Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 1946 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 1946 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a CATANIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 13/09/2022 della CORTE APPELLO di CATANIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del PG, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
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RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 13 settembre 2022, la Corte di appello di Catania ha confermato la sentenza pronunciata il 7 gennaio 2016 – all’esito di giudizio abbreviato – dal Tribunale di Siracusa nei confronti di NOME COGNOME, imputato insieme ad altri (che non hanno proposto ricorso) del reato di cui agli artt. 56, 110, 624, 625 n. 2 e 5 cod. pen., commesso il 7 gennaio 2015.
Con la sentenza confermata in appello sono state applicate a COGNOME le attenuanti generiche, valutate equivalenti alle aggravanti e alla contestata recidiva (reiterata e specifica); operata la diminuzione di pena prevista dall’art. 442 cod. proc. pen. egli è stato condannato alla pena di mesi due giorni venti di reclusione ed C 100,00 di multa.
Contro la sentenza della Corte di appello COGNOME ha proposto tempestivo ricorso per mezzo del difensore, munito di procura speciale.
2.1. Col primo motivo, il difensore lamenta erronea applicazione di legge per essere stata affermata la responsabilità dell’imputato anche se, prima della pronuncia della sentenza d’appello, il reato si era estinto per prescrizione.
Il ricorrente osserva:
che all’imputato è stato contestato un furto tentato aggravato commesso il 7 gennaio 2015;
che per il reato di cui agli artt. 56, 625 n. 2 e n. 5 cod. pen. è prevista una pena detentiva massima pari ad anni sei e mesi otto, sulla quale avrebbe dovuto essere calcolato il termine ordinario di prescrizione;
che, nel caso in esame, l’ultimo atto interruttivo della prescrizione precedente alla pronuncia della sentenza di appello è rappresentato dalla sentenza di condanna di primo grado che reca la data del 7 gennaio 2016;
che, ai sensi dell’art. 160, comma 3, cod. pen. «la prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno della interruzione».
Muovendo da queste premesse la difesa sostiene che la sentenza di appello è stata pronunciata quando il termine di prescrizione era ormai decorso. Nel caso di specie, infatti, per effetto degli atti interruttivi, il termine ordin prescrizione (in tesi pari ad anni sei e mesi otto) era stato allungato di un anno (dal 7 gennaio 2015 al 7 gennaio 2016) e perciò era spirato il 7 settembre 2022, mentre la sentenza di appello è stata pronunciata il 13 settembre 2022.
Nell’argomentare a sostegno del motivo la difesa del ricorrente rileva che nel calcolo del termine di prescrizione non si deve tenere conto della recidiva, perché tale circostanza aggravante è facoltativa.
2.2. Col secondo motivo, la difesa deduce vizi di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 625 n. 2 cod. pen. Osserva che tale aggravante è stata ritenuta sussistente sostenendo che, per entrare nello stabilimento di proprietà della «RAGIONE_SOCIALE» (nel quale si trovava il materiale metallico del quale tentò di impossessarsi), COGNOME e i suoi complici tagliarono la rete metallica posta a recinzione del terreno e, tuttavia, né NOME né le altre persone arrestate con lui avevano disponibilità delle tronchesi necessarie a tal fine sicché non può escludersi che altri, prima di loro, avessero praticato il varco nella rete. Secondo la difesa ciò troverebbe conferma nella constatazione che, tra le fotografie allegate agli atti, ce ne è una nella quale è visibile la rete di recinzione «ripristinata approssimativamente». Ciò proverebbe che, già in precedenza, la rete di recinzione era stata tagliata e COGNOME potrebbe essersi introdotto nello stabilimento attraverso un varco praticato da altri. La difesa sottolinea che, nel rispondere ad analoga censura sollevata nei motivi di appello, la sentenza impugnata ha dato atto dell’esistenza di questa fotografia, ma ha sostenuto, con motivazione manifestamente illogica, che potrebbe trattarsi dell’apertura utilizzata da COGNOME e dai suoi complici per entrare nello stabilimento, approssimativamente ripristinata dai Carabinieri che li arrestarono.
Il 9 novembre 2023 la difesa ha depositato una memoria contenente motivi aggiunti con la quale ha integrato il primo motivo con specifico riferimento all’aggravante della recidiva. La difesa sostiene che la recidiva contestata all’imputato non sarebbe in realtà sussistente, avrebbe dovuto essere esclusa e, per questo (oltre che perché si tratta di circostanza facoltativa) non se ne può tenere conto nel calcolare il termine di prescrizione.
Osserva in proposito che – come risulta dal certific:ato del casellario giudiziale aggiornato all’8 gennaio 2015 (allegato alla memoria) – all’epoca dei fatti, COGNOME era gravato da due precedenti costituiti da sentenze di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen.: una pronunciata il 15 marzo 1993 (irrevocabile il 30 aprile 1993); l’altra pronunciata il 30 luglio 1996 (irrevocabi il 10 ottobre 1996).
Secondo la difesa, poiché dal certificato del casellario in atti non risulta che COGNOME abbia commesso altri reati nei cinque anni dalla seconda sentenza, il reato cui questa sentenza si riferisce era estinto ai sensi dell’art. 445 cod. proc. pen. quando è stato commesso il reato per cui si procede e pertanto di questo reato non si sarebbe dovuto tenere conto ai fini della recidiva.
Quanto alla prima condanna, la difesa rileva che la stessa si riferisce a un reato commesso il 30 aprile 1993 e che la pena inflitta (mesi due di reclusione ed C 103,29 di multa) si è estinta ai sensi dell’art. 172 cod. pen. Sostiene che, ai
sensi dell’art. 210 comma 2 cod. pen., «l’estinzione della pena comporta gli stessi benefici della estinzione del reato eccetto l’applicazione delle misure di sicurezza» sicché, anche in questo caso, sarebbero venuti meno tutti gli effetti penali.
Dall’insieme di queste argomentazioni, la difesa desume che la recidiva sarebbe stata erroneamente ritenuta sussistente e dovrebbe essere esclusa. Il termine di prescrizione, dunque, non potrebbe essere calcolato tenendo conto di tale circostanza aggravante e, come illustrato nel primo motivo del ricorso principale, era già decorso quando è stata pronunciata la sentenza di primo grado.
Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Per ragioni di logica espositiva devono essere esaminati per primi i motivi di ricorso che riguardano l’aggravante di cui all’art. 625 n. 2 cod. pen. e la recidiva. Il calcolo del termine di prescrizione, infatti, non può essere compiuto senza aver prima valutato se di tali circostanze si debba o merlo tenere conto.
Col secondo motivo del ricorso la difesa lamenta vizi di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 625 n.2 cod. pen. Reitera così un motivo già proposto, e motivatamente respinto, in sede di gravame.
La Corte di appello ha ritenuto sussistente l’aggravante di cui all’art. 625 n. 2 cod. pen. osservando (pag. 4 e pag. 5 della motivazione):
che la rete metallica di recinzione era tagliata e in prossimità della stessa vi erano orme fresche;
che NOME e i suoi complici furono sorpresi all’interno di una ulteriore recinzione «costruita da lastroni in cemento» che presentava un foro idoneo a consentire il passaggio di una persona;
che il materiale ferroso, accatastato dagli imputati per essere asportato, era stato strappato e tagliato ed era «frutto dell’azione di danneggiamento» dell’impianto;
che, al momento dell’arresto, gli imputati erano in possesso di una falce con manico in legno e lama tagliente, di un coltello a serramanico con lama acuminata e tagliente, di un cacciavite a taglio, di un martello in ferro; strumenti
idonei a prelevare i materiali ferrosi accatastati e anche tagliare la rete metallica e a forare i lastroni in cemento che recintavano il terreno.
Secondo la Corte territoriale, il quadro indiziario così delineato, porta ad escludere che, per entrare nello stabilimento, gli imputati si siano avvalsi di preesistenti fori nella rete e nella recinzione in cemento, la cui esistenza non può essere desunta da una fotografia raffigurante la rete tagliata e «approssimativamente ripristinata» il cui significato non è univoco nel senso indicato dalla difesa. La motivazione è congrua, non presenta profili di contraddittorietà o manifesta illogicità e pertanto non è censurabile in questa sede. Esula, infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una «rilettura» degli elementi di fatto posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito. In altri termini: la me prospettazione di una diversa – e per il ricorrente più adeguata – valutazione delle risultanze processuali non integra un vizio rilevabile in sede di legittimità (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207945).
La richiesta di escludere la recidiva, formulata nel motivo aggiunto, non è ammissibile per l’assorbente considerazione che sul punto non era stato proposto motivo di appello. Dal combinato disposto degli artt. 606, comma terzo, e 609, comma secondo, cod. proc. pen. discende, infatti, che nen possano essere dedotte in cassazione questioni non prospettate nei motivi di appello, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello. Tale regola trova la propria ratio nella necessità di evitare che possa sempre essere rilevato un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo ad un punto del ricorso non investito dal controllo della Corte di appello, perché non segnalato con i motivi di gravame (Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 256631; Sez. 2, n. 8890 del :31/01/2017, COGNOME, Rv. 269368; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, COGNOME, Rv. 269745; Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316). Pertanto, è sufficiente ricordare che, secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale, «l’esclusione della recidiva sulla base di condanne a pene estinte ad ogni effetto penale deve formare oggetto di espressa deduzione nell’atto d’impugnazione, non potendo essere rilevata di ufficio dal giudice di appello ex art. 597, comma quinto, cod. proc. pen.» (Sez. 6, n. 47722 del 06/10/2015, COGNOME, Rv. 265880; Sez. 5, n. 7309 del 17/12/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. NUMERO_DOCUMENTO).
Deve essere esaminato a questo punto il primo motivo di ricorso col quale la difesa sostiene che il reato del quale COGNOME è stato ritenuto responsabile era
già estinto per prescrizione quando è stata pronunciata la sentenza di appello oggi impugnata. Nel calcolare il termine di prescrizione si deve tenere conto, oltre che delle aggravanti di cui agli artt. 625 n. 2 e n. 5 cod. pen. anche della aggravante della recidiva reiterata e specifica, che il giudice di primo grado ha inserito nel giudizio di bilanciamento e la cui sussistenza non è stata contestata nei motivi di appello. Non rileva in contrario che si tratti di una aggravante facoltativa. Nel caso di specie, infatti, l’aggravante è stata contestata e l’art. 15 cod. pen. non distingue tra circostanze obbligatorie e circostanze facoltative.
Ai sensi dell’art. 99, comma 4, cod. pen., la recidiva reiterata specifica comporta un aumento di due terzi della perla base. Si tratta, pertanto, di una circostanza ad affetto speciale che incide sia sul computo del termine-base di prescrizione ai sensi dell’art. 157, comma secondo, cod. pen., sia sull’entità della proroga di suddetto termine in presenza di atti interruttivi, ai sensi dell’art. 161 comma secondo, cod. pen. (in tal senso: Sez. 2, n. 57755 del 12/10/2018, Saetta, Rv. 274721; Sez. 4, n. 6152 del 19/12/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272021; Sez. 5, n. 32679 del 13/06/2018, COGNOME, Rv. 273490; Sez. 6, n. 48954 del 21/09/2016, COGNOME, Rv. 268224).
Si deve ricordare allora:
che, «ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, deve aversi riguardo alla pena massima edittale stabilita per il reato consumato o tentato, su cui va operato l’aumento massimo di pena previsto per le circostanze aggravanti ad effetto speciale» (Sez. 4, n. 101 del 11/12/2015, dep. 2016, Colella, Rv. 265578; Sez. 3, n. 3391 del 12/11/2014, dep. 2015, Pollicoro, Rv. 262015);
che, «ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, deve aversi riguardo, in caso di concorso fra circostanze ad effetto speciale, all’aumento di pena massimo previsto dall’art. 63, comma quarto, cod. pen., per il concorso di circostanze della stessa specie, a nulla rilevando che l’aumento previsto da tale disposizione, una volta applicato quello per la circostanza più grave, sia facoltativo e non possa eccedere il limite di un terzo» (Sez. 6, n. 23831 del 14/05/2019, Rv. 275986.
Applicando questi principi al caso in esame, per calcolare il termine necessario a prescrivere si deve aggiungere alla pena detentiva massima prevista per il reato di cui agli art. 56, 624, 625, comma 2, cod. pen. – pari ad anni sei e mesi otto – l’aumento di pena previsto dall’art. 63, comma 4, per la contestata recidiva che è, anch’essa, una circostanza ad effetto speciale. Si giunge così ad un termine di prescrizione ordinario di anni otto, mesi sei e giorni venti.
Ne consegue che, quando fu pronunciata la sentenza di appello, anche tenendo conto del fatto che l’ultimo atto interruttivo della prescrizione era stato compiuto il 7 gennaio 2016, il termine di prescrizione non era ancora decorso. Ed invero, il termine ordinario di prescrizione scadeva il 27 luglio 2023 e la sentenza fu pronunciata il 13 settembre 2022. Ad oggi, il termine di prescrizione è ben lungi dall’essere decorso, atteso che il termine ordinario deve essere aumentato di due terzi ai sensi dell’art. 161, comma 2, cod. pen. e (trattandosi di fatto commesso nel 2015) l’ultimo atto interruttivo del corso della prescrizione è rappresentato dalla sentenza di appello.
Per quanto esposto, nessuno dei motivi di ricorso supera il vaglio di ammissibilità. Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il ricorrente non versasse in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a suo carico, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere di versare la somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 28 novembre 2023
Il Consiglier0 est nsore
Il Presi ente