmente sottoposti. Presentare tali questioni per la prima volta in Cassazione costituisce una violazione delle regole processuali e porta all’inammissibilità del ricorso.

La Debolezza della Difesa del Prestanome

La Corte ha inoltre ritenuto la difesa del prestanome manifestamente infondata. Anche la mera dichiarazione resa dall’imputato al curatore fallimentare (“nell’attività sono subentrate delle persone che non conosco”) è stata giudicata assolutamente generica e inidonea a scalfire gli elementi probatori a suo carico. Tali elementi includevano:

* La sua qualifica formale di amministratore unico.
* La titolarità del 95% delle quote societarie.
* Le risultanze contabili che attestavano i prelievi di denaro.

Secondo la Corte, una semplice dichiarazione di estraneità non può superare prove così concrete senza essere supportata da elementi altrettanto solidi. Anzi, l’uso del verbo “subentrare” da parte dell’imputato stesso implicava, logicamente, un suo precedente esercizio dell’attività gestoria.

Conclusioni

La sentenza ribadisce due lezioni cruciali. In primo luogo, dal punto di vista processuale, ogni elemento di fatto e ogni prova a sostegno della propria difesa deve essere chiaramente e specificamente articolato nei gradi di merito (primo grado e appello). L’imprecisione e la genericità degli atti di impugnazione precludono la possibilità di sollevare tali questioni in Cassazione. In secondo luogo, sul piano sostanziale, la tesi del prestanome per sfuggire a una condanna per bancarotta fraudolenta è una strada in salita. La responsabilità penale è legata alla carica formale ricoperta, a meno che non si fornisca una prova rigorosa e convincente del fatto che la gestione fosse interamente ed effettivamente nelle mani di terzi, smentendo i dati formali e contabili.

Un amministratore può difendersi da un’accusa di bancarotta fraudolenta sostenendo di essere solo un prestanome?
Sì, ma è una difesa molto difficile da provare. La Corte di Cassazione chiarisce che non basta una semplice dichiarazione di estraneità alla gestione. Questa affermazione deve essere supportata da prove concrete e robuste, in grado di smentire dati oggettivi come la carica formale di amministratore, la proprietà delle quote societarie e le risultanze contabili che attribuiscono determinate operazioni (come i prelievi di denaro) all’imputato.

È possibile presentare nuove prove o sollevare nuove questioni di fatto per la prima volta in Corte di Cassazione?
No. La sentenza riafferma il rigoroso principio del “divieto del novum”, secondo cui è preclusa la possibilità di introdurre nel giudizio di legittimità questioni di fatto o elementi di prova che non siano stati specificamente sottoposti all’esame del giudice d’appello. Tutte le argomentazioni fattuali devono essere state ritualmente sollevate nei precedenti gradi di giudizio.

Cosa accade se un atto di appello è formulato in modo troppo generico?
Un atto di appello generico rischia di rendere inammissibili le censure sollevate. Come specificato nella sentenza, un richiamo generale a documenti complessi (come la relazione di un curatore fallimentare e i suoi numerosi allegati) non è sufficiente. L’atto di impugnazione deve indicare in modo specifico le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sostengono ogni richiesta, altrimenti le questioni non si considerano correttamente devolute al giudice superiore.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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