Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 27806 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 27806 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 09/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a San Bonifacio il 25/4/1959
avverso la sentenza del 19/12/2024 della Corte di appello di Venezia
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 19 dicembre 2024 la Corte di appello di Venezia, in parziale riforma della pronuncia emessa il 17 giugno 2023 dal Tribunale di Verona, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME per essere il reato ascrittogli estinto per intervenuta prescrizione.
A NOME COGNOME è stato contestato di avere commesso in concorso il reato di cui all’art. 348 cod. pen., in quanto esercitava abusivamente la professione odontoiatrica, senza i prescritti titoli abilitativi.
Avverso la sentenza di appello il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i motivi di seguito indicati.
3.1. Inosservanza di legge, atteso che l’imputato era abilitato all’esercizio della professione in Italia, perché, dopo avere conseguito il titolo in Polonia, aveva ottenuto l’iscrizione all’Ordine dei medici di Porto, nel Portogallo, e ciò comporterebbe il riconoscimento automatico del titolo abilitativo. Sulla base dell’art. 13 L. n. 409/85, infatti, sarebbe ammessa la prestazione odontoiatrica a carattere temporaneo in Italia, effettuata da un cittadino europeo anche senza l’iscrizione nell’albo nazionale.
3.2. Carenza di prova sull’esercizio sistematico della professione sanitaria, che sarebbe stata prestata solo il giorno dell’accesso dei Nas nello studio.
3.3. Omessa considerazione del difetto di offensività. La Corte di appello avrebbe dovuto valutare che l’imputato era comunque abilitato alla professione in un altro Stato comunitario e tale abilitazione dovrebbe valere anche in Italia.
3.4. Erronea conferma delle statuizioni civili, mancando la prova del danno subito dalla parte civile.
3.5. Contraddittorietà della motivazione, per avere la Corte di appello mantenuto le statuizioni civili, pur avendo dichiarato il reato estinto per prescrizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Per ragioni di ordine logico, occorre esaminare in via prioritaria il quinto motivo del ricorso, concernente il potere della Corte di appello di pronunciarsi sulle statuizioni civili, pur a fronte della declaratoria di estinzione del reato.
Premesso che la prescrizione del reato è maturata nel corso del giudizio di appello, va rilevato che il potere della Corte territoriale di pronunciarsi sull statuizioni civili trova il suo fondamento normativo nell’art. 578 cod. proc. pen., che, per l’appunto, dispone che «quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e l corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione,
decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili».
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, quindi, la declaratoria di estinzione del reato non era ostativa alla condanna dell’imputato al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile.
2.1. Giova aggiungere ., al riguardo, che le Sezioni Unite, chiamate a dirimere il contrasto circa la prevalenza o meno del proscioglimento nel merito rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, già nel 2009 hanno espresso il principio per cui «all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili» (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, COGNOME, Rv. 244274 01).
La pronuncia, muovendo dal criterio di bilanciamento, espresso dalla Corte costituzionale (sentenze n. 175 del 1971 e n. 275 del 1990, ordinanze nn. 300 e 362 del 1991), per cui l’equilibrio del sistema è garantito dalla possibilità per l’imputato di rinunciare alle cause estintive del reato (amnistia o prescrizione), ha confermato la prevalenza dell’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, dovendosi privilegiare in linea di principio le esigenze di speditezza sottese al disposto dell’art. 129 cod. proc. pen. Le Sezioni Unite hanno, però, osservato che l’enunciato dell’art. 578 cod. proc. pen., in presenza della parte civile, apre al giudice di appello la porta della “cognizione piena”, essendo tale giudice tenuto a valutare nel merito, anche al maturare di una causa estintiva del reato, il compendio probatorio già acquisito ai fini delle statuizioni civili. Ciò rende recessivo l’obbligo per il giudice di appello di atteners a canoni di economia processuale rispetto al dovere di “conoscere” il merito della causa, tutelando in tal modo i diritti fondamentali della persona imputata. L’accertamento del diritto al risarcimento del danno da reato implica, infatti, nel rispetto del contraddittorio, anche il diritto alla prova contraria, garantito a livel costituzionale dall’art. 111, terzo comma, Cost. e dall’art. 495, comma 2, cod. proc. pen. in conformità all’art. 6 § 3 lett. d) CEDU. Divenendo recessiva l’esigenza di speditezza del processo, pur in presenza della causa estintiva e in assenza di rinuncia dell’imputato ad avvalersi della stessa, è logico che riemerga l’imperativo di assolvere l’imputato non solo a fronte dell’evidenza dell’innocenza, come espressamente previsto dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., ma anche nel caso in cui, pur essendovi alcuni elementi probatori a carico,
essi siano inidonei a fondare una dichiarazione di responsabilità penale secondo la regola di giudizio di cui all’art. 530, comma 2, del codice di rito.
Tale principio è stato di recente ribadito dalle Sezioni Unite, che hanno affermato che, nel giudizio di appello avverso la sentenza di condanna dell’imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l’estinzione del reato per prescrizione, non può limitarsi a prendere atto della causa estintiva, adottando le conseguenti statuizioni civili fondate sui criteri enunciati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 182 del 2021, ma è comunque tenuto, stante la presenza della parte civile, a valutare, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, la sussistenza dei presupposti per l’assoluzione nel merito (Sez. U, n. 36208 del 28/03/2024, Calpitano, Rv. 286880 – 01).
A questi criteri si è uniformata la Corte di appello di Venezia, che, in presenza della parte civile, aveva il potere-dovere di valutare nel merito, anche al maturare della causa estintiva del reato, il compendio probatorio già acquisito, al fine di vagliare la sussistenza dei presupposti per l’assoluzione nel merito. 2.2,
Presupposti che ha ritenuto insussistenti, così che, dichiarata l’estinzione del reato, ha deciso ai soli fini civili.
La censura del ricorrente è, dunque, manifestamente infondata
I primi tre motivi del ricorso, che possono essere trattati congiuntamente afferendo alla sussistenza del reato contestato al ricorrente, non rientrano tra quelli consentiti e sono privi di specificità.
Quanto al dedotto aspetto della sussistenza di un titolo abilitativo alla professione, conseguito all’estero (Polonia), e dell’iscrizione all’Ordine dei medici di un Paese comunitario (Portogallo), la Corte di appello ha affermato che risultava in atti la comunicazione trasmessa all’imputato dal Ministero della Salute, in cui si rappresentava espressamente l’inidoneità del titolo di studio, conseguito in Polonia, ad esercitare la professione in Italia. Si rilevava, infatti che lo stesso Istituto polacco, che aveva rilasciato il diploma, aveva affermato che esso non è equivalente al diploma di medico dentista neppure in Polonia. Il fatto che COGNOME avesse poi ottenuto in Portogallo l’iscrizione all’Ordine dei medici odontoiatri (anche laddove fosse stato provato), non lo abilitava in ogni caso all’esercizio della professione in Italia.
La Corte di appello ha aggiunto che in senso contrario alla natura non continuativa dell’esercizio abusivo della professione militava il fatto che, al momento dell’accesso nello studio, oltre al paziente seduto, ve ne erano altri in sala di attesa e lo studio era stato attrezzato con strumenti costosi, che si giustificavano solo in ragione di un esercizio continuativo.
A fronte di siffatte argomentazioni le censure del ricorrente, per un verso, non si sono confrontate con la motivazione della sentenza impugnata e, dunque,
hanno omesso di assolvere alla tipica funzione di una critica argomentata avverso il provvedimento oggetto di ricorso (Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019,
COGNOME, Rv. 277710 – 01; Sez. 6, n. 20377 dell’11/3/2009, COGNOME e altri,
Rv. 243838 – 01); per altro verso, sono volte a sollecitare una rilettura delle emergenze processuali, non consentita in questa sede
(ex plurimis:
Sez. U, n.
47289 del 24/9/2003, COGNOME, Rv. 226074 – 01; Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, Chen, Rv. 284556 – 01)
4. Il quarto motivo è privo di specificità.
La Corte di appello ha rilevato che l’Ordine dei medici della Provincia in cui è
stato realizzato l’abusivo esercizio della professione da parte del ricorrente aveva subito un pregiudizio dalla condotta tenuta da quest’ultimo, lesiva dell’interesse
a difesa del quale l’ente si era costituito.
Le censure del ricorrente sul punto hanno richiamato del tutto genericamente quelle formulate in appello, senza correlare criticamente e in modo puntuale le ragioni argomentative della decisione impugnata con quelle poste a fondamento del ricorso.
La declaratoria di inammissibilità del ricorso comporta, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché – non sussistendo ragioni di esonero (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186) – della somma di euro tremila, equitativamente determinata, in favore della Cassa delle ammende a titolo di sanzione pecuniaria.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 9 luglio 2025.