Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 43653 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 43653 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 10/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a TORINO il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a CHIERI il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 02/02/2024 della CORTE di APPELLO di BOLOGNA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi; ricorsi decisi con contraddittorio scritto ex art. 23 co. 8 d.l. 137/2020.
RITENUTO IN FATTO
Con l’impugnato provvedimento la Corte d’appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Ravenna del 19 dicembre 2017 che aveva condannato NOME COGNOME e NOME COGNOME alla pena di nove mesi di reclusione (oltre a pena pecuniaria) per il reato di ricettazione di un assegno oggetto di furto.
Gli imputati hanno presentato distinti ricorsi per i seguenti motivi.
2.1. NOME COGNOME ha formulato due motivi:
con il primo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla mancata pronuncia di estinzione del reato per intervenuta
prescrizione anteriormente alla pronuncia della sentenza d’appello, nonostante la contestata recidiva fosse stata ritenuta sub valente.
con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena, ritenuta eccessiva in assenza di motivazione adeguata.
2.2. NOME COGNOME deduce tre motivi, lamentando rispettivamente:
violazione di legge (art.606 lett. b c.p.p.) in relazione all’art.648 c.p., poic la responsabilità per il ricevimento dell’assegno da parte dell’imputato non è stata determinata;
violazione di legge e vizio di motivazione (art.606 lett. b ed e, c.p.p.) in relazione al mancato riconoscimento della continuazione tra i fatti oggetto del corrente giudizio e quelli giudicati con precedente sentenza di condanna;
violazione di legge e vizio di motivazione (art.606 lett. b ed e, c.p.p.) in relazione alla mancata pronuncia di estinzione del reato per intervenuta prescrizione anteriormente alla pronuncia della sentenza d’appello.
Il Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME ha inviato mail con memoria le cui conclusioni chiedono la inammissibilità di entrambi i ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Di entrambi i ricorsi va dichiarata l’inammissibilità, essendo fondati su motivi vuoi generici, vuoi manifestamente infondati, vuoi, infine, non consentiti.
COGNOME deduce innanzitutto violazione di legge e vizio di motivazione lamentando la negletta pronuncia di estinzione del reato per prescrizione pur se il giudizio di bilanciamento tra circostanze attenuanti e recidiva sia andato a favore delle prme. Si sostiene che, essendo stata ritenuta subvalente l’aggravante, se ne sono “neutralizzati gli effetti” (pg.2) anche ai fini del calcol del tempo necessario per la prescrizione.
L’argomento COGNOME difensivo COGNOME è COGNOME manifestamente COGNOME infondato, COGNOME alla COGNOME luce dell’orientamento consolidato e costante della giurisprudenza di legittimità, che questo Collegio intende ribadire, secondo cui “ai fini della prescrizione del reato, deve tenersi conto della recidiva ad effetto speciale ancorché sia ritenuta subvalente nel giudizio di bilanciamento con le concorrenti circostanze attenuanti, poiché l’art. 157, comma terzo, cod. pen. esclude espressamente che il giudizio di cui all’art. 69 cod. pen. abbia incidenza sulla determinazione della pena massima del reato” (ex multis, Sez. 1, n. 36258 del 07/10/2020, Lattanzi, Rv. 280059- 01).
Considerata la pena detentiva edittale massima per il reato contestato (art. 648 c.p. – otto anni di reclusione) e la recidiva contestata e ritenuta nei confronti dell’imputato (specifica ed infraquinquennale, art.99, comma secondo, n.1 e 2, c.p., per cui è previsto un aumento della pena della metà – art.99, comma terzo, c.p.), ai fini del calcolo del termine di prescrizione va innanzitutto aumentata la pena massima edittale della metà (8 anni + 1/2 = 12 anni), elevandola ulteriormente, per effetto del combinato disposto degli artt.161, secondo comma, e 99, secondo comma, c.p., di un’ulteriore periodo corrispondente alla metà a seguito dei plurimi eventi interruttivi intervenuti nel corso del processo, così giungendo ad un ‘tetto’ di diciotto anni. Considerato il tempus commissi delicti (26 febbraio 2010), il termine va quindi collocato al 26 febbraio 2028, cui va aggiunto il periodo complessivo di sospensione (otto mesi e diciannove giorni) indicato nella sentenza di primo grado raggiungendo così la data finale del 14 novembre 2028.
3. Anche il secondo motivo del ricorso presentato da COGNOME è manifestamente infondato poiché basato sulla premessa che una esaustiva motivazione, attinente a tutti i profili rilevanti indicati dall’art.133 c.p. sia sempre necessaria. verità, come ha chiarito a più riprese la giurisprudenza di questa Corte, tale assunto argomentativo non è fondato sotto due profili. In primo luogo, il giudice non ha l’obbligo di soffermarsi su ciascuno dei parametri indicati dalla norma citata, essendo semmai vero il contrario, cioè che sia sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti significativi ed adeguati nel caso concreto (Sez. U, n. 5519 del 21/4/1979, Pelosi, Rv. 142252). Inoltre, una specifica e dettagliata motivazione in ordine al quantum di pena irrogata, in tutte le sue componenti, appare necessaria soltanto nel caso in cui la pena sia pari o superiore al ‘medio edittale’, potendo altrimenti risultare sufficienti a dare conto del corretto impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. espressioni del tipo ‘pena congrua’, ‘pena equa’ o (nel caso di applicazione di una aggravante o della continuazione) ‘congruo aumento’, come pure il richiamo alla gravità del reato oppure alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36245 del 26/6/2009, COGNOME, Rv. 245596; Sez. 4, n. 46412 del 5/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283 -01). Nel caso di specie, a fondamento della statuizione contestata, la Corte di appello ha incensurabilmente valorizzato, oltre all’equità intrinseca di una pena che si colloca al un quarto del medio edittale (9 mesi di reclusione a fronte di tre anni) le modalità della condotta ed in particolare l’intensità del dolo, con una valutazione che risulta immune da critiche in questa sede.
4. Passando al ricorso presentato da COGNOME, va innanzitutto rilevata la genericità del primo motivo, che non si confronta con la motivazione della doppia conforme valutazione in punto di responsabilità dell’imputato per il fatto ascrittogli, contenuta nelle sentenze di primo (pg. 4) e di secondo grado (pg. 4 e 5). Le due pronunce, con parametri conformi, hanno infatti evidenziato la inconciliabilità dell’argomentazione difensiva (per cui COGNOME non sapeva dell’origine illecita dell’assegno) con le modalità concrete del reato, che predicano piuttosto di una unitaria deliberazione illecita, da intendersi estesa non solo agli aspetti esecutivi del raggiro ordito ai danni di NOME COGNOME, ma anche del precedente logico di tale condotta, costituito dagli aspetti attinenti alle modalità di ricezione congiunta dell’assegno provento di furto ai danni di NOME COGNOME.
Ed allora, è del tutto evidente che a fronte di una sentenza di appello che ha fornito, in conformità alla sentenza di primo grado, una risposta al motivo di gravame, la pedissequa riproduzione di esso come motivo di ricorso per cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi, pertanto, il motivo è necessariamente privo dei requisiti di cui all’ari. 581 c.p.p., comma 1, lett. d), che impone la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta. Ed è quindi inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi ripetitivi dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso. (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, COGNOME, Rv. 243838 -01; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, COGNOME, Rv. 255568 -01; Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, COGNOME, Rv. 259425 – 01).
Generico ed in ogni caso non consentito è il secondo motivo di ricorso, riguardante la mancata unificazione di più reati ascritti all’imputato e giudicati con distinte pronunce di condanna sotto il vincolo della continuazione. Il motivo è generico poiché non si confronta con le conformi motivazioni della sentenza di primo e di secondo grado (pg. 5 e pg. 6 rispettivamente), che hanno ravvisato l’orientamento esistenziale, cioè lo stile di vita delinquenziale, piuttosto che l’unitario disegno criminoso, quale base delle 19 condanne a carico dell’imputato accumulate in breve periodo. Inoltre, il motivo confligge altresì con il principio giurisprudenziale consolidato per cui, in tema di trattamento sanzionatorio, sotto ogni aspetto, dalla determinazione della misura della pena, all’applicazione e bilanciamento delle circostanze, al riconoscimento della continuazione, al giudice di merito spetta un’ampia discrezionalità nella valutazione delle premesse fattuali dell’applicazione degli aspetti sanzionatori che non soffre ingerenze da parte di questa Corte, una volta che la stessa si esprima in una motivazione che non sia
contraddittoria o manifestamente illogica. E nel caso di specie, non si può dire che sia manifestamente illogico (cioè rilevabile ictu ocuh) il ragionamento adottato dalla Corte che ha evidenziato una carenza difensiva (per non aver evidenziato ragioni d’unione tra le condotte di cui si chiedeva l’unificazione a dispetto della distanza spaziale e temporale), a fronte della “reiterazione compulsiva di analoghe condotte criminose” (pg.7) che erano state unificate proprio in ragione della prossimità temporale e spaziale (oltre che dell’unicità dell’autore), in questo caso non ricorrente o comunque non dimostrata.
Il terzo ed ultimo motivo del ricorso COGNOME è, per un profilo, non consentito e, per altro, manifestamente infondato.
In primo luogo, non è consentita in Cassazione la deduzione di vizi di motivazione indicati dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. (nel caso specifico: mancanza) con riferimento alle questioni di diritto, non solo quando la soluzione adottata dal giudice sia giuridicamente corretta, ma anche nel caso contrario, essendo, in tale ipotesi, necessario dedurre come motivo di ricorso l’intervenuta violazione di legge.
Inoltre, sotto il profilo (pure menzionato nella rubrica) della erronea applicazione degli artt. 157 e 160 c.p.p., il motivo si presenta come manifestamente infondato: basato su una isolata pronuncia (Sez.6, n.47269 del 09/09/2015, Fallani, Rv.265518) e su un’ulteriore sentenza non massimata che alla prima si riferisce (Sez. 3, n. 50763 del 19/10/2016, COGNOME), esso è stato respinto da una serie di pronunce che ne hanno demolito le premesse logiche. Si è, infatti, osservato che l’interpretazione proposta finirebbe con il conferire al giudice procedente una scelta applicativa (tra il disposto dell’art. 157 e quello dell’art.161 c.p.) che non avrebbe giustificazione e che sarebbe difficilmente sostenibile sul piano costituzionale. Si è aggiunto che in tutti i casi esemplificativamente menzionati nella sentenza Fallani quali applicazioni dell’enunciato principio immanente del ne bis in idem sostanziale (artt. 15, 61, 62, 68, 301, 581, comma 2, c.p.) è il legislatore che – lungi dal rimettere la relativa opzione all’assoluto arbitrio dell’interprete – indica i criteri in applicazio dei quali desumere la specifica rilevanza da attribuire in concreto all’elemento in astratto suscettibile di assumere doppia valenza; il che, in tema di prescrizione, non accade, a riprova dell’inapplicabilità del principio (Sez. 2, n. 13463 del 18/02/2016, COGNOME, Rv. 266532 – 01; Sez. 6, n. 48954 del 21/09/2016, COGNOME, Rv. 268224 – 01; Sez. 3, n. 50619 del 30/01/2017, COGNOME, Rv. 271802 – 01; Sez. 3, n. 50619 del 30/01/2017, COGNOME, Rv. 271802 – 01).
Per le suddette ragioni i ricorsi sono inammissibili. All’inammissibilità consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di € 3.000,00, così equitativamente fissata.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così 1leciso il 10 ottobre 2024