Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 13049 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 13049 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 27/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME NOME, nato il DATA_NASCITA a Cles
NOME, nato il DATA_NASCITA a Mola di Bari
NOME NOME, nato il DATA_NASCITA a Francavilla Fontana
avverso la sentenza del 18/05/2023 della Corte d’appello di Venezia
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO; udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso di COGNOME e il rigetto di quelli di RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE; uditi i difensori degli imputati: AVV_NOTAIO, anche in sostituzione dell’AVV_NOTAIO, per COGNOME e AVV_NOTAIO per RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE che hanno insistito per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 22 dicembre 2017 il Tribunale di Vicenza ha dichiarato NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME – rispettivamente maresciallo aiutante, appuntato scelto e carabiniere scelto in servizio presso la caserma di Dueville – responsabili dei reati di falso ideologico nella redazione di verbali di perquisizione (capo A2), induzione indebita a dare o promettere utilità (capo B), peculato (capo C), illecita detenzione e acquisto di stupefacente (capi D e E), falso per soppressione di verbali di perquisizione (capo Gl) e omissione di atti di ufficio (capi G2 e G3), in relazione a condotte poste in essere fra il 2 e 12 aprile 2011, condannandoli alla pena di anni due e mesi sette di reclusione ed euro mille di multa ciascuno, con interdizione dai pubblici uffici per la durata di due anni.
Con il provvedimento in epigrafe la Corte d’appello di Venezia riformava parzialmente detta sentenza dichiarando, con riguardo ai predetti imputati, la prescrizione dei reati di cui ai capi B), D) – ritenuta in ordine a tale delitt configurabilità della fattispecie ex art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 -, E), G2) e G3), nonché ravvisando l’attenuante ex art. 323-bis cod. pen.; di conseguenza rimodulava il trattamento sanzionatorio riducendo la pena ad anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno.
La vicenda si inseriva in un contesto di operazioni volte alla repressione del traffico di stupefacenti poste in essere dai Carabinieri della stazione di Dueville, caratterizzate dall’irregolare ricorso alla collaborazione di soggetti coinvolti i piccoli traffici di stupefacenti per giungere all’arresto dei rispettivi fornitori. avevano tratto origine dalle indagini svolte a carico di NOME COGNOME che, sottoposto a intercettazione telefonica, era risultato in contatto con alcuni carabinieri della Stazione di Dueville. Di qui l’ipotesi accusatoria secondo la quale NOME avrebbe acquistato, il 3 aprile 2011, circa 40 grammi di marijuana al solo fine di consentire ai militari operanti l’arresto dei suoi fornitori. In cambio de collaborazione prestata, gli operanti avrebbero omesso di segnalare alla Prefettura la detenzione, accertata in capo al medesimo, di gr. 1,2 di cocaina, sequestrata il giorno precedente.
Il difensore di NOME NOME GLYPH ha impugnato detta decisione, censurando la violazione di legge e il vizio di motivazione:
2.1. in relazione al reato di falso in atto pubblico ex art. 479 cod. pen. (capo A2), sia con riferimento all’elemento oggettivo che a quello soggettivo, significando che l’avere attestato la presenza del Maresciallo COGNOME all’intera
operazione di perquisizione e non, semmai, solamente nelle fasi conclusive della stessa, si risolverebbe in un falso innocuo, nel significato (avendo l’atto attestato un mero esito negativo della perquisizione rispetto a cui la presenza dell’ufficiale costituirebbe un fattore ininfluente), nonché nella funzione documentale (non rilevando ai fini dell’attestazione contenuta nel verbale l’omessa specificazione dei tempi e dei modi di partecipazione di COGNOME alla perquisizione), in assenza di un’adeguata prospettazione in ordine alla consapevolezza da parte degli imputati di commettere un falso non avendo specificato che il maresciallo si sarebbe palesato solo ad operazioni concluse. Peraltro, la Corte non si è misurata con l’opposto risultato processuale riguardante altri due dei militari sottoscrittor del medesimo verbale, giudicati con rito abbreviato e assolti dalla stessa Corte d’appello perché il fatto non costituisce reato;
2.2. con riguardo al giudizio di responsabilità quanto al reato di peculato di cui al capo C), avente ad oggetto l’impossessamento indebito di sostanza stupefacente trovata nella disponibilità di NOME nonché, con specifico riferimento alla posizione di NOME, quanto alla ritenuta responsabilità concorsuale del medesimo, pur essendo provata la mancata partecipazione del medesimo alle operazioni di pesatura dello stupefacente sequestrato;
2.3. in relazione alla condanna intervenuta per il capo Gl) in funzione della circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 476, comma secondo, cod. pen. non contestata nel capo di imputazione e neppure descritta in fatto, non potendosi considerare corretto l’iter argomentativo della sentenza, ossia di doverne desumere la sussistenza dalla omologa contestazione riportata al capo A2), avente ad oggetto un diverso verbale di perquisizione ex art. 103 d.P.R. 309/90, pur di tipologia analoga; ne consegue che la prescrizione del reato era maturata prima della pronuncia di appello. Sotto diverso profilo, con riguardo alla ritenuta sussistenza delle condotte di soppressione di cui al capo G1), aventi ad oggetto i verbali di perquisizione e sequestro redatti a carico di NOME, esse viceversa non paiono configurabili, atteso che tali atti sono rimasti mere “bozze”, senza mai assumere il carattere di definitività.
Il difensore di COGNOME ha proposto altresì ricorso per cassazione avverso la sentenza censurando la violazione di legge e il vizio di motivazione:
3.1. in relazione al reato di falso in atto pubblico ex art. 479 cod. pen. di cui al capo di imputazione A2), significando che l’atto asseritamente falso nella indicazione della presenza del ricorrente alla sua formazione non era un atto a fede privilegiata (come invece rappresentato nel capo indicato con riferimento al verbale di perquisizione redatto dai Carabinieri di Dueville in data 2 aprile 2011), bensì un’informativa inviata alle Autorità competenti, il cui contenuto era peraltro
rispondente al vero, trattandosi di un documento formato dagli operanti in caserma, una volta che il maresciallo COGNOME, assente alla perquisizione, aveva comunque partecipato alla redazione del documento attestante la fase conclusiva dell’operato dei suoi sottoposti;
3.2. in relazione al reato di peculato di cui al capo C), per avere ritenuto la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie nella condotta contestata ai militari (ossia essersi impossessati di due dosi di cocaina oggetto di sequestro), pur ammettendo che la stessa non ha prodotto alcun danno patrimoniale. Anche riconoscendo al reato di peculato natura plurioffensiva, non è possibile prescindere da un danno di natura economica, generato dall’appropriazione di un bene che appartenga alla P.A. o ad altri;
3.3. con riguardo alla condanna per il reato di cui all’art. 490 cod. pen. di cui al capo G1), non essendo stata adeguatamente accertata la effettiva conservazione fino al 4 aprile di un verbale di perquisizione e sequestro di sostanza stupefacente che i militari avrebbero provveduto a distruggere due giorni prima; sotto diverso profilo, posto che la norma di riferimento è l’art. 476 cod. pen., essa è contestata nella forma semplice, non contenendo il capo di imputazione alcun riferimento alla fattispecie aggravata di cui al secondo comma, né tantomeno essendovi riferimenti “in fatto” a detta circostanza. Donde l’intervenuta prescrizione del reato prima dell’emissione della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono solo parzialmente fondati, nei limiti di seguito illustrati.
Sono manifestamente infondati il secondo motivo (comune) dei ricorsi di COGNOME e COGNOME, nonché il secondo motivo del ricorso di COGNOME, con cui si rinnovano le doglianze relative alla vicenda di peculato di cui al capo C) (avente ad oggetto l’impossessamento indebito di sostanza stupefacente trovata nella disponibilità di tale COGNOME), volte a confutare il giudizio di responsabili richiedendosi una rivalutazione delle risultanze probatorie non consentita in sede di legittimità.
Quanto ad NOME e NOME le censure si rivolgono al merito, sostenendo l’inconcludenza del valore probatorio ai sensi dell’art. 192 cod. proc. pen. degli elementi utilizzati dalla Corte territoriale per ritenere la natura stupefacente della sostanza sequestrata. La Difesa pretende una alternativa ricostruzione dei fatti,
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sulla base delle stesse dichiarazioni di COGNOME, desumendone l’abitudine di ricorrere ad una eccessiva “diluizione” della sostanza stupefacente per frodare gli acquirenti. Orbene, non rientra nei poteri della Corte di legittimità quello di effettuare una rilettura degli elementi storico-fattuali posti a fondamento del motivato apprezzamento svolto nell’impugnata decisione di merito, essendo il relativo sindacato circoscritto alla verifica dell’esistenza di un logico apparato argonnentativo sui vari aspetti del percorso motivazionale: verifica il cui esito non può che dirsi positivamente raggiunto.
Con riguardo al profilo relativo alla mancata partecipazione di NOME alle operazioni che hanno più strettamente riguardato la pesatura dello stupefacente sequestrato a NOME (per escluderne la responsabilità a titolo concorsuale), è un aspetto adeguatamente valutato dai giudici del merito. La Corte ha rappresentato che la condotta di appropriazione e distruzione della modica quantità di cocaina sequestrata a NOME (nonché degli atti redatti a suo carico) per indurlo a “collaborare” in altre operazioni era un disegno condiviso da tutti gli imputati, a prescindere dalla porzione di condotta da ciascuno posta in essere.
Con specifico riferimento alle doglianze di COGNOME, secondo il quale non è possibile prescindere da un danno di natura economica, generato dall’appropriazione di un bene che appartenga alla P.A. o ad altri, si osserva che, secondo consolidato indirizzo giurisprudenziale, il peculato si consuma nel momento in cui ha luogo l’appropriazione della res o del danaro da parte dell’agente, la quale, anche quando non arreca, per qualsiasi motivo, danno patrimoniale alla P.A., è comunque lesiva dell’ulteriore interesse tutelato dall’art. 314 cod. pen. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento del suo operato (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, COGNOME, Rv. 244190). Nella medesima prospettiva ermeneutica, inoltre, si è affermato (Sez. 6, n. 12611 del 25/02/2010, COGNOME, Rv. 246735) che non può essere un atto consapevolmente illecito (quale la mancata formale redazione di un verbale di sequestro) a vanificare o dissolvere una situazione di fatto che si è già compiutamente realizzata, con l’apprensione della sostanza stupefacente da parte della Polizia giudiziaria, ciò che appunto determina immediatamente il possesso dell’amministrazione, il quale a sua volta impone la successiva gestione del bene secondo le pertinenti disposizioni normative del caso. Ciò che rileva è unicamente il fatto che quella sostanza, una volta sottoposta a sequestro, doveva rimanere nella sfera di esclusiva disponibilità dell’Amministrazione fino al momento in cui, esperiti gli accertamenti ed effettuate le valutazioni di legge, ne fosse stata ritualmente disposta la distruzione (Sez. 6, n. 30141 del 04/06/2015, Zanetti, Rv. 265745). Ne deriva, in relazione al caso in esame, che integra il delitto di peculato anche l’appropriazione di cose il cui commercio è vietato.
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3. I motivi di ricorso relativi alla sussistenza della responsabilità per il cap A2), comune agli imputati COGNOME e COGNOME e proposti altresì da COGNOME, presentano evidenti profili di infondatezza. Quanto ai primi due ricorrenti, la doglianza non si correla al percorso argomentativo della Corte, che è incentrato sulla condotta contestata nel capo di imputazione (di falsa attestazione della presenza di COGNOME), anziché su una presunta condotta omissiva di mancata precisazione di partecipazione del suddetto ufficiale o “in via telefonica” durante le operazioni o nella fase “conclusiva” della perquisizione con la redazione dell’atto in caserma. Evenienze, queste, comunque valutate nel merito dal giudicante con motivazione non illogica nel considerare detto comportamento in ogni caso non scriminante rispetto ad una condotta commissiva senz’altro accertata (consistente nell’accreditare una presenza con riferimento all’intera operazione di perquisizione, smentita dai tabulati telefonici relativi all’utenza del maresciallo COGNOME, che ne attestavano la presenza in luoghi incompatibili con la sua partecipazione).
Quanto al denunciato vizio applicativo in cui sarebbe incorsa la Corte nel negare fondatezza all’irrilevanza della condotta contestata, la difesa si limita a svalutare la portata della infedele attestazione, sulla base del mero dato dell’esito negativo dell’attività probatoria dell’operazione di polizia giudiziari senza considerare l’idoneità della attestazione a ledere la fede pubblica e l’affidamento dei terzi con riguardo a tutte le circostanze falsamente certificate, tra cui non può essere attribuito minor valore, in una prognosi ex ante, all’individuazione degli operanti che, in qualità di pubblici ufficiali, s intervenuti in un’attività propria di competenza della polizia giudiziaria, dal momento che l’idoneità offensiva della condotta di falso deve essere valutata, ai fini dell’eventuale identificazione di un reato impossibile, con riguardo alle circostanze del caso concreto e con criterio ex ante, a nulla rilevando che dalla condotta non sia derivato un effettivo inganno (Sez. 6, n. 12175 del 21/01/2005, Tarricone, Rv. 231485).
La Corte territoriale sottolinea quindi come tutti i sottoscrittori dell’a fossero ben consapevoli di affermare scientemente la partecipazione del maresciallo all’intero svolgimento dell’operazione e di realizzare quindi una falsità relativa ad una circostanza non affatto marginale, posto che la presenza dell’ufficiale di polizia giudiziaria (e non dei soli agenti) costituisce un requis di legittimità della perquisizione, ex art. 103 d.P.R. 309 del 1990. Con specifico riguardo alle censure formulate dal ricorrente COGNOMECOGNOME va ribadito che in sede di appello la questione volgeva alla ritenuta partecipazione a distanza da parte del ricorrente alle operazioni di polizia giudiziaria, onde la possibilità – sostenut
dalla difesa – di attribuire legittimamente al medesimo ricorrente la paternità del verbale in questione mediante la tecnica operativa a distanza adottata nell’occasione. La Corte ha congruamente e logicamente confutato tale prospettazione, con idoneo apparato argomentativo, sia escludendo che nel verbale di perquisizione si sia dato atto di tale partecipazione “telefonica”, sia rilevando come la presenza di COGNOME sia stata comunque illegittimamente ricondotta nell’atto ad una presenza sin dall’inizio delle operazioni di polizia giudiziaria. Trattasi di apprezzamenti fattuali e di merito non sindacabili in sede di legittimità.
Nulla dice, per contro, la Corte sulla configurabilità del reato di falso in att pubblico in relazione all’informativa di polizia giudiziaria, in cui la difesa, ricorso, assume inquadrarsi l’atto in parola. Tale doglianza non era infatti contenuta fra i motivi di appello e pertanto è inammissibile.
Tuttavia deve rilevarsi che, anche tenuto conto dei periodi di sospensione (giorni 65), la prescrizione per il reato in esame è maturata il 5 dicembre 2023, a fronte della evidenziata assenza di elementi di giudizio tali da riconoscere, ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen., la prova evidente dell’innocenza degli imputati.
E’ invece fondato il motivo comune ad NOME e COGNOME e proposto autonomamente da COGNOME, relativo alla circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 476, comma secondo, cod. pen., non contestata nel capo di imputazione sub G1) e neppure descritta in fatto, ma viceversa ritenuta dalla Corte.
La Corte, in sostanza, reputa come contestata la natura fidefacente dell’atto mediante l’impiego della medesima terminologia utilizzata in relazione a diverso atto (il verbale di perquisizione di cui al capo A2) rispetto al quale la suddetta aggravante è stata precisata nel capo di imputazione con esplicito riferimento anche al dato normativo, in tal modo ritenendo comunque soddisfatti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza di legittimità.
Il rilievo è fondato, non potendosi considerare corretto l’iter argomentativo della sentenza impugnata, laddove, quanto alla specifica imputazione in esame, afferma di poter inferire la configurabilità dell’aggravante, e perciò l’assenza di alcun pregiudizio per le relative garanzie difensive, dalla omologa contestazione riportata – in tal caso – con adeguata precisione terminologica nel distinto capo di imputazione sub A2), atteso che questo, all’evidenza, ha ad oggetto una differente fattispecie di falso riguardante la redazione di un verbale di perquisizione ex art. 103 d.P.R. 309/90. La giurisprudenza di legittimità ha infatti precisato che non può ritenersi legittimamente contestata, sì che non può essere
ritenuta in sentenza dal giudice, la fattispecie aggravata di cui all’art. 476 comma secondo, cod. pen., qualora nel capo d’imputazione non sia esposta la natura fidefacente dell’atto, o direttamente o mediante l’impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l’indicazione della relativa norma (Sez. U, n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, Rv. 275436). Peraltro, la stessa Corte territoriale ha esplicitamente escluso la presenza di una contestazione in fatto (v. pag. 33), tentando di ricondurre a un diverso capo di imputazione la presenza dei necessari riferimenti, con un’operazione ermeneutica non condivisibile.
Ciò posto, e considerato che alla luce delle considerazioni che precedono, non appaiono riscontrabili elementi di giudizio idonei a riconoscere, a mente dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., la prova evidente dell’innocenza degli imputati, va rilevato che la prescrizione del reato commesso il 4 aprile 2011, da valutare quale fattispecie non aggravata, è maturata ancor prima della pronuncia di appello.
E’ opportuno ricordare che, in caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l’autonomia dell’azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l’ammissibilità dell’impugnazione per uno dei reati possa determinare l’instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966).
Ne deriva che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio in relazione ai capi A2) e G1) perché i reati ascritti agli imputati sono estinti per prescrizione Va invece dichiarata l’inammissibilità di tutti i ricorsi in relazione al capo C) co conseguente rideterminazione della pena principale – ai sensi dell’art. 620, lett. O cod. proc. pen. – in quella di anni uno e mesi quattro di reclusione e, in pari misura, di quella accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui ai capi A2) e Gl) perché estinti per prescrizione. Dichiara inammissibili i ricorsi relativamente al reato di cui al capo C) e per l’effetto ridetermina la pena inflitt
ai ricorrenti in anni uno e mesi quattro di reclusione nonché la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici in pari misura. Così deciso il 27/02/2024