Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 38597 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 38597 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a VICENZA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 18/09/2023 della CORTE APPELLO di VENEZIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore dell’imputato, AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATI -0
NOME COGNOME, amministratore unico della società “RAGIONE_SOCIALE” dichiarata fallita il 5/2/2014, è stato condannato dal Tribunale di Padova, con sentenza del 12/10/2016, a seguito di giudizio abbreviato, per i seguenti delitti: “1) art. 216, co. 1 n. 1) e 223, co. 1, R.D. 267/1942 perché, nella veste di amministratore unico dalla data della costituzione (19/1/2011) fino al fallimento
della società RAGIONE_SOCIALE, con sede in Padova, INDIRIZZO, dichiarata fallita dal Tribunale di Padova con sentenza depositata il 5/2/2014, distraeva mediante prelevamenti di contanti la somma complessiva di C 97.900,00 nell’anno 2011 e la somma complessiva di C 124.900,00 nell’anno 2012; 2) art. 217 e 224 n. 2) R.D. 267/1942 perché, nella veste di amministratore unico dalla data della costituzione (19/1/2011) fino al fallimento della società RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita dal Tribunale di Padova con sentenza depositata il 5/2/2014, concorreva ad aggravare il dissesto della società, non provvedendo al deposito dei bilanci al 31/12/2011 e al 31/12/2012 e così impedendo la rilevazione del fatto che il patrimonio netto era negativo per C 134.956,75 al 31/12/2011 e per C 275.454,14 al 31/12/2012 ed omettendo conseguentemente di adottare i provvedimenti previsti per il caso di riduzione del capitale sociale per perdite il quale, già alla data del 17/1/2011, era stato eroso dai prelevamenti in denaro di cui al capo che precede. In Padova, il 5/2/2014. Con l’aggravante di cui all’art. 219, co. 2 n. 1) R.D. 267/1942 per aver commesso più farti di bancarotta. Con la recidiva reiterata”.
La Corte d’appello di Venezia, parzialmente riformando la sentenza di primo grado, con sentenza n. 3383 del 18/9/2023 ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione per il reato di bancarotta semplice (capo 2), rideternninando la pena per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale (capo 1) in 1 anno e 4 mesi di reclusione e relative pene accessorie.
Ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, chiedendo annullarsi con rinvio la sentenza impugnata, eccependo, in estrema sintesi, di essere un mero prestanome e che non fosse stato lui a compiere le distrazioni di cui si tratta.
3.1. Col primo motivo lamenta la contraddittorietà della motivazione rispetto alla relazione ex articolo 33 r.d. 267/1942, pagina 9, nella quale si assume fosse affermato che le funzioni gestorie, in seno alla fallita RAGIONE_SOCIALE, non fossero esercitate dal COGNOME, come da questi dichiarato al curatore (e riportato nella sentenza d’appello).
3.2. Col secondo motivo lamenta la mancanza di motivazione rispetto a documenti ritenuti decisivi in senso favorevole all’imputato (l’allegato 7 della detta relazione, e dunque il verbale dell’RAGIONE_SOCIALE del 24/2/2014, e il ricorso ex articolo 414 cod. proc. civ. proposto da due dipendenti della fallita), dai quali (come si assume sarebbe già stato rilevato dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Padova) si desumerebbe che il gestore effettivo della fallita fosse stato indicato in tale COGNOME NOME.
Il ricorrente assume, a sostegno della doglianza, che inizialmente il Giudice dell’udienza preliminare si fosse limitato «a dare atto della circostanza che “i due lavoratori istanti del fallimento avevano nominato come gestore delle pizzerie un altro soggetto, tale NOME COGNOME“, senza tuttavia “valorizzarla” ai fini della decisione» e basando la condanna sulla constatazione dell’iscrizione, nelle schede contabili della fallita, di ripetuti prelievi di contanti da parte dell’amministrato unico e socio al 95%, NOME.
In definitiva, il formale ruolo di amministratore dell’imputato (che non poteva che risultare come colui che aveva eseguito i prelievi: sicché il dato sarebbe stato illogicamente valorizzato dai giudici di merito) non avrebbe potuto, di per sé, fondare l’attribuzione della responsabilità per i prelevamenti in capo al medesimo, se non con una inammissibile inversione dell’onere della prova (in capo a un amministratore apparente).
Il Pubblico Ministero ha concluso per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Va premesso che, per consolidato orientamento della Suprema Corte, ed in virtù del combinato disposto di cui agli articoli 606, comma 3, e 609, comma 2, cod. proc. pen.: «in Cassazione trova applicazione la regola del divieto del “novum”: per effetto di tale regola, non può essere dedotto per la prima volta in sede di legittimità un vizio di motivazione della sentenza impugnata afferente questioni di merito in precedenza non espressamente devolute alla disamina del giudice d’appello, in ordine al quale si rendano necessari accertamenti di fatto dei quali non sia stato provocato ritualmente l’esame o il nuovo esame nel corso del giudizio di appello (Sez. 1, n. 2065 del 24/02/1989, dep. 1990, Rv. 183330 – 01). In particolare, secondo Sez. 4, n. 7985 del 18/05/1994, Rv. 199216 – 01, sussiste violazione del divieto di “novum” nel giudizio di legittimità quando siano per la prima volta prospettate in detta sede questioni coinvolgenti valutazioni in fatto, mai prima sollevate, ovvero siano dedotti motivi di censura attinenti capi e/o punti della decisione ormai intangibili per non essere stati investiti da tempestiva doglianza nella fase di merito e, perciò, assistiti dalla presunzione di conformità al diritto. Il principio è stato anche più recentemente ribadito da Sez. 3, n. 33815 del 17/09/2020, Rv. 280045 – 01, e da Sez. 3, n. 35494 del 17/06/2021, Rv. 281852 – 01, per la quale, in sede di ricorso per cassazione (nella specie, avverso
ordinanza in materia di misure cautelari reali) non sono proponibili questioni fattuali mai prima sollevate, salvo che riguardino argomenti “nuovi”, enunciati “a sorpresa” dal provvedimento impugnato in funzione risolutiva, i quali, per l’assoluta imprevedibilità della loro rilevanza, siano da qualificarsi come questioni “che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello”, come tali deducibili per la prima volta in sede di legittimità ai sensi dell’art. 609 c.p.p., comma 2» (così Sez. 2 7818 del 02/12/2021, dep. 2022, COGNOME, non massimata; confronta, negli stessi termini, tra e tante, Sez. 5, Sentenza n. 11099 del 29/01/2015 Rv. 263271, Sez. 4, Sentenza n. 10611 del 04/12/2012, dep. 2013 Rv. 256631, Sez. 3, Sentenza n. 35889 del 01/07/2008 Rv. 241271, Sez. 1, n.26997 del 31/03/2023, Portale, non massimata).
Del resto, se così non fosse, è evidente che si darebbe sfogo a censure certamente sempre fondate almeno per carenze motivazionali: del tutto ovvie, non essendo state oggetto di appello. Tanto è stato evidenziato autorevolmente da Sez. U, Sentenza n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794 – 01 («Il combinato disposto delle due norme impedisce la proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, e … costituisce un rimedio contro il rischio concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello: in questo caso, infatti, è facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della relativa sentenza con riguardo al punto dedotto con il ricorso, proprio perché mai investito della verifica giurisdizionale»).
3. Nel caso in esame parte ricorrente invoca a sostegno delle sue doglianze prove (in particolare: il verbale dell’RAGIONE_SOCIALE del 24/2/2014 e il ricorso ex articolo 414 cod. proc. civ. proposto da due dipendenti della fallita) non specificamente richiamate con l’appello (in cui, al più, si menziona genericamente la relazione del curatore ed alcuni suoi allegati, comunque diversi dai documenti a cui ci si riferisce in questa sede).
Al riguardo, il generico richiamo (con l’appello) di prove articolate e complesse (come la relazione di un curatore) non può, evidentemente, intendersi riferito a tutto il suo variegato contenuto e ai relativi allegati e, dunque, deve ritenersi non rispettoso del criterio di specificità richiesto, a pena d inammissibilità, dagli articoli 581 e 591 cod. proc. pen. (anche nel testo precedente la riforma di cui alla legge 103/2017, secondo cui comunque sarebbe stato necessario indicare «i motivi, con l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta»).
Nella specie, con l’appello si sosteneva quanto segue: “… si evidenzia come
la relazione del Curatore (e i documenti alla medesima allegati), metta in luce che la gestione di fatto non appartenesse all’imputato, il cui ruolo, sul piano della compagine sociale e della struttura amministrativa, era riconducibile a quello di una testa di legno. Basti, a questo fine, por mente al tenore delle dichiarazioni rilasciate dal signor COGNOME al Curatore fallimentare (all. 5 alla relazione ex art. 33 1.f.), che univocamente ne dimostrano la totale estraneità all’effettivo esercizio dell’attività di impresa…. è lo stesso Giudice dell’udienza preliminare a riconoscere (pag. 2) che la gestione sociale non era riconducibile all’imputato, ma ad altri …”.
È palese che non vi sia alcun riferimento espresso né alla pagina 9, né all’allegato n. 7 della relazione del curatore (ovvero al verbale RAGIONE_SOCIALE ed all’istanza dinanzi al giudice del lavoro anzidetti), che ora, in modo chiaramente inammissibile, si pongono a sostegno delle censure mosse in questa sede alla sentenza d’appello.
Ne consegue che non può denunciarsi in Cassazione la contraddittorietà della decisione impugnata e/o l’omessa considerazione rispetto a prove documentali giammai specificamente portate all’attenzione del giudice d’appello.
Né, al riguardo, rileva (a favore del ricorrente) che la sentenza di primo grado abbia (a suo dire) dato atto che alcuni lavoratori, che avevano chiesto il fallimento dell’impresa, avessero indicato come gestore provvisorio il menzionato COGNOME NOME: sia perché circostanza ritenuta dal Giudice dell’udienza preliminare inidonea a smentire i dati documentali pacificamente richiamati dallo stesso ricorrente (i prelievi oggetto di distrazione risultanti dalla contabilità, ad opera del COGNOME, socio al 95% della società e suo amministratore), sia, prima ancora, perché a sua volta basata su un documento (istanza di fallimento) non solo diverso da quelli indicati a base del ricorso in esame (il già menzionato verbale dell’RAGIONE_SOCIALE del 24/2/2014 ed il ricorso ex articolo 414 cod. proc. civ. di due dipendenti), ma, per giunta, inidoneo ex se a provare alcunché (posto che è da presumere che al momento del chiesto fallimento la società fosse già in decozione, per fatti accaduti prima, evidentemente).
Insomma, non si è, certo, in presenza di fatti e prove assodati nel senso voluto dal ricorrente in primo grado e che, dunque, disattesi “a sorpresa” dal giudice d’appello, possano considerarsi proponibili per la prima volta, e in modo potenzialmente decisivo, in questa sede.
Quanto, infine, al richiamo, da parte della sentenza d’appello, alle dichiarazioni rese dall’imputato al curatore (“nell’attività sono subentrate delle persone che non conosco”), che vizierebbe di contraddittorietà (rispetto al dato probatorio) la pronuncia, lo stesso è manifestamente infondato.
La prova contraria che si invoca, in realtà, altro non costituisce che una mera dichiarazione dell’imputato, giustamente ritenuta (oltre che non sostenuta da alcun elemento) assolutamente generica dalla Corte d’appello (non avendo egli indicato chi gli fosse subentrato) e comunque del tutto inidonea a scalfire gli elementi (titolarità al 95°/0 delle quote societarie, amministrazione formale per numerosi anni, risultanze contabili dei prelievi da parte dell’imputato) a sostegno dell’accusa. Tale “prova”, per giunta, non è, a ben vedere, neppure realmente in contrasto col contrario accertamento in sede di merito (atteso che l’uso del verbo “subentrare”, fatto dall’imputato, implica, evidentemente, l’ammissione dell’esercizio – quanto meno pregresso – di una data attività da parte sua).
Essendo il ricorso inammissibile e non ravvisandosi ex art. 616 cod. proc. pen. assenza di colpa nella determinazione della causa di inamnnissibilità (Corte Costituzionale, sentenza n. 186 del 7-13 giugno 2000), alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della sanzione pecuniaria nella misura, che si ritiene congrua e conforme a diritto, indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso in data 5/6/2024
Il Presidente